“L’ecosocialismo è più di una strategia, è un progetto di civiltà”
di Alexandre Araujo Costa e Daniel Tanuro
traduzione dall’inglese di Giovanna Tinè
Per molti anni le organizzazioni della sinistra non hanno prestato una grande attenzione ai problemi ambientali in generale, ma la Quarta Internazionale, almeno dal suo 15 ° Congresso, sembra essere sempre più preoccupata da quella che chiamiamo “crisi ecologica”. Cosa è cambiato?
In effetti, per quanto su questa emergenza si possa segnare come data simbolica la pubblicazione, nel 1962, del libro di Rachel Carson Primavera silenziosa, negli anni ‘60, quando la cosiddetta “crisi ecologica” emerse come una nuova questione di ampio interesse sociale, la maggior parte delle organizzazioni di sinistra non colse il punto. La ragione principale è che queste organizzazioni erano principalmente concentrate sulle guerre e sulle rivoluzioni anticoloniali nei paesi dominati (Cuba, Algeria, Vietnam, ecc.), sui movimenti di massa contro la burocrazia in Europa Orientale (Polonia, Ungheria) e sulla convergenza della radicalizzazione di giovani e lavoratori in Occidente.
Ma a mio avviso questa non è l’unica ragione. Si deve anche considerare che le organizzazioni della sinistra avevano una difficoltà di ordine teorico ad affrontare la crisi ecologica. Molti autori ad esempio provavano disagio rispetto alla denuncia della tecnologia capitalista e alla stessa idea dei limiti della crescita. In realtà il lavoro di Marx è molto ricco su questi temi, ma era come se i suoi successori avessero dimenticato i contributi da lui forniti (sulle enclosures, sulla rottura del metabolismo sociale tra genere umano e natura operata dal capitale, sulle conseguenze per la silvicoltura, l’agricoltura, la gestione della terra, ecc.). Questo è anche il caso di pensatori marxisti rivoluzionari molto creativi e aperti come il nostro compagno Ernest Mandel.
Voglio essere chiaro su questo: a mio avviso parlare della ecologia di Marx è un po’ una sopravvalutazione; non si può non tenere conto delle tensioni e delle contraddizioni nel lavoro di Marx ed Engels. Ma l’aspetto ecologico dell’eredità di Marx è davvero impressionante, e la sua critica dell’economia politica ci fornisce ottimi strumenti per svilupparlo. Perciò, come dovremmo spiegare il fatto che la maggior parte della sinistra marxista perse il treno dell’ecologia negli anni ’60? Lo stalinismo ebbe grande parte della colpa, naturalmente, ma questa spiegazione non è molto convincente nel caso delle correnti antistaliniste. Penso che sulla sinistra ci sia stata una contaminazione molto ampia delle concezioni produttiviste e scientiste. Iniziò alla fine del 19° secolo nella socialdemocrazia, e non fu davvero sradicata nel movimento comunista; forse perché la Russia, dove avvenne la rivoluzione, era un paese arretrato.
Penso che il cambiamento avvenuto da allora sia di tre ordini: in primo luogo, la minaccia nucleare ha favorito una crescente consapevolezza del fatto che le tecnologie non sono neutrali; in secondo luogo, le lotte indigene e dei contadini poveri hanno mostrato la dimensione sociale delle questioni ecologiche; in terzo luogo, alcuni autori hanno iniziato a rivisitare Marx sul tema della natura e a riportare in auge la sua eredità. Tuttavia la maggior parte della sinistra si è accontentata di un approccio puramente propagandistico, limitandosi a dire che nessuna alternativa ecologica è possibile nel quadro del capitalismo; il che è vero, ma ciò non significa che non abbiamo bisogno di richieste e riforme ecologiche concrete, articolate insieme alle rivendicazioni sociali in un programma di transizione.
Un passo importante nella direzione di questo programma fu il Manifesto Ecosocialista scritto da Michael Löwy e Joel Kovel nel 2001. L’iniziativa di questo manifesto fu spinta dal peggioramento della crisi ecologica e dal suo carattere globale, con la gravissima minaccia dei cambiamenti climatici. Allo stesso tempo un numero sempre maggiore di attivisti all’interno delle nostre organizzazioni è coinvolto nei movimenti sociali sulla sfida ecologica, in particolare nel movimento per il clima e in quello per la sovranità alimentare (che sono strettamente collegati, dato il ruolo importante dell’industria agro-alimentare nel riscaldamento globale). Dal suo ultimo congresso, la Quarta Internazionale si è definita una organizzazione ecosocialista.
Dal tuo punto di vista quanto sono preoccupanti i cambiamenti climatici? È semplicemente una questione di usare le giuste tecnologie, come ad esempio sostituire i combustibili fossili con le fonti rinnovabili? Si può sanare il clima della Terra combinando la cattura del carbonio con la geoingegneria?
I cambiamenti climatici sono estremamente preoccupanti. Sono probabilmente la minaccia sociale ed ecologica più pericolosa che dobbiamo affrontare, con enormi conseguenze a breve, medio e lungo termine. Non voglio entrare troppo nel dettaglio, ma è necessario sapere che un aumento di temperatura di 3° C molto probabilmente provocherà un innalzamento del livello del mare di circa 7 metri. Ci vorranno un migliaio di anni o più per arrivarci, ma sarà impossibile arrestare il processo. Nel breve termine, gli specialisti pensano che un innalzamento del livello del mare di 60-90 cm potrebbe avvenire entro la fine di questo secolo. Ciò significherebbe centinaia di milioni di rifugiati. Se si prendono in considerazione gli altri effetti dei cambiamenti climatici (eventi meteorologici estremi, diminuzione della produttività agricola, ecc.), le conclusioni sono spaventose: al di sopra di una certa soglia non vi è alcuna possibilità di adattamento ai cambiamenti climatici per una umanità di 8-9 miliardi di persone. Dove si posiziona la soglia non è (solo) una questione scientifica, ma (soprattutto) politica. A Parigi i governi hanno deciso di agire al fine di mantenere il riscaldamento al di sotto dei 2° C e di cercare di limitarlo a 1,5° C. Una media di riscaldamento di 2°C va considerata come una catastrofe.
Ovviamente i cambiamenti climatici non sono l’unica minaccia: altre minacce sono la massiccia estinzione delle specie, l’acidificazione degli oceani, il degrado dei suoli, la possibile perdita della vita marina a causa dell’inquinamento da azoto e fosforo, l’inquinamento chimico, la riduzione dello strato di ozono, l’eccessivo sfruttamento delle risorse di acqua dolce e l’aumento della concentrazione di aerosol in atmosfera. Ma i cambiamenti climatici hanno un ruolo centrale e sono collegati, direttamente o indirettamente, anche alla maggior parte delle altre minacce: sono un fattore importante nella perdita di biodiversità, l’acidificazione degli oceani è causata dalla crescente concentrazione atmosferica di CO2, le quantità eccessive di azoto e fosforo negli oceani provengono dall’industria agro-alimentare, che ha un ruolo centrale nell’utilizzo eccessivo di acqua dolce e nella perdita di suolo, e così via. Il fatto che la maggior parte dei problemi sono interconnessi comporta che isolare la risposta ai cambiamenti climatici dalla risposta alle altre sfide sarebbe un errore. Tuttavia, tutte queste sfide ecologiche hanno fondamentalmente la stessa origine: l’accumulazione capitalistica, la crescita quantitativa spinta dalla corsa al profitto.
Ciò significa che i cambiamenti climatici sono molto più di una questione tecnologica. Essi pongono il problema fondamentale di una alternativa globale a questo modo di produzione. Questa alternativa è oggettivamente urgentissima, così urgente che anche dal punto di vista tecnologico la strategia del capitalismo verde risulta una strategia parziale. Certo, è perfettamente possibile fare affidamento solo sulle fonti rinnovabili per produrre tutta l’energia di cui abbiamo bisogno. Ma come si producono pannelli fotovoltaici, generatori eolici e altri dispositivi? Con quale energia? Bisogna logicamente considerare che la stessa transizione richiede una quantità extra di energia, e che questa energia in più, essendo per l’80% di origine fossile al momento in cui inizia la transizione, provocherà emissioni aggiuntive di CO2. Pertanto è necessario un piano al fine di compensare tali emissioni aggiuntive con dei tagli alle emissioni da realizzarsi altrove. In caso contrario le emissioni globali continuerebbero ad aumentare anche se la quota di energie rinnovabili crescesse rapidamente, il che significa che potrebbe essere superato il cosiddetto “bilancio del carbonio”, cioè la quantità di carbonio che è possibile aggiungere in atmosfera se si vuole avere una certa probabilità di non superare una certa soglia di aumento di temperatura prima della fine del secolo. Secondo l’IPCC, il bilancio del carbonio per 1,5° C e il 66% di probabilità è di 400 Gt per il periodo 2011-2100. Le emissioni globali sono di circa 40 Gt/anno, e stanno crescendo. In altre parole, il bilancio del carbonio per 1,5° C sarà speso già nel 2021. Dunque abbiamo già raggiunto il limite. Questo è il risultato concreto della frenesia capitalistica del profitto e del suo rifiuto di pianificare la transizione in funzione delle riduzioni di emissioni necessarie.
Qui si apre il dibattito sulla cattura del carbonio e sulla geoingegneria. Nel quadro del sistema produttivista capitalistico, la cattura del carbonio e la geoingegneria sono le uniche “soluzioni” possibili per compensare il superamento del bilancio del carbonio. Uso le virgolette perché queste sono soluzioni da apprendista stregone. Una delle tecnologie più mature è la cosiddetta bioenergia con cattura e sequestro del carbonio (BECCS). L’idea è quella di sostituire i combustibili fossili con la biomassa nelle centrali elettriche, per catturare la CO2 derivante dalla combustione e immagazzinarla in strati geologici. Poiché le piante, crescendo, assorbono CO2 dall’atmosfera, un utilizzo massiccio di BECCS dovrebbe consentire di ridurre l’effetto serra, e di conseguenza migliorare il bilancio del carbonio. È una soluzione molto ipotetica, anche perché nessuno sa se sarà tecnicamente possibile mantenere la CO2 nel sottosuolo, e per quanto. Allo stesso tempo è una risposta estremamente complicata al problema, perché produrre la biomassa necessaria richiederà superfici di terra enormi: circa l’equivalente di un quinto o un quarto della terra utilizzata oggi per l’agricoltura. Da un lato, la conversione a piantagione di biomassa delle terre coltivate sarebbe dannosa per la produzione alimentare; dall’altro, situare le piantagioni industriali di biomassa in zone non coltivate comporterebbe una terribile distruzione della biodiversità e un depauperamento fenomenale della natura. Diciamo che è molto discutibile che il 95% degli scenari climatici dell’IPCC includano l’implementazione di tale tecnologia. Tra parentesi, ciò è ulteriore prova del fatto che la scienza non è neutrale e oggettiva, soprattutto quando si tratta di fare proiezioni socio-economiche.
È importante notare che il fatto che il bilancio del carbonio per 1,5° C sarà superato e che anche il bilancio di 2° C sarà probabilmente superato con rapidità non significa che dobbiamo accettare le tecnologie capitaliste come il male minore, anzi. La situazione è estremamente grave; ridurre e cancellare di emissioni di carbonio non sarà sufficiente. Per salvare il clima è necessario rimuovere il carbonio dall’atmosfera. Ma questo obiettivo può essere meglio conseguito senza ricorrere alla BECCS o ad altre tecnologie pericolose. La ragione per cui il capitalismo opta per tecnologie come la BECCS è che queste soddisfano la corsa al profitto. L’alternativa è quella di sviluppare e generalizzare un’agricoltura contadina biologica e un’attenta gestione delle foreste e della terra, nel rispetto delle popolazioni indigene. In questo modo, sarà possibile rimuovere grandi quantità di carbonio dall’atmosfera e conservarlo nel suolo, favorendo contemporaneamente la biodiversità e fornendo buon cibo per tutti. Ma questa opzione necessita di una feroce battaglia anticapitalista contro l’agrobusiness e i proprietari terrieri. In altre parole, la soluzione non è nel campo della tecnologia, ma in quello della politica.
Recentemente Oxfam ha presentato uno studio che mostra che otto soli uomini controllano la stessa quantità di ricchezza di metà dell’umanità. Abbiamo anche battuto (di nuovo) il record della temperatura globale e la nostra atmosfera ha superato le 400 ppm di concentrazione di CO2. C’è una connessione tra i cambiamenti climatici e le disuguaglianze?
Certo che c’è. È ben noto che i poveri sono le principali vittime delle catastrofi in generale e delle catastrofi climatiche in particolare. Ovviamente ciò vale anche per le catastrofi climatiche causate dalle attività umane (più precisamente, dall’attività capitalista). Questo sta già avvenendo, come abbiamo visto chiaramente in tutte le regioni del mondo: nelle Filippine nel 2014 con il tifone Haiyan, negli Stati Uniti nel 2005 con l’uragano Katrina, in Pakistan nel 2010 con le grandi alluvioni, in Europa nel 2003 con l’ondata di caldo, in Benin e in altri paesi africani con i periodi di siccità e l’innalzamento del livello del mare, e così via.
Inoltre la risposta capitalista ai cambiamenti climatici funziona come acceleratore di questa disuguaglianza sociale. Questo perché tale politica si basa su meccanismi di mercato, in particolare sulla mercificazione e l’appropriazione delle risorse naturali. Essa è basata principalmente sull’”internalizzazione delle esternalità”, che significa che il prezzo del danno ambientale deve essere valutato e incluso nei prezzi di beni e servizi. Naturalmente, questo prezzo è poi trasmesso ai consumatori finali. Chi ha denaro può investire in tecnologie più pulite – ad esempio auto elettriche – gli altri non possono, e finiscono per pagare di più lo stesso servizio (in questo caso la mobilità).
Il settore assicurativo svolge un ruolo specifico nell’incremento delle disuguaglianze: si rifiuta di assicurare i rischi crescenti nelle zone dove vivono i poveri, o di migliorare i premi che le persone devono pagare alle aziende. Il settore finanziario in generale svolge un ruolo fondamentale perché investe nel mercato del carbonio, che è altamente speculativo. Ad esempio, investe nelle foreste perché la funzione delle foreste come pozzi di assorbimento del carbonio è stata mercificata. Di conseguenza, le popolazioni indigene sono private dei mezzi di sussistenza in nome della tutela della natura che esse hanno modellato e protetto per secoli. Un simile processo di espropriazione e proletarizzazione è in corso anche nel settore agricolo, ad esempio a causa della produzione di biocarburanti e biodiesel. Anche in questo caso la protezione della natura è utilizzata come pretesto per una politica che aumenta le disuguaglianze e impone il dominio delle multinazionali.
È probabile che questi meccanismi di mercato di mercificazione e appropriazione delle risorse acquisiranno sempre maggiore importanza in futuro, generando disuguaglianze sociali sempre più grandi. Ciò è evidente alla luce di quanto detto prima riguardo all’implementazione della geoingegneria, della BECCS in particolare. Ma va anche oltre: l’ultima relazione della Commissione Globale sull’Economia e il Clima, un influente think-tank presieduto da Sir Nicholas Stern, è dedicata al ruolo delle infrastrutture nella transizione verso una cosiddetta green economy. Il documento definisce la natura in generale come “infrastruttura”, spiega la necessità di rendere le infrastrutture attraenti per i capitali e conclude affermando che una condizione essenziale per questa attrattività è la generalizzazione e la stabilizzazione delle norme sulla proprietà. Il capitale vuole potenzialmente incorporare la natura in generale, così come ha incorporato la forza lavoro (pur essendo la forza lavoro stessa una risorsa naturale).
Ci puoi dire qualcosa sulla connessione tra crisi ecologica e immigrazione e su quelle che pensi siano le tendenze per il futuro?
Questa è una delle conseguenze più terribili dei cambiamenti climatici. Come detto in precedenza, al di sopra di una certa soglia non vi è alcuna possibilità di adattamento ai cambiamenti climatici per una umanità di 8-9 miliardi di persone. I più a rischio sono coloro che saranno costretti a lasciare i luoghi in cui vivono. Questo processo è già in corso in diverse regioni, per esempio in Africa occidentale, dove si combina con gli effetti della guerra, della dittatura, del terrorismo e del land grabbing operato dalle multinazionali. È in corso anche in Bangladesh, in Vietnam e in alcuni piccoli stati insulari. Cosa fanno le persone che fuggono? Si concentrano nelle periferie delle città. Le loro strutture sociali risultano ampiamente influenzate, in particolare le relazioni di genere, con una perdita di potere economico per le donne. Alcuni, per lo più uomini, cercano di migrare verso i paesi ricchi. Se sopravvivono al viaggio, cercano di inviare denaro alla famiglia. È un disastro enorme.
Come valuta l’ascesa di Trump in questo quadro?
La cifra che ho indicato del bilancio del carbonio per 1.5° C significa che Trump arriva al potere in un momento in cui i cambiamenti climatici stanno diventando incontrollabili. Durante la sua campagna Trump ha detto che i cambiamenti climatici sono una bufala “creata dai cinesi” al fine di far perdere competitività alla produzione statunitense e ha promesso di abbandonare l’accordo di Parigi. Il suo staff è pieno di negazionisti del clima e la persona da lui scelta per condurre l’EPA vuole distruggerla dall’interno, dopo aver tentato per decenni di farlo dall’esterno come procuratore generale dell’Oklahoma.
Tutto questo è estremamente preoccupante. Noi non siamo sostenitori dell’accordo di Parigi, né del “contributo nazionale” (NDC) di Obama a questo accordo: entrambi sono del tutto inadeguati dal punto di vista ecologico e profondamente iniqui da un punto di vista sociale. In particolare sappiamo che c’è un enorme divario tra l’obiettivo dell’accordo di Parigi (1,5-2° C) da un lato, e l’impatto cumulativo del contributo nazionale (2,7-3,7° C) dall’altro. In termini di emissioni questo divario sarà pari a circa 5,8 Gt nel 2025. Per valutare l’impatto di un’eventuale decisione degli Stati Uniti di abbandonare l’accordo, bisogna sapere che il contributo nazionale degli Stati Uniti equivale ad una riduzione di emissioni di 2Gt entro il 2025 (rispetto al 2005), e che queste 2Gt rappresentano circa il 20% dello sforzo globale incluso nei contributi nazionali dei 191 stati firmatari dell’accordo. Di conseguenza il programma di Trump, se messo in pratica, significherebbe che gli Stati Uniti aggiungerebbero 2Gt di carbonio al gap di 5,8 Gt tra ciò che i governi hanno promesso di fare a livello mondiale e ciò che dovrebbe essere fatto per non superare un aumento di temperatura di 1,5° C. In altre parole, con il contributo degli Stati Uniti sarà davvero molto difficile non superare i 2° C, come ho detto prima; senza il loro contributo potrebbe essere impossibile.
Credo che la maggior parte delle classi dirigenti di tutto il mondo sia ormai convinta che i cambiamenti climatici sono una realtà, ed una enorme minaccia per il loro dominio, e che questa realtà minacciosa è di origine antropica. Ciò non è cambiato con l’elezione di Trump, come dimostrano le reazioni di Cina, India, UE, ecc. Persino l’Arabia Saudita ha confermato il proprio impegno per l’accordo di Parigi ed il contributo nazionale stabilito. Ma l’effetto della defezione degli Stati Uniti, se confermato, sarà che gli altri paesi saranno ancora meno disposti a intensificare i loro sforzi al fine di colmare il gap. Da questo punto di vista la posizione molto conservatrice dell’UE la dice lunga. Dobbiamo esigere che i governi in tutto il mondo intensifichino gli sforzi sul clima, da un lato al fine di colmare il divario tra l’accordo di Parigi e i contributi nazionali stabiliti, e dall’altro per compensare la defezione degli Stati Uniti. Questo è impossibile da ottenere nel quadro della politica capitalistica attuale: richiede riforme che rompano con la logica di mercato, come il trasporto pubblico gratuito, iniziative pubbliche per isolare gli edifici, il sostegno ai contadini contro l’agrobusiness e ai popoli indigeni contro le compagnie minerarie e del legname, ecc.
È vero che non sarà facile per Trump raggiungere il suo obiettivo, da un lato perché una parte della politica climatica degli Stati Uniti dipende da stati, città e imprese, e dall’altro perché la CO2 è registrata come agente inquinante nel Clean Air Act. Ma il problema va considerato in un contesto molto più ampio. Non è solo il problema della politica climatica di Trump, ma della sua politica in generale. Il progetto di Trump è quello di contrastare il declino dell’egemonia degli Stati Uniti nel mondo. Questo era anche l’obiettivo di Obama, ma il metodo di Trump è diverso. Obama voleva raggiungere questo obiettivo nel quadro della governance neoliberale globale. Trump vuole raggiungerlo attraverso una brutale politica nazionalista, razzista, sessista, islamofobica e antisemita. Egli si concentra principalmente sulla Cina capitalista, la potenza in crescita che potrebbe in futuro sfidare gli Stati Uniti. Questo progetto implica un grave pericolo di guerra, perfino di una terza guerra mondiale. Ci sono analogie sia con il declino dell’impero britannico e l’ascesa della Germania prima della prima guerra mondiale, sia con l’ascesa di Hitler in un contesto di profonda crisi economica, sociale e politica prima della seconda guerra mondiale (non dico che Trump è un fascista, non è questo il punto). Tuttavia in questa situazione, per forza di cose, l’urgenza della crisi climatica potrebbe essere relegata a questione secondaria, nonostante le persone più consapevoli all’interno delle classi dirigenti sappiano bene che non lo è.
Ma ogni cosa negativa ha il suo lato positivo. Il lato positivo della situazione è che la polarizzazione negli USA non va a beneficio solo della destra, ma anche della sinistra. La marcia delle donne, le mobilitazioni di massa contro il “Muslim ban” e la marcia per il clima del 29 aprile, tra le altre iniziative, mostrano che sconfiggere Trump è possibile. La sfida è enorme, non solo per chi vive negli Stati Uniti, ma per tutti noi, in tutto il mondo. Nella situazione attuale sconfiggere Trump è il modo migliore per combattere per il clima. In tutti i paesi dovremmo cercare di dar seguito alla mobilitazione sociale degli Stati Uniti. Il movimento delle donne negli Stati Uniti ha appena lanciato un appello internazionale ad unirsi alla loro lotta l’8 marzo (Giornata internazionale della donna). Questo è l’esempio da seguire. Nello stesso spirito, dovremmo cercare dappertutto di organizzare manifestazioni per il clima il 29 aprile (o il 22, data di una marcia per la scienza negli Stati Uniti). Non per sostenere l’accordo di Parigi, naturalmente, ma per presentare richieste ecosocialiste radicali.
Poiché il mondo in cui viviamo è così profondamente modificato dalle attività umane, molti scienziati concordano sul fatto che siamo entrati in una nuova epoca geologica: l’Antropocene. Quali implicazioni pensi che questo debba avere per il programma e la strategia della sinistra rivoluzionaria?
Questo è un dibattito molto interessante. Gli scienziati considerano la seconda guerra mondiale come l’inizio dell’Antropocene. Ciò perché è solo da quel momento che l’impatto delle attività umane ha provocato cambiamenti geologici come l’innalzamento del livello del mare, le scorie nucleari, l’accumulo di nuovi tipi di molecole chimiche, ecc. Da un punto di vista geologico ciò è un dato di fatto fondato su elementi oggettivi. Ma alla base ci sono due dibattiti di ordine sociale e politico: uno è sui meccanismi che guidano questo cambiamento oggettivo, l’altro sulle implicazioni in termini di programma e strategia. Queste due questioni sono collegate.
Il dibattito sui meccanismi è un dibattito sui motivi per cui l’umanità sta distruggendo l’ambiente. Naturalmente il capitalismo è il maggiore responsabile di questa distruzione: la sua logica di crescita, di produzione di valore astratto e di massimizzazione del profitto è incompatibile con la sostenibilità ecologica. Il carattere esponenziale delle curve che mostrano l’evoluzione dei diversi aspetti della crisi ecologica in funzione del tempo ne è un chiaro esempio: tutte queste curve (emissioni di gas serra, assottigliamento dello strato di ozono, inquinamento chimico, concentrazione di aerosol nell’atmosfera, perdita di specie, ecc.) mostrano un punto di flessione dopo la seconda guerra mondiale. Il legame con l’onda lunga di espansione capitalistica è assolutamente evidente. Negare la grande responsabilità del capitalismo, far finta che l’Antropocene sia un risultato non del capitalismo ma dell’Homo sapiens, o perfino del genere Homo, è ridicolo.
Ma questo non è tutto, poiché la distruzione ambientale esisteva prima del capitalismo, ed esisteva anche su vasta scala nelle società non capitaliste del XX secolo. C’è una certa somiglianza con l’oppressione delle donne: essa esisteva prima del capitalismo e ha continuato nelle cosiddette “società del socialismo reale”. La conclusione dell’analisi è la stessa in entrambi i casi: abolire il capitalismo è una condizione necessaria, non sufficiente, per l’emancipazione delle donne e per una relazione non predatoria del genere umano con il resto della natura. Nel campo della liberazione delle donne, l’implicazione di questa analisi è duplice: le donne hanno bisogno di un movimento autonomo, e i rivoluzionari dovrebbero costruire una tendenza socialista all’interno di questo movimento. Qui risulta chiaro il limite del confronto, perché ovviamente nessun movimento autonomo della natura può intervenire nel dibattito sociale.
Quali conclusioni possiamo trarre da ciò? Che alcuni esseri umani devono intervenire a favore della natura nel dibattito sociale. Questo è quello che vogliono fare gli ecosocialisti. Quindi l’ecosocialismo è molto più di una strategia per collegare le esigenze sociali e ambientali: si tratta di un progetto di civiltà volto a sviluppare una nuova coscienza ecologica, una nuova cultura del rapporto con la natura, una nuova cosmogonia. Naturalmente nessuno può determinare in anticipo il contenuto di questa nuova coscienza, ma penso che le linee guida dovrebbero essere quelle del rispetto, dell’attenzione e della cautela. Sappiamo che il genere umano ha una capacità enorme di dominare, capacità che è un prodotto della nostra intelligenza. Ma il “dominio” può essere inteso in due sensi: da un lato come atto di brutalità e appropriazione, dall’altro come capacità di comprendere e risolvere problemi difficili. Dobbiamo con urgenza smettere di dominare la natura nel primo senso e cercare di “dominarla” nel secondo senso – come un bravo studente conosce perfettamente la propria materia di studio. Abbiamo causato enormi distruzioni, ma non vi è alcun motivo per cui la nostra intelligenza non possa essere utilizzata per prenderci cura della natura e, se possibile, per ricostruire ciò che abbiamo distrutto. Nonostante, al contrario di quanto dice Jared Diamond, alcune altre società del passato si siano prese cura del loro ambiente di vita in modo molto saggio grazie ad una profonda conoscenza di esso.
Quello che ci serve, insomma, non è solo una rivoluzione sociale, ma anche una rivoluzione culturale. Essa deve iniziare immediatamente attraverso cambiamenti comportamentali molto concreti, ma non è una pura questione di comportamenti individuali; le modifiche devono essere promosse socialmente e andranno avanti anche attraverso lotte concrete. Le società indigene sono una fonte di ispirazione in questo. Credo che, per ovvi motivi, i piccoli contadini avranno un ruolo decisivo in questo processo. E anche le donne; non perché sarebbero più sensibili “per natura”, ma a causa della loro oppressione specifica. In primo luogo, dato che producono l’80% del cibo, le donne si confrontano direttamente con la realtà e le conseguenze del degrado della natura. In secondo luogo, come risultato dell’oppressione patriarcale, le donne sono più spesso incaricate dei compiti di riproduzione all’interno della famiglia: questo dà loro un punto di vista specifico sull’importanza delle tre linee guida che ho citato prima: rispetto, attenzione e cautela.
da: internationalviewpoint.org/