Quando la guerra tornò in Europa

25 anni fa le bombe su Belgrado. Oggi possiamo considerarle l’anteprima di quanto sta accadendo da due anni in Ucraina. La straordinaria attualità delle considerazioni di François Verkammen scritte all’epoca dell’attacco Nato ★

25 anni fa le bombe su Belgrado. Oggi possiamo considerarle l’anteprima di quanto sta accadendo da due anni in Ucraina. La straordinaria attualità delle considerazioni di François Verkammen scritte all’epoca dell’attacco Nato ★

25 anni fa, nel marzo del 1999, la Nato decideva di intervenire militarmente nella crisi e nei conflitti che avevano portato alla dissoluzione della Federazione socialista Iugoslava sorta con la vittoria partigiana nella seconda guerra mondiale, bombardando la Serbia dell’ultranazionalista Milosevic impegnato in una violenta campagna di annientamento e di dominio del Kosovo.

Aveva così inizio l’operazione “Allied Force”, una serie di bombardamenti della Nato sulla capitale Belgrado e su molti altri obiettivi militari e civili del paese che ha visto coinvolti Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia, Italia, Canada, Spagna, Portogallo, Danimarca, Norvegia, Turchia, Paesi Bassi e Belgio.

Era l’ultimo tragico episodio delle guerre che avevano insanguinato la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia; conflitti armati, guerre civili, scontri interetnici, divisioni, ignobili cricche nazionaliste all’opera, terribili stragi (Sebrenica) e oppressione dei popoli, il mito della Grande Serbia, potenze occidentali ben attive per restaurare il capitalismo e smantellare la Federazione, ruolo e impotenza dell’ONU sono tutti gli elementi che hanno infiammato l’intera regione dei Balcani per un decennio: la Guerra d’indipendenza slovena (1991), la Guerra in Croazia (1991-1995), la Guerra in Bosnia ed Erzegovina (1992-1995), la Guerra del Kosovo (1998-1999), il Conflitto nella Repubblica di Macedonia (2001).

La campagna di bombardamenti Nato iniziata il 24 marzo terminò l’11 giugno 1999, coinvolgendo fino a 1.000 aerei, operanti principalmente da basi in Italia e portaerei di stanza nel mar Adriatico, con la resa della Serbia.

L’Italia, allora governata dal centro sinistra a guida Massimo D’Alema, fu pienamente partecipe sul piano politico e militare di questa guerra della Nato, il principale territorio da cui partivano gli attacchi dell’alleanza occidentale.

In 78 giorni, i bombardamenti sul territorio della Serbia e del Kosovo provocarono molti morti e distruzione. Oltre agli obiettivi militari, come in ogni guerra, vennero colpiti anche quelli civili. Vennero distrutte case, ponti, ospedali, scuole, edifici pubblici e culturali, lasciando un numero indefinito di vittime. Le stime parlano di cifre che variano fra i 1200 e 2500 morti, oltre 12000 feriti e un numero di profughi che varia da 700 mila a un milione.

La guerra era tornata in Europa e con essa i bombardamenti sulle città. Oggi possiamo considerarla un anteprima di quanto è successo negli ultimi due anni con l’invasione e l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia e la guerra che ne è seguita con il minaccioso profilarsi di un conflitto sempre più ampio e diretto tra diverse forze imperialiste e la corsa mondiale al riarmo e alla propaganda bellica.

Per questo pensiamo utile riproporre la lettura  di un articolo del maggio 1999 di François Vercammen, dirigente belga della Quarta Internazionale, la cui preziosa attività politica ed intellettuale sarà purtroppo interrotta di lì a pochi anni da una insidiosa malattia.

Nell’analisi di quegli avvenimenti sono individuati molti elementi che si presenteranno in forma molto più ampia e compiuta nella vicenda Ucraina, in particolare la presenza di due guerre che si intrecciano tra loro, lo scontro interimperialista, l’oppressione dei popoli da parte delle potenze maggiori, l’autodeterminazione, il ruolo dell’Unione Europea e l’Europa militare, il rapporto USA Europa, la propaganda mediatica bellicista, le derive campiste di settori di sinistra. Un’attenzione particolare è dedicata al ruolo e alle scelte delle forze politiche europee allora largamente dominanti, la socialdemocrazia e i partiti della destra tradizionale; entrambe subiscono oggi la forte concorrenza delle nuove destre cosiddette “sovraniste” ed in particolare delle estreme destre, in ascesa in tanti paesi del continente.

Fin dal suo prologo questo articolo dispiega una problematica analitica e politica di quella vicenda che ci cala immediatamente anche nel presente.

L’Europa, la guerra e la sinistra

di François Vercammen

La guerra è tornata in Europa: la perplessità e l’indifferenza iniziali hanno ceduto il passo a una crescente presa di coscienza della gravità di quanto sta accadendo. Ma essa resto ancora distante, salvo alle due frontiere: in Grecia, anch’essa paese balcanico, e in Italia, vera portaerei. L’effettivo choc deve ancora venire con l’eventuale invasione degli eserciti statunitense ed europei e il loro scontro su larga scala con l’esercito serbo.

Ma si può già dire che questa brutale offensiva imperialista graverà con tutto il suo peso sulla situazione mondiale per almeno vari aspetti importanti:

•           la riabilitazione della guerra a partire da due ragioni: a) il ricorso alla guerra acquista, per mezzo della tecnologia moderna, una nuova “fattibilità” pratica e controllabile anche nel mondo civilizzato (ossia vicino all’Europa e alla Russia); nuova legittimità che si sostituisce, per regolare i grandi problemi dell’umanità (salvataggi umanitari, rovesciamento delle dittature, garanzia dei diritti nazionali in seno a Stati sovrani eccetera) all’attività politica e sociale”; b) la “nuova concezione” della Nato vista ormai come garante dei “grandi valori occidentali” nel mondo e che sarebbe sovrana anche in rapporto all’Onu;

•           l’acutizzazione della rivalità tra gli Stati uniti e l’Europa, ricondotta a un ruolo subalterno sul piano politico e militare nel suo stesso territorio che spingerà le classi dominanti verso la costituzione di una “Europa militare”.

Questi tre fattori, considerati insieme, stimoleranno sicuramente la recrudescenza del militarismo nel mondo a cominciare dalla rivalità interimperialista (Giappone compreso) e dall’impatto che, a medio termine, colpirà le società dell’Unione europea (UE): il “clima ideologico”, le strutture e le scelte fondamentali della società, lo spazio democratico, la gestione della conflittualità sociale, la percezione della sovranità dei paesi, le capacità politiche e auto emancipatrici delle classi e strati subalterni. Già la natura delle differenti forze politiche e sociali e i loro riallineamenti hanno ricevuto un forte impulso. L’esito della guerra peserà notevolmente su questi sviluppi.

Le due guerre

I Balcani sono teatro di due guerre che si intrecciano. Questa combinazione ha favorito una immensa manipolazione dell’opinione pubblica e generato una grande confusione in seno alla sinistra.

La prima delle due, dal punto di vista cronologico, è quella della corsa al potere a Belgrado che tenta di imporre la Grande Serbia attraverso l’epurazione etnica del Kosovo. La seconda è quella “umanitaria”. condotta dall’imperialismo occidentale per rovesciare Milosevic e il suo regime.

La guerra di Milosevic deriva direttamente dalla decomposizione della Jugoslavia, dalla transizione violenta al capitalismo, dagli scontri tra le differenti cricche (serba, croata, slovena, bosniaca) prodotte dalla vecchia nomenclatura, che si fanno la guerra per appropriarsi delle ricchezze e dei mezzi dl produzione.

Dopo il 1991, le borghesie europee e statunitensi sono state parte trainante di tale processo di restaurazione capitalistica, e sono attivamente intervenute per aiutare lo smembramento dello Stato ex jugoslavo: ciascuna per proprio conto hanno appoggiato le cricche nazionaliste (Trujman, Milosevic) per contenere la situazione. La dinamica destabilizzatrice ha investito l’insieme della regione. Il fallimento politico ha colpito le classi dominanti dell’UE, incapaci di mettervi fine, e quindi obbligate a fare appello agli Stati uniti, che vi hanno visto una splendida occasione per imporre la “nuova ragion d’essere della Nato” e la loro presenza in Europa, ormai ineludibile in qualsiasi regolamento politico della guerra con gli appetibili affari in prospettiva. Sarebbe sbagliato scegliere fra i due campi: significherebbe preferire una classe dominante in guerra piuttosto di un’altra, una solidarietà piuttosto che un’altra.

Il popolo kosovaro e il popolo serbo soffrono, ciascuno nella propria situazione per l’oppressione e la brutalità di Milosevic. I bombardamenti della Nato si sono rivelati più efficaci di Milosevic stesso nello spegnere l’opposizione democratica, multietnica e progressista in Serbia e nel resto dei Balcani. Gli hanno fornito l’alibi desiderato per accelerare l’annientamento dei kosovari programmato da molto tempo. La Nato non li ha protetti e nulla garantisce che non concluderà un accordo (indegno per quanto riguarda i diritti nazionali e democratici) con quello stesso Milosevic che pretende di voler eliminare.

La battaglia per l’opinione pubblica

L’opinione pubblica non percepisce così la situazione. Dopo uno sbandamento iniziale, la Nato, nel giro di tre settimane, ha vinto la battaglia: per quanto riguarda le cause, il fine e l’adeguatezza dei mezzi ha imposto la sua versione: proteggere la popolazione kosovara contro Milosevic attraverso attacchi militari.

Ha utilizzato il grimaldello di una doppia promessa: una guerra “umanitaria” e “di breve durata”. I bombardamenti sarebbero perfettamente mirati, non uccidendo né soldati occidentali, né civili serbi (solo i soldati serbi). ln questa guerra “tutta umanitaria”, le popolazioni sono spinte ad aiutare materialmente i rifugiati kosovari. Il loro dramma, straziante e ben reale, è stato utilizzato per una sporca messa in scena che tenta di annientare ogni comprensione politica.

Le popolazioni hanno risposto in massa a questi appelli. Ma una simile manipolazione è piena di contraddizioni: al suo livello più elementare, ma che potrebbe essere decisivo, contiene una contraddizione tra il fine e i mezzi: fin a quando la gente accetterà bombardamenti sempre più devastanti (compresi i loro “errori”) con la scusa di questo obiettivo umanitario, mentre tutto intorno la barbarie sale?

Se esiste, infatti, un appoggio massiccio nella popolazione (salvo in Grecia), toccata dal martirio del popolo kosovaro, questo è però fragile. Poggia su una mescolanza di molti elementi tra i quali dominano la generosità e la compassione per la sofferenza. La sola base politica che le è stata data con una propaganda grossolana e cinica, è quella che assimila Milosevic a Hitler, e il martirio kosovaro al genocidio degli ebrei.

L’adesione delle popolazioni è doppiamente limitata. Innanzi tutto, propone un aiuto pratico, materiale, immediato, filantropico. Secondo i sondaggi (da prendere con molte precauzioni), la generosità giunge al punto da accettare i rifugiati, anche con uno statuto “favorevole” (cosa che invece i governi dell’Ue, riuniti, hanno rifiutato per paura dell’impatto sulle elezioni europee di giugno). Ma senza mettere in questione il proprio (relativo) comfort. Per riassumere “si è pronti ad aiutare, purché la guerra resti laggiù, e i rifugiati/deportati anche; che si inviino al limite delle truppe, ma per sistemare la questione una volta per tutte”.

Un fragile consenso

C’è inoltre un secondo limite, politico: non c’è clima di vero “bellicismo” nella popolazione, del genere di quello che, una volta creato, spinge alla rinuncia a rivendicazioni sociali immediate, che delegittima totalmente le lotte, che riconcilia in modo evidente e spettacolare le classi, che prepara a sacrifici, psicologici prima, materiali poi.

Del resto, se i partiti tradizionali nelle opposizioni parlamentari sostengono le politiche governative, non rinunciano però alla lotta politica. La distanza che conservano nei confronti dei governi non appare affatto come un “tradimento nazionale” agli occhi della popolazione. I capi di Stato o di governo aumentano la loro “popolarità “, ma questo non vale automaticamente per gli altri ministri e ancor meno per i partiti di governo.

I governi della Ue hanno ben misurato la precarietà o addirittura la volatilità dei sentimenti popolari: un’inversione della psicologia delle masse non è da escludere nel caso di un incidente, di qualche “errore”, del tentativo di allargare la guerra, della morte di soldati Nato. Tutti devono manovrare per rispondere a tre esigenze politiche: mostrare una fedeltà indefettibile alla Nato per quanto riguarda la politica militare in atto; assicurare la stabilità interna di fronte ai rischi della situazione politica e sociale (soprattutto nelle elezioni del giugno 1999); difendere gli interessi materiali e politici “nazionali” nella UE e quelli della UE in quanto tale di fronte al grande peso del governo statunitense.

Tutti i governi della UE (salvo quello britannico) sono obbligati ad accontentarsi di un consenso “tiepido”, fondato sullo “aiuto ai kosovari ” e invocante una “interruzione dei raid” e che invoca “piani di pace” e una fine rapida della guerra. Solo Blair chiede apertamente la guerra di terra. La costituzione di un “gabinetto di guerra” nei paesi della UE, che metterebbe subito sottosopra le coalizioni governative e i loro programmi, non è all’ordine del giorno. In Italia, paese che subisce direttamente le conseguenze della guerra, l’opposizione di destra (Berlusconi) ha sollevato la questione, ma la richiesta di condizionare lo sforzo di guerra, piuttosto che aiutare la “coesione” relativa che D’Alema ha saputo mantenere, è apparsa troppo politicista. Soli, Clinton e Blair, preparano il terreno insistendo sulla durata del conflitto (“mesi e mesi”, “fino ad agosto” eccetera). Per il momento l’opposizione a una guerra di terra è quasi generale in Europa. E Clinton ha appena subito una sconfitta umiliante alla Camera dei Rappresentanti.

L’Ue e la rivalità con gli Usa

Tutti i governi della UE si sono molto facilmente allineati allo schema di guerra della Nato. Una volta ancora la Seconda internazionale, con l’aggiunta dei Verdi, ha reso un grande servizio alla classe dominante. Per la socialdemocrazia, ciò era nella logica dopo il 1914. Tre quarti di secolo dopo, i Verdi ne seguono le orme.

Le opposizioni alla guerra a sinistra sono, almeno finora, altrettanto minoritarie che quelle del 1914, e certamente più deboli di allora sul piano politico. C’è, peraltro, un’altra “opposizione” più “rispettabile” e meno visibile, “anti-americana”, che si riflette nelle voci dissonanti e nelle manovre politiche di alcuni governi europei e che si esprime più nettamente attraverso personaggi borghesi di primo rango, intellettuali “organici” dell’establishment (grandi giuristi eccetera) e certi partiti politici. Il “partito americano”, infatti, a parte Blair in Europa è assai discreto.

È il sintomo che la questione politica che dominerà questo dopoguerra, sarà certamente il rapporto UE-Usa. Un aspetto di questa doppia guerra dei Balcani, infatti, sarà la aperta rivelazione della rivalità inter-imperialista (con, non ne dubitiamo, una spinta della classe dominante giapponese verso la sua autonomia militare) attorno alla formazione di un braccio armato dell’UE, in seno alla Nato ma dotata di operatività politica e militare.

La contraddizione per le classi dirigenti della UE è veramente troppo flagrante: l’anno 1999 che consacra il trionfo dell’Unione monetaria, è anche quello in cui l’UE non riesce a sistemare la questione serba senza gli Stati uniti, i quali ne approfittano per estendere il loro dominio tecnico-militare e politico sul continente europeo creandosi un centro operativo in direzione della Russia.

Contrariamente a una mistificazione neoliberale, lo Stato nazionale, come sede della violenza armata, resta un mezzo indispensabile nella concorrenza economica mondiale. L’UE non dispone di tale strumento per le stesse ragioni che hanno pesato sulla creazione dell’Unione monetaria: l’impossibilità di attribuire poteri statali a una istituzione sopranazionale, paralisi che ha pesato anche sulla Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Ma intanto, i grandi gruppi industriali-finanziari dell’Europa, per quanto multinazionali, hanno un grande “bisogno di Stato” che, di fronte ai loro concorrenti americani e giapponesi, dovrebbe essere europeo.

L’Europa militare

Da prima di questa guerra, si era delineato, nell’autunno 1998, un riavvicinamento spettacolare, quando Blair si dichiarò favorevole a una “difesa europea comune”, sempre sotto l’ombrello Nato, ma autonoma. Schroder ha immediatamente reagito favorevolmente. L’asse anglo­tedesco, già in preparazione sul piano della politica economica (alle spalle di Lafontaine) si è sostanzialmente rafforzato.

Se tutti i paesi dell’UE sono favorevoli (si vedano i trattati di Maastricht e di Amsterdam) questi due vi hanno un interesse particolare. Blair ha dichiaratamente optato per entrare nell’Unione monetaria (UM). Ormai la classe dominante vuole arrivarci, e in fretta: la City, i grandi gruppi, con il ruolo particolare delle multinazionali straniere delle quali si riconosce il peso importante nell’industria “britannica”. Blair non è più ostacolato da un partito conservatore assottigliato, anche se resta un settore importante dell’opinione pubblica che recalcitra per sciovinismo e isolazionismo.

La scelta di Blair è storica: implica un passaggio qualitativo nella “amicizia particolare” con gli Stati uniti. Contrariamente alle apparenze, questo non è contraddetto dai suoi tètè a tele con Clinton, dai suoi eccessi retorici in favore della guerra e dalla sua identificazione con la Nato. La manovra è brillante: Blair si piazza al fianco dei vincitori (presunti), sopravanza Clinton (indebolito dall’affare Lewinsky, dall’opposizione nel Parlamento e nella opinione pubblica) e si pone come perno centrale tra gli Usa e l’UE, in coerenza con la sua scelta per l’UM. La sua flessibilità tattica, Blair la deve non alla sua intelligenza ma all’eredità di Margaret Thatcher che, infliggendo una disfatta al movimento operaio, ha liberato lo Stato britannico da ogni pressione popolare organizzata.

Per Schröder, più che per Blair, questa difesa europea comune è la sola via praticabile per affermare la “nuova forza tedesca”, a causa dei fardelli della storia tedesca. Certo lo spettro del Sonderweg, la “via separata”, si manifesta di tempo in tempo. Per esempio, al momento dell’unificazione tedesca che riapriva la via possibile e prioritaria verso l’Est. Kohl, meno primitivo di quanto sembrasse, fu sottile nell’accettare il principio dell’unione monetaria. Oggi la Germania vuole monetizzare il suo peso economico (l’impressionante spinta del grande capitale nell’area europea e mondiale: Deutsche Bank, Allianz, Daimler, Deutsche Telekom, eccetera): il discorso di Schröder fu chiaro al momento dell’inaugurazione del nuovo parlamento, a Berlino appunto. Ma ha bisogno di un aggancio europeo per arrivarci, almeno sul piano militare.

Tuttavia questo asse anglo-tedesco non è senza problemi. Deve fare i conti con il resto dell’UE e cioè concretamente con il posizionamento differenziato di ciascuno Stato nazionale. Per menzionarne uno solo, assai attuale: mentre Blair gioca con la “carta della guerra” Schröder punta sulla “pace”. Nei confronti della “sua” opinione pubblica il traumatismo del passato, la trasgressione della Costituzione tedesca (l’esercito all’estero, per di più fuori dalla zona Nato!), e nei confronti della Russia verso la quale la Germania ha la sua “amicizia particolare”. La classe politica americana è divisa sulla questione se ridimensionare ancora l’ex Urss o collaborare con essa. Blair tace e acconsente. Al contrario, la Germania ha scelto chiaramente, con l’amichevole sostegno materiale dell’UE, la “colonizzazione” verso l’Est. Questa è avviata e implica un rapporto stabilizzato con i governanti della Russia e con quelli del vasto continente europeo.

 In conclusione: l’Europa militare dovrebbe risolvere tre rilevanti problemi:

•           la tradizionale contraddizione tra i principali Stati che è la base dell’UE, come proto-stato sopranazionale, che offre un’ampia problematica sulle priorità politico-economiche nei campi della politica estera, della composizione e del funzionamento del comando, della riorganizzazione degli apparati militari nazionali, della costituzione di una industria militare europea che stenta a mettersi in moto;

•           i rapporti con gli Stati uniti, in seno alla Nato, ma con lo sfondo della ferocia della concorrenza e l’ampiezza degli interessi finanziari, commerciali e industriali coinvolti, fattore largamente minimizzato dai governi e dai media;

•           mettere le classi popolari in una condizione tale da far loro accettare i sacrifici: il che significherebbe in definitiva una nuova regressione del livello di vita, un aggravamento dello sfruttamento del lavoro, una limitazione pratica (e giuridica) delle libertà democratiche.

La sinistra con le spalle al muro

La singolarità di questa guerra, molto più che all’epoca delle grandi guerre precedenti, non è tanto il forte minoritarismo del movimento anti-guerra, quanto le sue divisioni e il suo smarrimento politico. In questo quadro, l’importanza che ha assunto la corrente “campista” che occulta o addirittura nega le responsabilità di Milosevic e pertanto la persecuzione dei kosovari e la negazione dei loro diritti democratici. Se il “campo socialista” è scomparso nella realtà, non lo è nella testa di certuni. In questo “campismo” è necessario distinguere. Non è solo l’area che si identifica come “comunista”, e che, nei Pc (talvolta alla direzione e ancor più spesso alla base) appoggia la cricca al potere a Belgrado, perché è un “regime socialista” perché Milosevic “è un uomo di sinistra”, il tutto mescolato con la nostalgia per la Jugoslavia di Tito (talvolta da parte di coloro che l’hanno odiato e denunciato per decenni). Si tratta anche di vecchi militanti e quadri del movimento pacifista (che non sono sprofondati nel sostegno alla Nato), dei movimenti di solidarietà internazionalista (soprattutto con l’America latina con cui si mescola la questione cubana). Più in generale si tratta di coloro che sono innanzi tutto colpiti dalla brutalità e dall’iniquità dei bombardamenti Usa. Più l’offensiva imperialista dura e diviene brutale, più la coscienza elementare anti-Nato si rafforzerà e, di conseguenza, la tentazione di gerarchizzare le sofferenze, le disgrazie e i diritti democratici dei popoli. Questo nuovo radicalismo anti-imperialista militante è pertanto positivo poiché l’offensiva della Nato sovrasta effettivamente tutta la situazione (e non si può immaginare quel che avverrà nel caso di una vera guerra terrestre). Ma la sua confusione è drammatica. Innanzitutto perché nega la realtà della guerra di Milosevic contro il popolo kosovaro, e poi perché così appare in filigrana l’idea che “la democrazia è secondaria” tanto per le popolazioni serbe e kosovare quanto nel seno del movimento nell’Ue stessa (tolleranza delle violenze della comunità serba che partecipa alle manifestazioni, soprattutto a Londra e a Amsterdam). Ma così si esclude una maggioranza di cittadini, fra i quali molti giovani, colpiti dagli orrori di Milosevic e dunque impedisce loro di sostenere “domani” la battaglia per la pace nei Balcani che si dovrà basare su una esigenza radicale di libertà democratiche e di diritti nazionali per tutti, in un quadro multietnico. Questa esigenza è anche profondamente anti-imperialista, poiché sono i governi europei e statunitense che, alla ricerca di una restaurazione capitalista stabile, hanno sempre favorito “la collaborazione di classe” con le cricche nazional­scioviniste in Serbia come in Croazia.

Se si è d’accordo a scendere in massa nelle strade per arrestare la guerra dai nostri governi nel quadro della Nato, si deve contemporaneamente condurre una battaglia di chiarificazione politica (sui due fronti: né la Nato, né Milosevic!). Essa sarà indispensabile non solo di fronte alla guerra, ma anche di più in rapporto ai nuovi orientamenti che stanno emergendo in Europa. Una difesa europea non si farà senza una battaglia sciovinista di grande portata per assicurarne la legittimità. Solamente così si decanteranno e si uniranno le forze politiche provenienti dalla sinistra radicale dall’area dei Pc, della sinistra socialdemocratica, dei verdi – per creare un punto di raccordo credibile, antimilitarista e internazionalista, oggi e domani.

1° maggio 1999

Segnaliamo il corposo dossier pubblicato dalla Biblioteca Livio Maitan in occasione dell’anniversario dello scoppio della guerra in Jugoslavia