25 aprile, la vicenda di “Bandiera rossa” 80 anni dopo

Tra il 1943 e il 1945 hanno operato forze antifasciste e rivoluzionarie esterne al CLN, e spesso persino apertamente polemiche con esso, impegnate nella lotta partigiana ma rigorosamente escluse dalla memoria istituzionale della Resistenza [Fabrizio Burattini]

Si trattava di forze che peraltro avevano operato clandestinamente nelle città del paese anche prima che i dirigenti e gli attivisti del PCI rientrassero dall’esilio, forze che in maniera implicita o anche dichiarata coniugavano la lotta contro il nazifascismo e contro l’occupante tedesco con una aspirazione verso un cambiamento socialista, anche se, pagando il prezzo di un isolamento e di una clandestinità durata vent’anni, quell’obiettivo era definito in termini piuttosto vaghi.

Erano movimenti che negli anni Quaranta organizzavano con questa prospettiva politica migliaia di persone che rifiutavano l’unità nazionale e si muovevano in un’ottica di lotta di classe. Qui vogliamo parlare soprattutto del “Movimento comunista d’Italia” (MCd’I), più conosciuto come “Bandiera Rossa”, dalla testata del suo giornale clandestino.

Non si trattava di una setta minoritaria: infatti, Bandiera Rossa era la più grande forza della resistenza nella Roma occupata dalla Wehrmacht. Si era formata riunendo gruppi clandestini nati per iniziativa di singoli militanti nei quartieri della capitale e dei dintorni durante il periodo fascista, già negli anni 30, quando i dirigenti del PCI erano ancora in esilio. Combinava l’antifascismo militante con una fede quasi millenaristica in una rivoluzione imminente.

L’MCd’I era guidato da autodidatti residenti nella periferia popolare, artigiana, edile e bracciantile, nelle borgate e nelle baraccopoli della capitale. Durante l’inverno a cavallo tra il 1943 e il 1944, Bandiera rossa si era duramente impegnata in nove mesi di guerriglia urbana, pagando il tutto con la vita di 190 combattenti, tra i quali il sedicenne Antonio Calvani, il primo martire della Resistenza romana, caduto il 9 settembre 1943 nella difesa di Porta San Paolo dai tedeschi.

Dal punto di vista “ideologico” si trattava di un movimento che, diversamente dai dirigenti comunisti espatriati che avevano seguito gli zig-zag del Comintern, in qualche modo era rimasto fedele allo spirito rivoluzionario e intransigente del 1921, quando a Livorno aveva visto la luce uno dei partiti più radicali del movimento internazionale, alieno dalle compromissioni con le forze borghesi e conservatrici e persino alla unità con quelle socialdemocratiche. 

Ma il MCd’I era formato anche da ammiratori di Stalin, del tutto ignari del complesso e drammatico dibattito che aveva lacerato la dirigenza sovietica e della Terza Internazionale, ovviamente completamente all’oscuro del “testamento di Lenin”, convinto che l’avanzata dell’Armata Rossa sul fronte orientale fosse lo strumento dell’avanzamento storico e mondiale verso il socialismo.

Ma, paradossalmente, Bandiera rossa entrò in aspro conflitto con il PCI e con il suo gruppo dirigente, sia in opposizione alla linea strategica di quest’ultimo, ma anche e per certi versi soprattutto per difendere la propria organizzazione, visto che gli attivisti togliattiani, preoccupati dell’egemonia che Bandiera rossa aveva sulla resistenza romana, avevano cercato di infiltrarsi, in una sorta di “entrismo”, nel MCd’I.

Il MCd’I, infatti, era esplicitamente antimonarchico e antibadogliano, al contrario del PCI che era parte integrante e decisiva del Comitato di Liberazione Nazionale e sosteneva l’unità nazionale antifascista assieme appunto a monarchici e badogliani. Non a caso, in alternativa al CLN, Bandiera Rossa promosse, assieme ai cristiano-sociali di Gerardo Bruni, al Partito Repubblicano del Lavoro di Felice Anzaloni e ad altre organizzazioni libertarie e socialiste, la nascita della Federazione Repubblicana Sociale (FRS), con l’obiettivo di riunire tutti i partigiani antimonarchici e antiborghesi.

La radicalità di Bandiera rossa, infatti, minacciava la disciplina interna del PCI, ma soprattutto la sua strategia di “transizione ordinata” verso la “democrazia”. Infatti, in un’informativa alle forze alleate che si stavano avvicinando a Roma nel maggio 1944, si diceva che Bandiera Rossa aveva “l’obiettivo segreto di prendere il controllo della città, rovesciare la monarchia e il governo e attuare un programma comunista completo”.

Così, gli “alleati”, appena arrivati a Roma, misero immediatamente al bando le milizie di Bandiera rossa, definendole “provenienti principalmente dalle classi criminali”.

A creare Bandiera rossa concorse in primo luogo il gruppo cospirativo romano della “Scintilla” (il suo bollettino faceva evidentemente riferimento a Lenin). Il gruppo si era formato nella seconda metà degli anni 30 attorno ad un artigiano, Francesco Cretara, che reclutò anche il falegname di San Lorenzo Orfeo Mucci e l’operaio Antonino Poce, che in seguito divennero i dirigenti dell’organizzazione.

La Scintilla, pur restando rigorosamente filosovietica, denunciava la progressiva moderazione del PCI. L’organizzazione, anche grazie al consistente afflusso di attivisti clandestini, oltre che comunisti, anche di ispirazione anarchica, cattolica, repubblicana, socialista, compresi i due orfani di Giacomo Matteotti, crebbe e cambiò nome, adottando nell’estate del 1943 la definizione di Movimento Comunista d’Italia (MCd’I) e mettendo sul suo giornale clandestino la più “popolare” testata di “Bandiera rossa”.

L’organizzazione romana si radicò anche ai Castelli romani, e nella Tuscia, organizzando oltre 4.000 partigiani in armi, impegnati in sabotaggi, scontri a fuoco con i nazifascisti, protezione di militari alleati e di soldati italiani disertori, nella sottrazione agli occupanti e ai fascisti di provviste alimentari da distribuire alla popolazione, e inquadrando 40 mila militanti attivi nella diffusione della stampa clandestina in tutta la regione, nella capillare presenza nel tessuto cittadino, con cellule nei luoghi di lavoro e nei rioni popolari, in particolare nel centro della città, nella periferia sudorientale e sul litorale. Era universalmente riconosciuta come la formazione più temuta e più tenacemente perseguitata dai nazifascisti, tanto che si contarono circa 60 militanti di Bandiera rossa tra i 335 martiri delle Fosse Ardeatine.

Così, sarà proprio un reparto di Bandiera rossa a celebrare la prima commemorazione di quel massacro a un mese esatto dall’eccidio, il 24 aprile del 1944, recandosi la notte nei pressi delle fosse, disarmando le sentinelle fasciste e appendendo un cartello “I partigiani di Bandiera Rossa vi vendicheranno”. E pochi giorni dopo, il 1° Maggio, in una capitale sotto assedio, il MCd’I celebrò pubblicamente la festa internazionale dei lavoratori nel quartiere di Torpignattara, appendendo decine di bandiere rosse, distribuendo centinaia di volantini alla popolazione e proclamando la “Repubblica Autonoma e antifascista di Torpignattara e Certosa”.

Al momento dell’arrivo a Roma delle truppe angloamericane Bandiera rossa mobilitò nelle piazze della capitale i suoi militanti partigiani riconoscibili dalle fasce rosse con falce e martello al braccio (nella foto), per tentare di accogliere i “liberatori” con l’insurrezione della città e invocando l’instaurazione d’un governo dei lavoratori. Ma senza successo.

Come mai un’organizzazione così radicata e così forte sparì in pochi anni, dopo la liberazione?

Le motivazioni sono evidentemente molteplici. Della fragilità ideologica abbiamo già detto. La censura e la cesura del fascismo, il marchio del bordighismo senza Bordiga, le contorsioni della politica del Comintern lasciarono i pochi militanti comunisti residui in una situazione di totale frammentazione organizzativa e forte confusione politica. Né era possibile organizzare “scuole di partito” per le nuove forze che via via affluivano, che aderivano a Bandiera rossa in forza proprio del suo prestigio e della sua presenza diffusa, ma non per una scelta legata all’orientamento strategico, spinte da grande volontà di lotta ma totalmente impreparate politicamente.

Il gruppo dirigente del MCd’I, consapevole di questo, organizzò subito dopo la liberazione una scuola di formazione, ma era troppo poco e troppo tardi. Il PCI di Togliatti non poteva tollerare un concorrente politico all’apparenza tanto simile e giocò con forza la sua immagine di respiro nazionale e internazionale, il prestigio e l’autorevolezza del suo gruppo dirigente, mentre Bandiera Rossa, per quanto forte del suo radicamento e della sua esperienza partigiana, sembrava un gruppo esclusivamente locale, senza prospettive politiche.

A quel punto fu il MCd’I a doversi difendere, a cercare di competere con l’ingombrante rivale sul suo stesso terreno, ma senza grandi mezzi. Tra l’altro venne gravemente privato dal tribunale anche della “identità”, visto che la testata di Bandiera rossa fu ritenuta “di proprietà” della federazione del PCI di Ancona, e venne sostituita dalla meno felice “Idea comunista”. Istituì un “movimento femminile”, cooperative di lavoro e di consumo, strutture di iniziativa culturale, ma cercò anche di uscire dai confini del Lazio, con la creazione di nuove sezioni, di intessere rapporti con altri gruppi di comunisti “dissidenti”, confusamente definiti “anarchici”, “bordighisti”, “trotskisti”. Ma sempre più appariva fuori dalla politica.

Uno dopo l’altro, gli iscritti trasmigrarono al PCI, soprattutto quando questo, cacciato dal governo De Gasperi, riassunse un volto più radicale e di opposizione, fino alla consunzione di quella storica esperienza.

La repressione di Bandiera Rossa, il disarmo forzato dei suoi partigiani si inquadrano nella riaffermazione del monopolio della forza nel “nuovo” stato postfascista, monopolio totalmente condiviso dal gruppo dirigente del PCI. Lo “stato nato dalla Resistenza” si basò dunque sulla neutralizzazione della resistenza e sulla pace sociale, sotto il controllo delle forze padronali e degli “alleati”, con il beneplacito della direzione togliattiana. Sarà la “repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Seguirà, 40 anni dopo, anche lo scioglimento del vecchio PCI di massa, “pentito” del suo presunto “comunismo”, con la conseguenza di consegnare l’iniziativa politica e persino elettorale agli avversari, con gli effetti che abbiamo constatato in questi ultimi trent’anni.

Si è lasciato che si diffondessero le “letture” degli storici revisionisti che stabiliscono un’equivalenza tra i “crimini perpetrati da entrambe le parti nella guerra civile”, si è perfino solennemente istituita la “giornata delle foibe” per criminalizzare le azioni di chi rispondeva alla bestialità nazifascista.

Ora, nella sinistra, ci si lamenta del fatto che oggi il 25 aprile appaia distante dalle preoccupazioni delle masse popolari, che considerano questa data (come d’altra parte il 1° maggio) solo un giorno di festa senza alcuna memoria sui suoi valori. E se ne attribuisce la responsabilità alla destra che, ovviamente, fa il “suo mestiere”. Ma si cerca, vanamente, di ricreare un progetto egemonico di sinistra sulla base della “difesa dei valori costituzionali”, sull’invocazione di una “unità nazionale” tra le forze “antifasciste”, che peraltro non esistono più.

La frana è al contrario stata creata anche da questo tipo di retorica controproducente, mentre il 25 aprile dovrebbe essere una giornata sì “antifascista”, ma contro l’unità nazionale, una giornata di antagonismo sociale anti-istituzionale.

I fatti riportati nell’articolo sono tratti da Bandiera rossa nella resistenza romana, di Silverio Corvisieri