Da Draghi a Meloni al peggio non c’è mai fine
di Marco Parodi
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Il passaggio di consegne dal governo Draghi al governo Meloni è davvero curioso. Da un lato, la vittoria dei balilla missini porta al governo il partito principale dell’opposizione presunta al governo Draghi, dall’altro lato, la sconfitta, per abbandono e per demenza, del Partito democratico rappresenta il simbolo inequivocabile del disprezzo diffuso verso la gloriosa agenda Draghi, il sacro Graal per cui ci si doveva sacrificare senza se e senza ma. Ebbene, la realtà mostra, invece, una continuità di amorose effusioni, sul piano politico ed economico, originale e sfacciata tra il vecchio che si dimette e il nuovo che si insedia. Paradossale, ma non troppo. Ciò nonostante, dapprima, non inteneriamoci troppo, sono comunque e sempre i futuri padroni. In secondo luogo, non crediamo tanto ai rotocalchi borghesi, guardiamo alla sostanza piuttosto che alla forma: la preoccupazione cresce e cresce di molto perché con i neomissini al governo il cambiamento del clima politico è profondo e nubi si addensano per la classe lavoratrice sul piano della libertà e di tutti i diritti, sociali e civili e financo ecologici.
Infatti, la totalità dialettica dei diritti, ovvero l’unità nella compenetrazione di parti distinte, viene spesso mistificata nella separazione netta tra diritti sociali e diritti civili, piuttosto che inquadrata nel processo globale, storico e logico, della lotta di classe e della conquista progressiva della libertà e della giustizia, in termini complessivi. Piuttosto, l’agenda Meloni non sarà soltanto la stessa riciclata, ovvero copiata da un Draghi in gonnella con una cattiveria capricciosa nei confronti delle libertà civili; come già evidenziato qui, sarà molto peggio, più precisamente una involuzione minacciosa verso la repressione complessiva di tutti i diritti, con un’accelerazione nella continuità con le scelte impopolari e borghesi del governo Draghi sul piano sociale ed economico, nonché una precipitazione oscurantista nella discontinuità reazionaria sul piano delle libertà e dei processi di autodeterminazione.
L’eredità del governo Draghi
Dunque, dall’agenda Draghi all’agenda Meloni, il passaggio di consegne avviene con continuità e discontinuità al tempo stesso. L’eredità del contesto economico mette in rilievo un fiancheggiamento passionale da entrambe le parti. Draghi ha fatto di tutto per legittimare politicamente agli occhi della scettica grande borghesia, i parvenu della piccola borghesia reazionaria e aggressiva, a cominciare dal palco di Rimini del meeting di Comunione e liberazione. Allo stesso tempo, non solo l’opposizione era stata sempre veicolata verso le forze non di destra della maggioranza di governo e mai in modo diretto verso il Presidente del consiglio, ma addirittura all’insediamento si accompagna una gratitudine di fondo per il lascito encomiabile del quadro macroeconomico tendenziale. Forse, però, la Meloni, nel suo opportunismo, sembra esagerare. La verità è che l’eredità del governo Draghi è davvero pesante e il suo governo, piuttosto, si troverà di fronte a una tempesta perfetta per una borghesia in profonda crisi competitiva e un malcontento sociale sul punto di esplodere in modo violento. Sul piano simbolico, la perfetta sintesi della continuità è senza dubbio il fanatismo bellicista, più arcignamente servitore della Nato, piuttosto che della resistenza ucraina, dell’imperialismo statunitense, piuttosto che del diritto all’autodeterminazione dei popoli; da Draghi a Meloni la parola d’ordine è sempre la stessa, categorica e impegnativa per tutte e tutti: vincere!
Galeotta fu la pubblicazione della Nadef. Innanzitutto, l’attrazione fatale per il capolavoro della crescita economica al di sopra delle aspettative e in grado di recuperare il colpo della pandemia. Tuttavia, sebbene la crescita per il 2022 sia effettivamente di 0,2 punti superiore alle attese, 3,4% anziché 3,2% stimato nel Def di aprile, lo scenario per il 2023 si riduce di ben 1,8 punti percentuali, dal 2,4% previsto ad aprile allo 0,6% previsto oggi, per tacere del segno meno stimato dalle agenzie di rating. Inoltre, anche lo sbandierato recupero di 0,6 punti percentuali rispetto al 2019 prepandemico, così tanto osannato sui media, è piuttosto il peggior rimbalzo nei paesi più sviluppati. Cosa ci sia da vantare non lo si capisce proprio poiché l’Italia resta il fanalino di coda e la crescita superiore del 2022 è solo un parziale recupero, in termini di crescita media del periodo, del collasso pandemico del 9% nel 2020.
Il secondo e più importante messaggio d’amore è dato dall’indebitamento netto tendenziale. Nel 2022, infatti, si riduce al 5,1%, a fronte dell’obiettivo programmatico del 5,6%. Ma il dato più sorprendente è quello del 2023, in cui l’indebitamento si riduce al 3,4% a fronte dell’obiettivo del 3,9%, nonostante il netto peggioramento della crescita economica. La Raccomandazione della Commissione prevede che l’Italia non muti gli obiettivi programmatici e per questa ragione scostamenti di bilancio sono azzardati e inesplorati nella stabilità borghese. Come non apprezzare, quindi, l’eredità di ben 0,5 punti percentuali all’anno, ovvero quasi 10 miliardi di euro per la legge di bilancio prossima e altrettanti per il prossimo anno? Niente male, si direbbe. Ciò nonostante, la triste realtà, dell’occhio attento ai particolari, evidenzia il ruolo giocato dall’inflazione, per cui quanto sembra un bene a prima vista, si dimostra presto nel suo contrario. Il dato del 2022 è il frutto dell’andamento straordinario dell’IVA trainata dall’aumento dei prezzi alle importazioni e traslata sui consumatori finali. Quello del 2023 è anch’esso dovuto alla crescita del deflatore del Pil, ovvero del livello generale dei prezzi, che rende il Pil nominale di poco inferiore a quello previsto ad aprile. Se oltre al quadro tendenziale a legislazione vigente, il governo avesse optato di affiancare il quadro tendenziale a politiche invariate, come sarebbe stato più opportuno, i numeri sarebbero stati totalmente difformi. Caro Draghi, il trucco c’è e si vede. Ma per amore questo e altro.
Quanto detto si riverbera immediatamente nella difficoltà della manovra di bilancio. Soltanto per garantire le misure approvate per fronteggiare la crisi energetica da parte delle famiglie e delle imprese, nonché per il finanziamento delle armi da inviare all’Ucraina, servirebbero almeno 40 miliardi di euro. Circa 14 miliardi per il rinnovo del credito d’imposta degli acquisti energetici delle imprese; circa 6 miliardi costa la conferma dell’azzeramento degli oneri di sistema dalle bollette, l’IVA ridotta al 5% sul gas e il taglio di 30,5 centesimi sulla benzina; circa 10 miliardi occorrono per l’indicizzazione delle pensioni all’inflazione oltre tre punti sopra le stime; la conferma del taglio già previsto sul cuneo fiscale necessita di altri 3,5 miliardi di euro; 5 miliardi sono l’entità minima per finanziare il rinnovo contrattuale del pubblico impiego, anch’esso decimato dall’inflazione; quasi 5 miliardi occorrono per le misure cosiddette indifferibili, quali le presunte missioni internazionali, il sostegno ai profughi e l’invio di armi all’Ucraina. Tutto ciò nell’ipotesi che il nuovo governo faccia tornare in vita la legge Fornero, data la scadenza di quota 102. Tuttavia, sappiamo che la Meloni, pur ripudiando quota 41, sembra intenzionata ad estendere opzione donna agli uomini, ovvero il ricalcolo contributivo totale piuttosto che pro rata come previsto per quota 100 e 102. La parità di genere finalmente al governo.
Solo per inciso, si osserva che il complesso delle misure a sostegno delle famiglie, distinte nelle due tipologie dei bonus/indennità e delle misure di contenimento dei prezzi, ha mitigato solo in minima parte, stando ai risultati dei più utilizzati modelli di microsimulazione, le condizioni sociali della famiglie appartenenti al decimo più povero della popolazione, mentre è stato del tutto irrilevante per i ceti medio-bassi. Addirittura, la misura prevista sul taglio del cuneo contributivo si presenta davvero come un’elemosina, di circa 7 euro al mese per lavoratrici e lavoratori precari, in media 10 euro per la classe operaia e impiegatizia; cotanta vergogna soltanto Draghi la poteva collezionare. Tuttavia, considerando l’impennata della crescita delle bollette del servizio a maggior tutela, tutto ciò non solo sarà completamente insufficiente, ma rappresenterà a tutti gli effetti una vera e propria provocazione di classe, difficilmente sostenibile senza una svolta autoritaria senza precedenti.
La discontinuità dell’estrema destra: reddito di cittadinanza, lavoro e fisco
Fin qui la continuità. Però, il programma dell’estrema destra si spinge oltre nel segno della discontinuità tipica della piccola borghesia reazionaria. Facciamo soltanto alcuni esempi. In materia di contrasto alla povertà, l’aggressione al reddito di cittadinanza sarà rilevante anche sul piano simbolico. Sul punto occorre fare, però, molta chiarezza. Il governo Draghi, con l’appoggio determinante del Movimento cinque stelle, ne ha già fortemente modificato la versione originale. Si perde il diritto al reddito di cittadinanza già al rifiuto della seconda offerta di lavoro, e non più alla terza, la quale risulta ora congrua su tutto il territorio italiano. In più, a partire dal primo rifiuto scatta la riduzione di 5 euro al mese. Già oggi, dopo il primo rifiuto, si è soggetti a qualsivoglia ricatto padronale, per grazia ricevuta di Conte. Ebbene, il Movimento cinque stelle ha incentrato la sua campagna elettorale nel nome del rafforzamento delle politiche attive sull’incontro tra domanda e offerta di lavoro, praticamente incentivando il ricatto da loro stessi ideato per la classe lavoratrice del Sud a favore dello sfruttamento padronale del Nord. Il programma della Meloni prevede di ridurre a un rifiuto la perdita del reddito di cittadinanza, rendendo immediatamente sotto ricatto l’intero esercito industriale di riserva, nonché di fare meglio e per davvero quanto promesso dal Movimento cinque stelle sulle cosiddette politiche attive, sempre nel nome dello sfruttamento massimo possibile sul mercato del lavoro.
Che confusione quando gli ammortizzatori sociali su base individuale si mischiano agli strumenti di sostegno contro la povertà su base familiare. Per la verità, tutto origina dall’ignoranza disarmante della questione salariale, in quanto unità dialettica del salario diretto e indiretto, ma anche dei trasferimenti e dell’imposizione fiscale. Il primo pilastro dovrebbe essere quello della lotta per la riduzione dell’orario di lavoro, per l’aumento dei salari e la riconquista delle quote di produttività perdute a vantaggio dei padroni, per la conquista della scala mobile e, infine, del salario minimo per legge. Il secondo pilastro è quello del lavoro pubblico di prima e ultima istanza, per finalità sociali e di pubblica utilità, a sostegno della transizione ecosocialista. Il terzo pilastro è quello dell’introduzione del salario sociale per ogni lavoratrice e lavoratore espulso dal mondo del lavoro. Il quarto e residuale pilastro, la cui leva si dovrebbe esercitare il meno possibile, è quello del contrasto alla povertà su base familiare, attraverso il sistema fiscale di trasferimenti e imposte.
Il Movimento cinque stelle vorrebbe attivare il primo pilastro senza farlo pagare alle imprese, ma attraverso la fiscalità generale, cioè alla classe lavoratrice medesima. Lo hanno dichiarato apertamente in campagna elettorale, ma dietro al loro populismo piccolo borghese si nasconde un gigantesca truffa per la classe lavoratrice. Piuttosto che giocare a nascondino, si ricordi che, per aumentare i salari, occorre ridurre i profitti, punto e a capo. Ancora, il Movimento cinque stelle vorrebbe trasferire il reddito di cittadinanza alle imprese che assumono. Alla faccia del pilastro del lavoro pubblico, l’ennesimo regalo alle imprese, per cui oltre al danno dello sfruttamento la beffa della rapina. Il terzo pilastro è il grande assente, in quanto gli ammortizzatori sociali continuano ad essere ridicoli, indegni, selettivi e, soprattutto, ancora una volta, laddove sembra invocarsi la riforma in senso universalistico, il finanziamento viene ovviamente scaricato sulla fiscalità generale. Infine, il quarto pilastro dovrebbe essere completamente slegato dalle politiche del mercato del lavoro, in quanto il sostegno contro la povertà è di per sé incondizionato e senza vincoli. Se si aggiunge che il reddito di cittadinanza è una misura discriminatoria e razzista nei confronti delle famiglie straniere, circa il 35% delle famiglie povere, per cui dal balcone s’intendeva più propriamente l’abolizione della povertà riservata alla stirpe italiota, se si aggiunge il pietoso calcolo per la determinazione del reddito, che discrimina le famiglie numerose, misconosce le differenze territoriali e incentiva il lavoro nero con aliquote marginali prossime al 100%, siamo al disastro senza attenuanti. L’effetto deterrenza, ammesso che esisteva, era già infimo; poi è stato ulteriormente ridotto; presto diventerà nullo. E c’è pure, a sinistra, chi loda i grillini e invoca la costituzione dei comitati a difesa del reddito di cittadinanza. Credere per comprendere e comprendere per credere.
La verità è che il reddito di cittadinanza andrebbe davvero abolito e rimpiazzato da una nuova risoluzione popolare e di classe alla questione salariale e fiscale, quantitativamente di entità molto più elevata e qualitativamente in contrapposizione ai profitti della borghesia e non a loro vantaggio; ma la borghesia lo preferisce perché fortemente fondato sul baluardo dei vincoli dello sfruttamento di classe nel mercato del lavoro; tutti i partiti borghesi, compresi i neomissini, lo criticano, ma non lo aboliranno mai, piuttosto lo renderanno più efficace allo scopo. Si dirà che il popolo in definitiva ha pur sempre votato col portafoglio; ma smascherare gli inganni significa istruire bene a far di conto, proprio come ai tempi dei tre quarti e tre quarti di Fontamara. Ricostruire le fondamenta della coscienza di classe significa far comprendere che le politiche popolari, a vantaggio dei salari e contro i profitti, sono una cosa di sinistra, mentre il populismo è soltanto il socialismo degli imbecilli.
Sul piano del mercato del lavoro, la proposta della Meloni è la formula del più assumi meno paghi, ovvero la versione fantasmagorica del Superbonus 110% delle assunzioni. Le imprese che assumono deducono il 110%-150% del costo del lavoro, ovvero non pagano loro, ma indovinate chi?… sempre cara mi fu questa fiscalità generale. In materia di fisco, la promessa da mantenere nell’immediato è quella della flat tax al 15% estesa ai redditi da lavoro autonomo e d’impresa individuale sino a 100 mila euro di ricavi. Una volta fu il regime dei minimi, ora siamo ai pesi massimi. In pratica, data l’esigua platea residuale, per il lavoro autonomo si introdurrebbe un regime sostitutivo dell’Irpef, con un’aliquota marginale 28 punti percentuali più bassa rispetto al 43% degli stessi redditi da lavoro dipendente e pensione, nel pieno sberleffo dell’equità orizzontale. Per gli altri regimi di imprese e professionisti associati, si introduce la flat tax incrementale, ovvero l’aliquota del 15% sui redditi imponibili in aumento. Sempre in barba all’equità orizzontale, qui siamo proprio alla negazione sfacciata dei dettami costituzionali. Ebbene, per amore di verità, anche su questa genialata il copyright è del Movimento cinque stelle che, al primo punto del fisco nella campagna elettorale del 2018, aveva sbandierato il blocco dell’imposizione fiscale per imprese e professionisti, ovvero la cristallizzazione in alto della base imponibile. In quel caso, si sarebbe pagata l’aliquota dello zero per cento, qui almeno siamo 15 punti sopra. Chi s’accontenta gode, così così!
Infine, saranno riviste al ribasso le aliquote dei bonus e superbonus. Di per sé non sarebbe affatto un dramma; i guadagni serviranno, però, per incrementare i fondi a sostegno degli incentivi alle imprese e ridurre il cuneo fiscale sul lavoro. Tutti questi bonus sono anch’essi i regalini di Conte. L’impatto sulla finanza pubblica ammonta, per ora, da qui al 2035, a oltre cento miliardi, di cui oltre 60 miliardi derivano dal Superbonus 110%, il resto per i bonus facciata e le ristrutturazioni edilizie, e poi discorrendo con bonus mobili, e così via… Dopo l’introduzione della cedibilità dei crediti fiscali, con la creazione di una sorta di moneta parallela, ci ritroviamo un vero e proprio bubbone nel bilancio pubblico, che si aggiunge alle sofferenze di stato dovute alle garanzie concesse sui crediti alle imprese, previste da Conte in epoca pandemica. I beneficiari sono quasi esclusivamente i ceti medio alti, con una redistribuzione gigantesca al contrario. Le grandi imprese edilizie e specializzate festeggiavano il carnevale di Rio il giorno dell’approvazione del 110%, una furbata pazzesca in cui l’offerta traina la domanda, i prezzi crescono vertiginosamente e tutti ci guadagnano, tanto non paga nessuno, o quasi. Inutile ricordare che l’impatto sul patrimonio edilizio è ridicolo e che politiche alternative ecosocialiste basate sui programmi di riqualificazione energetica, a partire dai condomini e dagli alloggi popolari e più inefficienti, sarebbero state davvero opportune, nonché comparativamente ed enormemente meno costose, essendo generalizzati gli incentivi alla truffa legale o illegale nel caso dei superbonus. Ma alla Meloni della transizione ecosocialista non importa un fico secco e queste somme cambieranno radicalmente destinazione senza grossi complessi di colpa.
Come abbiamo imparato, esiste un leit motiv comune che unisce Conte, Draghi e Meloni: la redistribuzione fiscale al contrario, dai poveri ai ricchi. Di fronte alla pandemia, la logica del buon senso avrebbe imposto una politica redistributiva emergenziale con aliquote straordinarie sui redditi e patrimoni più elevati. Non solo Conte rifiutò categoricamente l’aumento solo simbolico proposto da Gualtieri dell’aliquota marginale Irpef più alta, non solo derise l’imposta patrimoniale vagamente avanzata da Fratoianni e Fassina, ma addirittura si cimentò in una serie pazzesca di agevolazioni fiscali al contrario, a partire dall’abolizione della prima rata dell’Irap e dalla valanga di incentivi alle imprese, sino al livello del ridicolo raggiunto col cashback e i superbonus fiscali. Infine, sull’Irpef, il punto di caduta del compromesso approvato dal governo Draghi, è stato, ironia della sorte, esattamente quello della riforma ideata sin da subito dai Cinquestelle, con un grosso regalo fiscale per i redditi medio alti. In campagna elettorale, sono proseguite le amenità del genere, come quella della cancellazione definitiva dell’Irap o del potenziamento della calendiana Industria/Transizione 4.0. Aldilà delle chiacchiere, troppe cose sono in comune tra Calenda e Conte, a cominciare dall’introduzione del salario minimo e del taglio del cuneo fiscale sul lavoro con il portafoglio della collettività piuttosto che quello dei padroni.
Le due sceriffe di Nottingham: Giorgia Meloni e Liz Truss
Sulla riforma fiscale in generale, è noto che l’Irpef doveva essere la regina delle imposte progressive in quanto basata sul principio della onnicomprensività. In altri termini, indipendentemente da quale fonte provenissero, tutti i redditi si sommavano nel determinare la base imponibile su cui si sarebbe dovuto applicare uno schema di aliquote marginali crescenti e a scaglioni. La storia fu un’altra: i redditi da capitale ne uscirono fuori in modo sistematico sin da subito; la progressività fu solo di facciata in quanto i tanti scaglioni erano in realtà molti di meno se si considerava la numerosità dei contribuenti in virtù del combinato disposto dell’erosione ed evasione fiscale. Col tempo la situazione è ulteriormente precipitata, cosicché oggi l’Irpef si è ristretta per l’85% a una imposizione sui redditi da lavoro dipendente e pensione. La proposta di Draghi, inizialmente approvata da tutti i partiti, era basata, quindi, sul principio opposto a quello dell’onnicomprensività, ovvero lo schema della dual tax o tassazione duale. I redditi si dividono in due blocchi: i redditi da lavoro e pensione sottoposti all’Irpef progressiva con poche aliquote marginali a scaglioni; i redditi da capitale sottoposti a tassazione sostitutiva e proporzionale, flat, con aliquota pari a quella più bassa dell’Irpef. Un disegno infame, ma di fatto già esistente, che trovava comunque l’applauso generalizzato.
Si trattava, quindi, di prendere atto della realtà e procedere alla armonizzazione delle aliquote fiscali sostitutive sui redditi da capitale. Per le rendite finanziarie e i dividendi si trattava di abbassare l’aliquota; per i titoli di stato, i fondi pensioni e la cedolare secca sulle locazioni si trattava di un incremento. Tutto ciò alla destra già non piaceva in quanto le aliquote si dovevano solo ridurre ma non aumentare e la riforma è saltata, restando in vigore l’attuale tassazione plurale. Soprattutto, la destra rifiuta lo schema della dual tax, preferendo quello della flat tax generalizzata. Pertanto, da un lato, progressivamente anche tutti il resto dei redditi d’impresa e da lavoro autonomo dovrebbe uscire dall’Irpef per essere sottoposto all’aliquota sostitutiva. Successivamente, anche l’Irpef dovrebbe eliminare tutti gli scaglioni e trasformarsi in una flat tax, affinché gli amministratori delegati d’azienda possano pagare la stessa aliquota marginale dei loro operai. La coerenza prima di tutto.
Quanta continuità, ma pure tante sfumature. Da Conte a Draghi a Meloni sembra proprio che al peggio non c’è mai fine. La determinazione della destra sul piano fiscale è dimostrata dall’arrogante riforma dei conservatori inglesi, che nel giro di pochi mesi hanno trasformato Liz Truss nella novella Thatcher in grado di riscattare la fame di profitti della borghesia. Si tratta di un maxi taglio fiscale, ideato paradossalmente dal primo cancelliere nero dello scacchiere, Kwasi Kwarteng, e concentrato sulle imprese e sui redditi più alti: dal 45% al 40% per i redditi maggiori di 150 mila sterline; dal 25% al 19% per l’imposta sulle società. Lo shock fiscale in deficit è talmente imponente e inflattivo, come mettere altra legna sul fuoco, che ha fatto schizzare i rendimenti dei titoli e obbligato la banca centrale a intervenire in soccorso. Quando si tratta di difendere i vantaggi dei capitalisti l’indipendenza delle banche centrali dal tesoro va a farsi benedire, soprattutto laddove la sovranità monetaria è ancora intatta e saldamente in mano alle borghesie nazionali. Insomma ecco l’elogio della follia: l’inflazione è generata dalla spirale prezzi profitti, ovvero dalla necessità delle imprese di difendere i propri margini di fronte all’impennata dei costi delle materie prime, i salari reali vengono falcidiati per non alimentare altra inflazione, ma politica monetaria e fiscale si accaniscono terapeuticamente contro la classe lavoratrice e al fianco della classe borghese, anche al costo di generare altra inflazione e svalutazione. Sembra tutto assurdo e contro il buon senso, ma è davvero tutto vero.
Whatever mis-takes: errori a tutti i costi
I manuali di testo dell’economia volgare si possono tradurre facilmente così. Esiste l’inflazione buona, l’inflazione brutta e l’inflazione cattiva. L’inflazione buona è quella di domanda. Essa è buona perché politica monetaria e fiscale la possono facilmente controllare. L’inflazione brutta è quella di offerta. Contro di essa, la politica monetaria può agire solo a scapito della crescita, con l’alto prezzo da pagare della stagflazione, mentre la politica fiscale espansiva può fare solo altri danni. Infine, l’inflazione cattiva è quella in cui all’inflazione da offerta si somma la spirale salari profitti, quella della scala mobile dei salari per intenderci. Ebbene, lo scenario del governo Meloni è quello dell’inflazione brutta che non deve diventare assolutamente cattiva. È quello dello scenario in cui la politica monetaria della banca centrale europea sarà inevitabilmente recessiva e anti inflattiva. È quello dello scenario in cui anche gli scudi contro lo spread, nella rinnovata versione del TPI, Transmission Protection Instrument, saranno definitivamente subordinati ai vincoli dell’austerità fiscale, ovvero alle logiche draghiane del whatever mistakes, errori e fallimenti a tutti i costi; insomma, siamo al solito ricatto barbaro dell’acquisto di titoli in cambio di memorandum e programmi di aggiustamento economico, MES, OMT o TPI che sia.
La vuota tautologia statica dell’economia volgare non è capace di analizzare l’economia secondo le interrelazioni reciproche e la dinamica complessa spazio temporale. Così curva di domanda e offerta, investimenti e risparmi, massa di denaro in circolazione e valore complessivo dei beni prodotti, appaiono rigidamente separati. L’economia critica rifiuta questa impostazione in quanto le politiche economiche espansive, se adeguatamente accompagnate dalla politica monetaria, possono anche contribuire nel tempo a compensare la riduzione della produzione. Per questa ragione, una soluzione ci sarebbe e consiste nell’incremento massivo degli investimenti pubblici finalizzato alla transizione energetica ecosocialista di ripudio dei combustibili fossili. Nell’immediato la situazione peggiorerebbe solo dal lato dei prezzi, non della crescita, ma successivamente anche le aspettative d’inflazione si ridurrebbero considerevolmente.
Lo shock dei prezzi energetici, cominciato immediatamente dopo la fuoriuscita dal grande lockdown economico, ma sobbalzato dopo l’invasione russa dell’Ucraina e, infine, catapultato su tutto il carrello della spesa, è emblematico di tutte le sciocchezze e nefandezze dell’accademia borghese. Innanzitutto il fallimento del liberismo, ovvero di quell’osannato libero mercato di Amsterdam, in cui la speculazione di carta sui contratti virtuali impone la folle dinamica del prezzo di equilibrio sui contratti reali delle transazioni effettive. Soprattutto il fallimento del capitalismo, ovvero del dominio del plusvalore delle grandi multinazionali dell’energia, in grado di innescare la spirale senza tregua tra costi e margini, prezzi e profitti. Infine, il fallimento dell’imperialismo, non solo quello incapace di tentare qualsivoglia de-escalation del conflitto, ma anche quello all’interno dell’Europa, ancora una volta sordomuta nei confronti di ogni minima forma di solidarietà, nonché manipolata dalla brama di extraprofitto dei paesi imperialisti produttori, come Olanda e Norvegia.
Noi non paghiamo: energia bene comune e agenda Robin Hood
La proposta di Regolamento del Consiglio prevede un duplice intervento. Innanzitutto, il tetto al prezzo dell’energia delle tecnologie inframarginali, nucleare e rinnovabili su tutte. In secondo luogo, la sovrattassa sugli extraprofitti delle imprese del settore petrolifero e del gas. La prima misura è qualitativamente monca in quanto non avrebbe nessun impatto sulla maggioranza delle bollette comunque dipendenti dal gas e risulterebbe persino paradossale dal punto di vista della transizione energetica; la seconda misura è quantitativamente insufficiente in quanto, eccetto per il caso della Norvegia, i sovraprofitti limitati al settore energetico non solo non garantiscono affatto la compensazione degli incrementi di prezzo, ma addirittura risultano irrilevanti considerando gli artifizi borghesi del sistema contabile e fiscale. Infatti, secondo le regole dell’esenzione dei proventi dalle partecipazioni, i dividendi di Eni all’estero, per esempio, contribuiscono a variare in diminuzione l’imponibile Ires, addirittura rendendo nullo il versamento dell’imposta in Italia. Alcuni spiccioli sono stati versati, ma è pura utopia pensare che possano bastare.
Per queste ragioni ha fatto bene Sinistra Anticapitalista a rivendicare, nel sostegno all’Unione popolare, un’agenda Robin Hood in grado di rivoluzionare da capo il sistema fiscale. Contro il programma delle destre, che vorrebbe trasferire ogni anno cinquanta miliardi dai poveri ai ricchi, occorre fare l’esatto contrario. Innanzitutto, l’inclusione definitiva dei redditi da capitale nella nuova Irpef onnicomprensiva e disegnata in uno schema a progressività continua, per un totale di circa 20 miliardi. In secondo luogo, l’introduzione di un’imposta patrimoniale, in sostituzione dell’Imu e dell’imposta di bollo, a partire dallo 0,2% sulla ricchezza complessiva sopra 500 mila euro sino al 5% oltre un miliardo, in grado di pesare per il 50 per cento sul decimo più ricco della popolazione e garantire un gettito aggiuntivo di circa 15 miliardi. In terzo luogo, l’Introduzione di un’imposta progressiva sui profitti consolidati delle società al posto dell’Ires, con un incremento dell’aliquota IRES-IRAP, in media dal 27,8% al precedente 36%, con la conseguente eliminazione dell’esenzione dei dividendi e delle plusvalenze delle partecipate, pari a circa 10 miliardi di euro. Quarto, l’introduzione di un’imposta patrimoniale sulle imprese come quella previgente all’introduzione dell’IRAP, pari, al netto dell’attuale IMU su immobili produttivi e commerciali, a 5 miliardi di euro. E se non bastasse: quinto, l’introduzione di una adeguata digital service tax sui ricavi fuggitivi delle imprese del web e, sesto, di un’adeguata imposta sulle transazioni finanziarie al posto della ridicola imposta attualmente prevista; settimo, l’introduzione di una adeguata tassazione delle emissioni di gas climalteranti, attraverso opportune compensazioni per i ceti popolari meno abbienti; ottavo, una tassazione dei rifiuti commisurata anche ai costi della gestione e dello smaltimento, a partire dal disincentivo cospicuo all’uso della plastica; nono, una riduzione delle aliquote IVA sui beni di prima necessità e la reintroduzione di un’aliquota IVA maggiorata più alta sui beni di lusso; ultimo, l’abolizione del contante per eliminare alla radice l’evasione fiscale e contributiva, il sommerso e la criminalità organizzata. In sintesi, se la Commissione ci raccomanda uno spostamento dalla tassazione diretta a quella indiretta, noi seguiamo piuttosto i bambini della scuola di Barbiana, perché le tasse sui consumi sono per i poveri e quelle sui redditi e patrimoni per i ricchi.
Ma l’approccio redistributivo da solo non basta; la reazione borghese sarebbe sempre più violenta e minacciosa. Al tempo stesso, anche il tetto ai prezzi non funziona in settori economici dominati dalla logica del profitto. Prezzi amministrati e tariffe possono sortire effetti solo nella produzione pubblica, laddove il prezzo può essere equiparato al costo medio e non al costo marginale, nell’ottica della produzione di beni comuni senza più profitti e rendite. Tanto più evidente di fronte al caso dei giganteschi extraprofitti inframarginali, solo la produzione pubblica può evitare imponenti razionamenti e incrementi di prezzo vertiginosi. Occorre, sin da subito, quindi, rivendicare la proprietà pubblica del settore energetico e la fine della remunerazione del capitale energetico.
Energia bene comune, fuori i profitti dalle bollette, restituiteci il maltolto del carovita. Per questo sosteniamo con forza la campagna Noi non paghiamo, in quanto centrale per la lotta di classe antiliberista, anticapitalista e antimperialista. Essa racchiude in sé la necessità della transizione energetica ecosocialista, il programma di transizione della progressività fiscale e la conquista dei beni comuni e della proprietà pubblica. Altrimenti, è sicuro che al peggio non ci sarà mai fine.