La santissima MESsa della borghesia

Il fondo salvaStati è soltanto il feticcio del fondo salvaCapitale! [Marco Parodi]

Sommario

1.     In principio fu la crisi economica: la nascita del MES. 1

2.     L’Unione bancaria europea, dal bail out al bail in e la necessità dell’intervento del MES. 5

3.     La riforma del MES e il colpo mortale a ogni residuo di democrazia nell’Unione europea. 8

4.     Tutte le ipocrisie del MES pandemico. 12

Di fronte alla crisi pandemica, una delle risposte dell’Unione europea è stata quella di consentire l’attivazione di una linea di credito speciale per gli stati membri finalizzata appositamente al finanziamento straordinario della sanità, attraverso il prestito elargito dal Meccanismo europeo di stabilità (MES). Da quel momento in poi è cominciata una omelia ossessiva e pressoché unanime, da parte della borghesia, dei mezzi di informazione e dei principali partiti politici, affinché l’Italia richiedesse questo miracoloso prestito al MES. Non passa giorno senza che illustri economisti, politici, commentatori, editorialisti, benpensanti, ci risparmino l’ennesima predica, l’ennesima supplica, l’ennesima preghiera per implorare questa benedetta carità europea. Sembra che soltanto in questo modo potremmo finalmente investire nella sanità, sperare di sconfiggere il virus e andare in pace. Amen. Ma le cose stanno davvero così come si celebra nella santissima MESsa della borghesia, o viceversa si tratta dell’ennesima truffa, dove ancora una volta il caro prezzo finirà per pagarlo la classe lavoratrice e sfruttata? Per rispondere, ricominciamo la liturgia borghese dall’inizio, con tutto il suo rituale falso, ideologico e mistificatorio.

1.     In principio fu la crisi economica: la nascita del MES

Il Meccanismo europeo di stabilità (MES in italiano, ESM in inglese) è una istituzione finanziaria internazionale fondata sulla base di un trattato intergovernativo siglato il 2 febbraio 2012 ed entrato in vigore l’8 ottobre 2012 a seguito della ratifica dei 17 stati membri dell’eurozona, a cui si sono aggiunti in seguito la Lettonia e la Lituania, con l’obiettivo di fornire un sostegno finanziario secondo condizioni rigorose ai paesi membri che già si trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari. Il MES ha affiancato e poi sostituito due strumenti transitori di stabilizzazione finanziaria: il Meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (MESF) e il Fondo europeo di stabilità finanziaria (FESF), che erano stati utilizzati all’inizio della crisi economica per fronteggiare le richieste di sostegno da parte di Grecia, Portogallo e Irlanda.

Alcune precisazioni preliminari. Innanzitutto, il MES è stato istituito mediante un trattato intergovernativo, ossia al di fuori del quadro giuridico della UE, ma nell’ambito del diritto internazionale. Pertanto, le decisioni sono adottate dal Consiglio dei governatori, il principale organo decisionale composto dai Ministri responsabili delle finanze degli stati membri della zona euro e presieduto dal Presidente dell’Eurogruppo, secondo la regola del comune accordo, ovvero dell’unanimità. Soltanto in circostanze straordinarie in cui appare minacciata la stabilità finanziaria ed economica della zona euro, è previsto il voto a maggioranza qualificata dell’85% del capitale, qualora la Commissione e la BCE evidenzino la necessità di decisioni urgenti. Per la nomina del Direttore generale è previsto il voto a maggioranza qualificata dell’80%; mentre, per la distribuzione dei dividendi si procede con il voto a maggioranza semplice.

In secondo luogo, si tratta di una società di capitali di diritto lussemburghese, il cui capitale sottoscritto totale è di 704 miliardi di euro, di cui 80 miliardi sono stati effettivamente versati dagli stati membri aderenti. La parte del capitale del MES sottoscritta ma non versata è richiamabile in qualsiasi momento in caso di necessità, vale a dire che i membri del MES si impegnano a fornire il finanziamento corrispondente con breve preavviso. La quota di ciascun paese membro nel capitale del MES si basa sulla chiave di ripartizione del capitale della BCE, che riflette la quota del paese nella popolazione totale e nel prodotto interno lordo dell’area dell’euro. Con 125,3 miliardi di euro sottoscritti (di cui 14,3 effettivamente versati), l’Italia è il terzo Paese per numero di quote del capitale del MES, con il 17,7%, dopo la Germania, 26,9% del totale, e la Francia, 20,2% del totale. Tale quota consente all’Italia di fatto un diritto di veto anche nelle decisioni prese con la maggioranza qualificata dell’85%.

In terzo luogo, il MES intende porsi esplicitamente come la risposta borghese a una delle “incompletezze” della governance economica europea, emersa a seguito della crisi economica e finanziaria, nonché del c.d. circolo vizioso tra la crisi del sistema finanziario e la crisi dei debiti pubblici. Secondo l’approccio esposto nel trattato istitutivo (considerando n. 4 e 5), “la prima linea di difesa” permane quella preventiva del rigoroso rispetto del quadro integrato di sorveglianza di bilancio e macroeconomica, con particolare riguardo al Patto di stabilità e crescita e alla Procedura per gli squilibri macroeconomici, ma soprattutto del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’unione economica e monetaria (TSCG), ovvero il c.d. Fiscal Compact. Pertanto, il MES si configura come uno strumento integrato rispetto a tali presidi. In particolare, nel trattato istitutivo si esalta lo stretto legame tra il MES e il Fiscal Compact, i quali vengono considerati come “complementari nel promuovere la responsabilità e la solidarietà di bilancio all’interno dell’Unione economica e monetaria”. In entrambi i casi, si tratta, infatti, di due trattati intergovernativi, al di fuori del quadro giuridico dell’UE, che costituiscono un vero e proprio baluardo, fortemente voluto dalla cancelliera Merkel, per sottrarre alla volontà politica degli stati membri l’ossequiosa difesa della disciplina di bilancio, rigidamente vincolata dal principio di diritto internazionale del pacta sunt servanda.

Infine, nel considerando n. 6 del trattato istitutivo, si evidenzia che, date le forti interrelazioni all’interno della zona euro, “gravi minacce alla stabilità finanziaria degli stati membri la cui moneta è l’euro possono mettere a rischio la stabilità finanziaria della zona euro nel suo complesso. Il MES può pertanto fornire un sostegno alla stabilità sulla base di condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto”. Dunque, un sostegno finanziario in cambio di condizioni rigorose, per fronteggiare in modo adeguato un effetto contagio nella zona euro.

Prima dell’avvento della crisi, come già sottolineato, il quadro giuridico dell’Unione si concentrava esclusivamente sulla prevenzione della crisi e vietava esplicitamente il sostegno finanziario agli stati membri, secondo la c.d. clausola di non salvataggio (no bail out clause) prevista dall’articolo 125 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Soltanto l’articolo 122 prevedeva che “qualora uno stato membro si trovi in difficoltà o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali” il Consiglio, su proposta della Commissione, può concedere a determinate condizioni un’assistenza finanziaria dell’Unione allo stato membro interessato. Sulla base di questo articolo, le prime risposte alla crisi dei debiti sovrani sono state necessariamente di emergenza, prima attraverso attraverso prestiti bilaterali da parte dei paesi dell’area dell’euro alla Grecia, poi attraverso due meccanismi transitori per la concessione di aiuti finanziari, sempre alla Grecia, al Portogallo e all’Irlanda (i sopra richiamati MESF e FESF).

Non esisteva, invece, alcuna forma strutturale di assistenza finanziaria per gli stati membri. La svolta avviene il 25 marzo 2011, quando il Consiglio europeo adottò la decisione di modificare l’articolo 136 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, aggiungendo il seguente paragrafo terzo: “gli stati membri la cui moneta è l’euro possono istituire un meccanismo di stabilità da attivare ove indispensabile per salvaguardare la stabilità dell’intera zona euro. La concessione di qualsiasi assistenza finanziaria necessaria nell’ambito del meccanismo sarà soggetta a una rigorosa condizionalità“. Tale nuovo paragrafo costituisce il fondamento giuridico europeo alla base dell’istituzione del MES. Nasce così il c.d. fondo salva stati, ossia l’assistenza finanziaria per gli stati membri che ne facciano richiesta, ma soltanto sulla base di una strict conditionality, ossia un sostegno subordinato a una condizionalità molto più rigorosa di quella prevista nell’ambito della sorveglianza multilaterale europea.

Dunque, l’articolo 12 del trattato istitutivo prevede che il MES possa fornire un sostegno sulla base di condizioni rigorose a seconda dello strumento utilizzato, che possono spaziare da un programma di aggiustamento macroeconomico al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite. Vennero così previste, nell’articolo 14, due linee di credito distinte: una linea di credito condizionale precauzionale (PCCL, acronimo in inglese) e una linea di credito condizionale rafforzata (ECCL). Le disposizioni in vigore, prima della riforma attualmente proposta, prevedono che a ciascuna delle azioni suddette sia associata la definizione di condizioni proporzionate all’impegno richiesto, elaborate attraverso la stipula di un protocollo d’intesa (Memorandum of Understanding, MoU). Prima di definire il protocollo, la Commissione europea, di concerto con la BCE, valuta anche la sostenibilità del debito pubblico dello stato interessato. È prevista, inoltre, la possibilità di integrare la capacità di prestito del MES attraverso la partecipazione del Fondo monetario internazionale (FMI) alle operazioni di assistenza finanziaria. Al termine del programma di assistenza finanziaria, la Commissione europea e la BCE eseguono missioni di controllo ex-post, alle quali partecipa anche il FMI se ne ha contribuito finanziariamente, per valutare se lo stato che ha beneficiato dell’assistenza finanziaria continui ad attuare politiche di bilancio sostenibili e se sussista il rischio che non sia in grado di rimborsare i prestiti ricevuti. Nasceva così la famigerata troika, ovvero la sorveglianza rigorosa della Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale.

Il MES è, quindi, intervenuto dapprima a sostegno della ricapitalizzazione delle banche in Spagna per un ammontare complessivo di 41,3 miliardi, poi in assistenza finanziaria di Cipro per 6,3 miliardi, più un miliardo del FMI, infine dal 2015 nei confronti della Grecia per un’erogazione complessiva di 61,9 miliardi di euro. Il debito residuo nei confronti del MES sarà interamente assorbito e rimborsato dalla Spagna nel 2027, da Cipro nel 2031 e dalla Grecia soltanto nel 2060. Il programma di aggiustamento macroeconomico previsto nel Memorandum stipulato con la Grecia rappresenta in termini relativi l’esempio più emblematico, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, delle condizioni rigorose di austerità in termini di consistenti e duraturi avanzi primari, tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni ai fini della sostenibilità di lungo termine del debito pubblico.

Era stata anche paventata l’ipotesi di una nuova ristrutturazione del debito pubblico greco, fortemente sostenuta dal FMI, che aveva precedentemente prestato sino a 31,9 miliardi alla Grecia, ma rigettata dalle autorità europee. Infatti, nel trattato istitutivo del MES, è esplicitamente considerata l’ipotesi del private sector involvement, ovvero della parziale riduzione del valore dei titoli pubblici detenuti dal settore privato. Ciò nonostante, dopo l’haircut pari al 53,5% dei titoli di stato greci detenuti dai privati, previsto con il precedente intervento di salvataggio della Grecia nel 2011, la nuova ristrutturazione del debito avrebbe interessato soltanto le istituzioni pubbliche, BCE, FESF e FMI, in un esclusivo official sector involvement. Il FMI avrebbe rinunciato a una parte dell’entità del sostegno in cambio di un debito ridotto e maggiormente sostenibile nel medio periodo; le istituzioni europee hanno preferito aumentare l’erogazione in cambio di una austerità duratura e oppressiva, fronteggiando una montagna di debito. Meno imponente ma in un periodo più breve la prima, più cospicua ma maggiormente diluita nel tempo la seconda, in ogni caso, la restituzione sarebbe stata sempre e comunque coattiva e con costi sociali imponenti. Lo chiamano in modo meschino un fondo salva stati a sostegno dei paesi indebitati, ma resta a tutti gli effetti un fondo salva capitale per l’estorsione da parte della borghesia creditrice.

Fu così che il MES divenne quello che la BCE per statuto e per trattato europeo non poteva diventare: il prestatore di ultima istanza, lender of last resort. In generale, di fronte alla crisi, l’ideologia liberale si trova costantemente di fronte al dilemma tra il principio della disciplina di mercatoe quello della stabilità economica e finanziaria. Lasciar fallire uno stato membro è pienamente coerente con l’economia di mercato e in libera concorrenza tanto ideologicamente esaltata nei trattati europei, ma rischia di contagiare negativamente anche gli altri stati e minare l’intera stabilità economica; al tempo stesso, il salvataggio pubblico riduce i danni della crisi finanziaria ma fa emergere il feticcio borghese dell’azzardo morale dei paesi indebitati.

In termini critici, lasciando perdere feticci e ossessioni varie di tipo borghese, la fuoriuscita dalla crisi è sempre costituita da un processo di ristrutturazione a favore della borghesia prevalente e a danno della borghesia soccombente, implicando inevitabilmente la distruzione e la rottamazione di capitale, per mezzo di fusioni, acquisizioni e partecipazioni finanziarie. Anche per la crisi dei debiti sovrani, il risultato finale sarebbe sempre e comunque l’acquisizione di patrimonio e redditi futuri attesi da parte degli stati creditori a danno degli stati debitori, per mezzo di privatizzazioni e politiche di austerità finalizzate al rimborso dei prestiti. I creditori si trasformano di fatto in proprietari di capitale.

Tuttavia, la dialettica delle relazioni economiche mostra tutta la sua complessità nella misura in cui diviene interesse degli stati creditori provvedere ai mezzi di pagamento degli stati indebitati. L’entità della perdita economica potrebbe essere tale da scongiurare il fallimento totale degli stati e la conseguente cancellazione del valore dei titoli di debito pubblico e preferire piuttosto un intervento di salvataggio al fine di recuperare nel tempo, in tutto o in parte, le perdite altrimenti subite. Occorre scongiurare quello che lorsignori considerano l’incubo peggiore, l’effetto domino delle perdite e il contagio del virus dell’insolvenza. Nei manuali di testo dell’economia volgare, il principio basilare del prestatore di ultima istanza è dato dalla condizione di Walter Bagehot, storico direttore dell’Economist: lend freely on sound collateral goods at penalty rates: presta pure liberamente, ma solo sulla base di garanzie patrimoniali solide e a tassi o condizioni tanto più penalizzanti quanto più rischiosa la sostenibilità del debito. Dunque, non di regalo compassionevole si tratta, ma di estorsione senza pietà. Questo è stato il vangelo del Fondo monetario internazionale, oggi vergognosamente copiato dal MES.

2.     L’Unione bancaria europea, dal bail out al bail in e la necessità dell’intervento del MES

Ciò che vale per la crisi economica e per la crisi finanziaria dei debiti sovrani vale anche per la crisi del sistema bancario. Qui si gioca l’altro tassello fondamentale del fondo salva stati che si accinge a diventare anche il fondo salva banche. Anche qui, l’ideologia borghese si trova perennemente arenata nel labirinto teorico del trade off tra il principio della disciplina di mercato e la tutela della stabilità del sistema bancario. Sul piano strettamente ideologico, salvare una banca significa derogare al principio della disciplina di mercato e incentivare il c.d. azzardo morale, ovvero stimolare comportamenti non prudenziali nella gestione del credito, nella consapevolezza che di fronte ad eventi negativi lo stato interverrà a sanare il bilancio; al tempo stesso, lasciar fallire una grande istituzione finanziaria e monetaria, too big to fail, può comportare effetti significativi di contagio e minare la stabilità del sistema bancario. Del resto, questo fu anche il dilemma del fallimento di Lehman Brothers, e del successivo intervento di salvataggio di AIG.

Il liberalismo europeista ha proposto, quindi, con le direttive sull’Unione bancaria europea, di armonizzare gli interventi nel settore bancario, perseguendo l’obiettivo della stabilità finanziaria, ma, al tempo stesso, non derogando dai principi della disciplina di mercato, ovvero minimizzando il più possibile il costo del salvataggio pubblico. La teoria dominante distingue tre fasi principali per assicurare la stabilità del sistema bancario: la vigilanza o regolamentazione prudenziale; la gestione delle crisi bancarie, ovvero la risoluzione o la liquidazione delle banche; l’assicurazione per la garanzia dei depositi. Così esattamente l’Unione bancaria europea si basa su tre pilastri: la costituzione della vigilanza comune europea; l’armonizzazione delle procedure di liquidazione e risoluzione delle banche in crisi; la costituzione di un fondo europeo di garanzia dei depositi. I primi due pilastri sono stati condivisi e approvati con un regolamento e due direttive europee recepite dagli stati membri; sul terzo pilastro non è stato ancora raggiunto un accordo.

Non ci soffermiamo molto sul primo e sul terzo pilastro, in quanto la proposta di riforma del MES interviene nel secondo pilastro. Tuttavia, ci limitiamo a osservare che lo schema di riferimento è più o meno sempre lo stesso: innanzitutto, stabilire regole stringenti in grado di prevenire la crisi delle banche; in secondo luogo, ridurre al minimo la condivisione dei rischi, il costo del salvataggio pubblico e dell’eventuale intervento di un prestatore di ultima istanza.

Rimuovendo definitivamente l’idiozia borghese dell’azzardo morale, la crisi delle banche è niente affatto il risultato di una stupida immoralità e corruzione dei banchieri, quanto piuttosto la conseguenza della crisi economica. I crediti deteriorati non sono, se non in modo accidentale e non determinante, il frutto della non sana gestione delle banche, quanto piuttosto l’effetto inevitabile dei fallimenti delle imprese. La vigilanza e la regolamentazione prudenziale, basata sui cosiddetti requisiti di capitale in rapporto alle attività ponderate per il rischio, ovvero il primo pilastro dell’Unione bancaria, non solo ha un impatto minimo in proposito, ma piuttosto esacerba anziché ridurre le probabilità di insolvenza. Infatti, questi requisiti sono caratterizzati da una evidente prociclicità: mentre risultano decisamente blandi in tempi di crescita, diventano poi proibitivi in fase di crisi, stimolando prestiti nelle congiunture positive e viceversa. Il classico deprimente adagio sulle banche: prestare l’ombrello quando c’è il sole per richiederlo indietro quando piove.

Al tempo stesso, l’assicurazione europea sui depositi è stata bloccata proprio perché la condivisione dei rischi può essere accettata solo dopo una netta riduzione dei rischi stessi. In particolare, le banche dei paesi mediterranei, soprattutto l’Italia, continuano a presentare una notevole e concentrata esposizione sui titoli sovrani di debito pubblico, alimentando il potenziale circolo vizioso tra crisi dei debiti sovrani e crisi delle banche. In parole brutali, un eventuale default dell’Italia implicherebbe che l’assicurazione sui depositi sia garantita anche dai contribuenti tedeschi; pertanto, fintanto che le banche italiane non riducono l’esposizione sui titoli pubblici, la Germania non sarà disposta ad approvare il terzo e ultimo pilastro dell’Unione bancaria europea. Ma, a sua volta, la vendita accelerata di titoli pubblici da parte delle banche italiane sarebbe l’anticamera del rischio di default, in una sorta di profezia che si autorealizza.

Come già detto, il secondo pilastro dell’Unione bancaria europea riguarda la gestione della crisi delle banche ed è entrato nell’ordinamento attraverso l’approvazione e il recepimento della direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche (BRRD, Bank Recovery and Resolution Directive). Inizialmente, la risposta immediata alla crisi delle banche era stata affrontata in modo derogatorio, transitorio e diversificato tra i vari stati membri e, soprattutto, era stata fondata sul principio del salvataggio esterno e pubblico (bail out); la direttiva capovolge completamente lo schema, introducendo una procedura ordinaria, strutturale e armonizzata a livello europeo di risoluzione della banca e basata sul principio del salvataggio interno e privato (bail in). Mentre il bail out consiste nella ricapitalizzazione pubblica a pieno sostegno delle banche in crisi, il bail in implica la parziale ricapitalizzazione privata attraverso l’esclusivo coinvolgimento dei suoi azionisti e obbligazionisti; nel primo caso le perdite per i risparmiatori vengono interamente sanate attraverso l’assistenza pubblica a spese dei contribuenti; nel secondo caso la perdita per azionisti e obbligazionisti implica certamente una riduzione dell’attivo della banca ma anche un risparmio consistente per i contribuenti.

Dal punto di vista borghese, il principio del bail in implica il disincentivo all’assunzione di rischi eccessivi, ossia, di nuovo, attraverso la rigida osservanza della disciplina di mercato, chi sbaglia paga, il contrasto al fenomeno dell’azzardo morale. Al tempo stesso, il principio del bail out non compromette la stabilità sistemica dei mercati finanziari e creditizi, ma non è capace di fornire un valido disincentivo all’insana e imprudente gestione delle banche. Su questo punto si è focalizzato lo scontro tra liberali europeisti e populisti nazionalisti. I liberali europeisti hanno sposato la logica del bail in, ovvero della perdita per gli azionisti e obbligazionisti, nonché della riduzione al minimo dell’intervento pubblico di ultima istanza; al contrario, i populisti nazionalisti hanno rivendicato la logica del bail out, ovvero della salvaguardia dei risparmiatori attraverso il temporaneo salvataggio pubblico. Da un lato il principio liberista della disciplina di mercato; dall’altro lato il principio fascista e nazionalista della socializzazione delle perdite per la privatizzazione dei profitti. In un caso, la giusta perdita per i proprietari del capitale delle banche avviene a scapito dell’attività della banca stessa e della parziale requisizione patrimoniale da parte dei creditori; nell’altro caso il giusto intervento pubblico a sostegno della banca serve solo per salvaguardare i profitti degli azionisti e il rimborso per gli obbligazionisti.

Eppure, l’alternativa vera al liberalismo europeista sarebbe l’esatto contrario di quanto propugnato dai populisti nazionalisti: ossia occorre applicare il principio della perdita secca per tutti gli azionisti e obbligazionisti, ma non nella forma della disciplina di mercato, ma in quella della ricapitalizzazione e proprietà pubblica delle banche. Si tratterebbe, infatti, di una sorta di bail in comunista e rivoluzionario, ovvero di far pagare la crisi interamente ai detentori del capitale, ma con l’obiettivo della ricapitalizzazione pubblica per la trasformazione delle banche da imprese private finalizzate al margine d’interesse e d’intermediazione a imprese di proprietà pubblica orientate alla tutela del credito come bene comune. Al tempo stesso, si tratterebbe di un bail out antifascista e antinazionalista, ovvero di consentire l’intervento di ricapitalizzazione pubblica delle banche, ma non nella forma temporanea per sanare le perdite e tutelare il risparmio di tutti i creditori e azionisti, ovvero per una nuova immediata privatizzazione, ma per la definitiva eliminazione del profitto da qualsivoglia obiettivo e scopo dell’attività bancaria.

In coerenza con i dogmi liberali, la direttiva europea ha introdotto una procedura armonizzata di risoluzione delle banche alternativa alla ordinaria procedura di liquidazione. In particolare, la procedura di risoluzione è ammissibile solo se sono soddisfatte le seguenti condizioni: la banca è in dissesto o a rischio di dissesto (failing or likely to fail, quando sia azzerato o notevolmente ridotto il proprio capitale); non vi sono misure alternative di natura privata (aumenti di capitale) che consentano di evitare in tempi ragionevoli il dissesto; la liquidazione ordinaria non permetterebbe di salvaguardare la stabilità sistemica e di assicurare la continuità dei servizi finanziari essenziali e, quindi, la risoluzione è necessaria nell’interesse pubblico. Attenzione alle parole, si parla di interesse pubblico, ma s’intende l’effetto sistemico di un eventuale fallimento bancario. Qui giace la differenza tra risoluzione e liquidazione, per cui nel primo caso la borghesia deve salvare almeno parte del proprio credito, attraverso un intervento minimo di ultima istanza capace di trasformare i creditori in azionisti, ossia di costituire le condizioni per un parziale esproprio del patrimonio della banca.

La procedura di risoluzione si differenzia dalla liquidazione in quanto mira a intervenire nella prestazione dei servizi essenziali e a ripristinare le condizioni di sostenibilità economica della parte sana della banca e a liquidare le parti restanti. La procedura si articola in diversi strumenti di risoluzione: i) il trasferimento temporaneo delle attività e passività a un’entità “ponte”, bridge bank, costituita e gestita dalle autorità di risoluzione per proseguire le funzioni più importanti in vista di una successiva vendita sul mercato; ii) il trasferimento delle attività deteriorate a un veicolo, bad bank, che ne gestisca la liquidazione in tempi ragionevoli; iii) l’applicazione del bail in, ossia la svalutazione delle azioni e la svalutazione e/o conversione in azioni dei crediti per assorbire le perdite e ricapitalizzare la banca; iv) un intervento di ultima istanza tale da consentire la conversione in azione dei crediti.

Dunque, il principio del bail in prevede la riduzione del valore delle azioni (write down) e la conversione dei crediti in azioni (written down debt), escludendo, tuttavia, i depositi di importo fino a 100 mila euro e le passività garantite, come i covered bond. In ogni caso, deve valere il principio che azionisti e creditori non possono mai subire perdite maggiori di quelle che avrebbero sopportato in caso di liquidazione secondo le procedure ordinarie, no creditor worse off. Esiste, inoltre, una vera e propria gerarchia del bail in secondo la quale le perdite si trasferiscono anche ai creditori nel caso in cui il valore delle azioni non risulti sufficiente a coprire le perdite; si prosegue poi dai crediti subordinati a crediti primari e così via sino ai depositi oltre 100 mila euro. In definitiva, l’onere di coprire le perdite e ricostruire il capitale regolamentare si accolla innanzitutto ad azionisti, obbligazionisti e grandi depositanti; se non basta interviene il Fondo unico di risoluzione (SRF, Single Resolution Fund), appositamente creato e finanziato dalle banche europee.

La procedura di risoluzione prevede, quindi, che in caso di insufficienza delle risorse interne mobilitate dal bail in, sempre nell’ottica di ridurre al minimo il costo pubblico del salvataggio, sia possibile ricorrere al Fondo unico di risoluzione, il quale dovrà raggiungere entro il 2023 una dotazione di risorse, alimentata dai contributi versati dalle banche dei paesi partecipanti, pari ad almeno l’1% dell’ammontare complessivo dei depositi protetti dell’area dell’euro, circa 68 miliardi di euro. Ciò nonostante, la minaccia per il sistema bancario è tale da rendere anche tale somma molto probabilmente insufficiente a fronteggiare eventuali nuovi dissesti. Per questa ragione, sin da subito si è rilevato necessario, per il buon funzionamento del secondo pilastro dell’Unione bancaria, la definizione a livello europeo di un backstop, ovvero una rete di sicurezza, che possa integrare le disponibilità del Fondo per far fronte con tempestività alle crisi degli intermediari bancari di maggiori dimensioni. Occorre, in altri termini, un altro prestatore di ultima istanza per le banche dotato di un ammontare di risorse allineato a quello del Fondo. Quando si parla di prestatore di ultima istanza si converge nuovamente sul MES, che assume non più soltanto la mistica del fondo salva stati, ma ora anche quella di fondo salva banche. Da qui nasce il progetto di riforma del MES, attualmente in discussione.

3.     La riforma del MES e il colpo mortale a ogni residuo di democrazia nell’Unione europea

La proposta di riforma del MES si esplica su due filoni principali: da un lato, l’introduzione della funzione del backstop, ovvero del prestatore di ultima istanza delle banche europee; dall’altro lato, la correzione radicale della precedente funzione generale di meccanismo di stabilità, ovvero del prestatore di ultima istanza per gli stati membri. Il filo conduttore è lo stesso e duplice: rendere ancora più stringente l’austerità per banche e stati in difficoltà finanziaria; subordinare gli interventi di assistenza a condizioni sempre peggiori sino ad agevolare la risoluzione delle banche e la ristrutturazione del debito degli stati, insolventi o a rischio di insolvenza. Maggiore controllo e maggiori condizionalità: le due parole d’ordine della riforma. Il Capitale impone la sua legge inesorabile, quella del più forte che mangia il più debole. Gli avvoltoi si preparano a depredare tutte le risorse, come già sperimentato con la Grecia. L’Unione europea butta definitivamente al macero ogni forma di solidarietà di trasferimenti perequativi e di Europa sociale per approdare senza vie d’uscita in una giungla terribile dove vige solo la regola del profitto e degli affari. Quindi, dimentichiamo ogni finta e inesistente Europa solidale, che tanto viene sbandierata alla superficie, per seguire l’infame violenza borghese nella realtà crudele dell’Unione europea, sulla cui soglia sta scritto: no admittance except on business.

L’articolo 3 del trattato del MES verrebbe riformulato a partire dalla rubrica, che dal singolare “obiettivo” passerebbe al plurale “obiettivi”, prevedendo nel secondo comma che il MES possa anche fornire il c.d. backstop facility al Fondo di risoluzione unico, dotato secondo l’Allegato IV di un pari ammontare di risorse, circa 68 miliardi di euro. Nell’articolo 12 concernente i principi del MES si precisa meglio che i prestiti tramite il backstop facility siano concessi soltanto in ultima istanza, as a last resort, e purché sia assicurata la neutralità di bilancio nel medio periodo; per cui vi si potrà fare ricorso a condizione che sia stato preventivamente effettuato un bail in pari ad almeno l’8 per cento del passivo, nel caso in cui risultino esauriti i mezzi del Fondo di risoluzione unico, si presenti comunque una capacità di rimborso sufficiente a ripagare integralmente a medio termine i prestiti ottenuti e comunque nella misura massima del 5% del passivo.

Nel dettaglio, il nuovo articolo 18A stabilisce che l’impiego del backstop è subordinato al quadro giuridico europeo in materia di risoluzione bancaria. Il tutto sarebbe dovuto inizialmente partire dal 2024, ovvero dopo sufficienti progressi in materia di riduzione dei rischi quantificati, sia con riferimento ai requisiti MREL (Minimum Requirements for own funds and Eligible Liabilities), ossia l’ammontare minimo di riserve più utilizzabili per assorbire le perdite nel caso di bail in, sianel rapporto tra prestiti deteriorati delle banche su prestiti totali al di sotto del 5% al lordo delle rettifiche già apportate in bilancio (2,5% al netto). Anche se nel 2020 ancora 4 stati membri superano tale limite (Grecia con il 30,3% e 19,7% rispettivamente, Cipro, Portogallo e Italia con il 6% e 3% rispettivamente), è stato valutato un progresso tale da anticipare al 2022 l’inizio del funzionamento del backstop.

Viene ribadito e rafforzato tutto lo schema criminale già descritto: il controllo basato su requisiti prudenziali a carattere strettamente prociclico e avverso, per cui risultano sfavorevoli nelle condizioni più rischiose e bisognose; l’intervento di sostegno in ultima istanza straordinario, minimale e subordinato a condizionalità rigorose di ricapitalizzazione privata per mezzo della requisizione patrimoniale da parte dei creditori sugli azionisti.

Eppure, il funzionamento del sistema bancario dovrebbe essere totalmente capovolto. I requisiti dovrebbero funzionare al contrario di quanto previsto, ossia meno stringenti in fasi di recessione e per le categorie più bisognose, slegati dalla categoria idiota del rischio morale, orientati unicamente al bene comune della sostenibilità sociale ed ecologica, al fine di rimuovere la sostanza del rischio materiale. Nella media il margine dovrebbe coprire unicamente la complessità dei costi operativi, non come previsto nell’articolo 20 del trattato, secondo il quale il MES opera esclusivamente con un appropriate margin. Solo cancellando il profitto sarà possibile rivoluzionare il meccanismo di funzionamento del sistema bancario. In Italia, il giorno in cui fu approvato nel Testo unico bancario che l’attività bancaria ha carattere d’impresa fu celebrato il funerale del credito come bene comune. Qualsiasi rivoluzione deve ripartire da qui, dall’origine di tutto il male: il profitto!

Al tempo stesso, la democrazia e la partecipazione effettiva della classe lavoratrice sono il tassello dialettico fondamentale di una proprietà pubblica protesa al contrasto degli elementi burocratici, parassitari e corrotti. Tuttavia, non si tratta neanche qui di azzardo morale, quanto piuttosto di interesse materiale concreto della burocrazia parassitaria al raggiungimento dello scopo della tutela dei propri privilegi, per mezzo di operazioni truffaldine e fraudolente; inoltre, è davvero furbesco pretendere di rovesciare la finalità ecosocialista del credito per il presunto azzardo morale dei banchieri burocrati; sarebbe come buttare il bambino con l’acqua sporca. Ma è esattamente quello che la borghesia ha fatto scientemente di professione per tutto il secolo scorso, ovvero arrabattare motivazioni ideologiche e pretesti reali per egemonizzare il rigetto del comunismo e rendere progressivamente ignorante la coscienza di classe.

In secondo luogo, la riforma proposta prevede anche un cambiamento radicale, ma in senso peggiorativo, della funzione del MES come meccanismo di stabilità nei confronti degli stati. Il MES viene inserito nel quadro giuridico della valutazione della sostenibilità del debito degli stati al fianco della Commissione. Infatti, secondo le classi dirigenti europee uno dei limiti della normativa vigente è dato dal fatto che il monitoraggio sulla situazione economica e finanziaria e la decisione in merito alla sostenibilità del debito di ciascuno stato membro sia propria della Commissione, che, a differenza del MES, rimane un organo politico e non tecnico, europeo e non intergovernativo. L’obiettivo della riforma è quello di svuotare di ogni residuo di democrazia quanto resta del processo di valutazione quantitativa e qualitativa della condizione macroeconomica degli stati membri anche in vista delle condizioni rigorose da applicare in base alla sostenibilità del debito. Inoltre, come se non bastasse, mentre sulla sostenibilità del debito l’ultima parola è pur sempre assegnata alla Commissione, si introduce un nuovo principio di valutazione, quello della capacità di rimborso del debito, e, in questo caso, l’ultima parola è proprio del MES.

Così in modo schietto nel novello Considerando 12A: “Sostenibilità del debito e capacità di rimborso saranno valutate dalla Commissione europea di concerto con la BCE e dal MES, e ove opportuno e possibile insieme al FMI…  Qualora la collaborazione non conduca a una visione comune, la Commissione europea effettuerà la valutazione complessiva della sostenibilità del debito pubblico, mentre il MES valuterà la capacità di rimborso del proprio membro nei suoi confronti”. Il MES si sostituisce al FMI come organo esclusivamente tecnico in una troika nuova di zecca. Ma stavolta il MES entra a gamba tesa anche nelle decisioni politiche dell’UE. La riforma precisa che il MES può svolgere una preventiva attività di monitoraggio della situazione macroeconomica e finanziaria, inclusa un’analisi della sostenibilità del debito pubblico, al fine di essere in grado di intervenire in modo tempestivo in caso di necessità (articolo 3.1). Insomma, pezzi importanti del coordinamento delle politiche economiche dell’Unione europea vengono scippate da qualsiasi limitato argine democratico per approdare in un campo esclusivamente tecnocratico e protetto da qualsiasi pressione della classe lavoratrice e dei ceti popolari.

Come abbiamo visto precedentemente, le linee di credito condizionali, precauzionale e rafforzata, del MES erano subordinate alla predisposizione di un programma di aggiustamento macroeconomico contenente condizionalità rigorose commisurate alla sostenibilità del debito, e ora anche alla capacità di rimborso. Il nuovo quadro giuridico rafforza il ruolo tecnico del MES nella predisposizione delle condizionalità a scapito della Commissione. Si tratta di una modifica rilevante, che ha due conseguenze principali di segno opposto.

La prima conseguenza è che diviene necessario distinguere tra la linea di credito soft, adatta agli stati membri disciplinati e compliant alle regole del Patto di stabilità e degli squilibri macroeconomici, da quella hard, prevista per i paesi con debito pubblico insostenibile e finanza pubblica fuori dagli obiettivi di medio termine. Per tale ragione, la riforma prevede due procedure nettamente distinte. Nel caso della PCCL (linea precauzionale) non sarebbe più richiesta la firma di un Memorandum of Understanding, ma verrebbe concessa soltanto a fronte di una lettera di intenti con la quale il paese richiedente si impegnerebbe a osservare i criteri di minor impatto. La linea rafforzata, ECCL, continuerebbe a prevedere la sottoscrizione di un Memorandum of Understanding, con un programma di aggiustamento macroeconomico quasi interamente imposto dal tecnicismo del MES, con un ruolo politico di fatto subordinato della Commissione europea. Al contrario di quanto evidenziato da molti commentatori, la minore rigorosità della linea precauzionale non è affatto una buona notizia, piuttosto è semplicemente la necessaria conseguenza di una pessima notizia. A riprova di ciò, i paesi con fondamentali sani e che rispettano i criteri stabiliti saranno proprio quelli che difficilmente avranno bisogno di sostegno finanziario. Il piano inclinato dalla crisi di liquidità a quella di solvibilità è molto meno frequente per gli stati, rispetto alle banche. Un altro caso da manuale di selezione avversa delle politiche liberiste dell’austerità. Il sospetto è quello che il MES vada a rimpiazzare il ruolo della BCE persino sul fronte della liquidità d’emergenza.

La seconda conseguenza è data dalla necessità di ridurre il ruolo politico della Commissione nelle situazioni di ristrutturazione del debito, in modo da minimizzare l’esborso finanziario di salvataggio. In principio si propose di trasformare il MES in un vero e proprio Fondo monetario europeo, in grado di imporre la ristrutturazione del debito pubblico insieme ai programmi di salvataggio; poi, si attenuò la proposta in una sorta di ristrutturazione automatica del debito allo scattare di determinate condizioni espressamente previste in allegato; infine, si è giunti alla più morbida revisione delle clausole di azione collettiva, in modo da agevolare la ristrutturazione del debito nella sostanza senza cambiare nulla nella forma.

Così viene confermato quanto già previsto attualmente nel Considerando n. 12 che “in linea con la prassi del FMI, in casi eccezionali si prende in considerazione una forma adeguata e proporzionata di partecipazione del settore privato (private sector involvement) nei casi in cui il sostegno alla stabilità sia fornito in base a condizioni sotto forma di un programma di aggiustamento macroeconomico”. Tuttavia, vi si aggiunge che “su richiesta di un proprio membro e ove opportuno, il MES può favorire il dialogo tra detto membro e i suoi investitori privati su base volontaria, informale, non vincolante, temporanea e riservata”. Insomma, la ristrutturazione resta non automatica, ma viene favorita con il dialogo, immaginiamo pure con quali armi di pressione finanziaria.

Ma non basta. Con la riforma dell’articolo 12 del trattato, sarebbero modificate le clausole d’azione collettiva. In generale, di fronte a una proposta di rinegoziazione del valore dei titoli pubblici, occorre l’accordo dei creditori attraverso l’adesione con maggioranza qualificata di due tipi: un’adesione per l’insieme dei titoli pubblici emessi (il 75% dello stock complessivo in caso di assemblea fisica degli investitori o il 67% altrimenti); una seconda adesione per ciascuna serie di titoli pubblici (il 67% dello stock complessivo in caso di assemblea fisica degli investitori o la maggioranza assoluta altrimenti). Queste sono le c.d. dual limb CACs, nelle quali la doppia maggioranza rende probabile un potere di veto o una minoranza di blocco da parte di molti fondi speculativi, in grado di ostacolare la possibilità della ristrutturazione del debito. Viceversa, nella riforma si prevede l’introduzione, a partire dal 1° gennaio 2022, per i titoli di stato della zona euro di nuova emissione con scadenza superiore a un anno, anche delle clausole d’azione collettiva con approvazione a maggioranza unica (single limb CACs). Le clausole con approvazione a maggioranza unica consentono di prendere una decisione contestuale per tutte le serie di un dato titolo, senza la necessità di votare per ogni singola serie emessa. Per tale ragione, in presenza di un creditore in possesso della necessaria maggioranza rispetto agli altri detentori del debito pubblico di uno stato membro, tali modifiche potrebbero consentire una semplificazione delle procedure di ristrutturazione del debito.

Qui si è innescato lo scontro principale tra europeisti e nazionalisti, ma anche in questo caso, come nel bail in, occorre fare molta chiarezza. I liberali hanno visto nella c.d. ristrutturazione ordinata del debito, la riduzione dei costi connessi con l’incertezza sulle modalità e sui tempi della sua realizzazione, minimizzandone l’onere e limitandolo nei casi di grave esternalità sistemica dalle conseguenze inevitabili su tutte le altre economie dell’area euro. I populisti hanno rintracciato la minaccia del default per un paese come l’Italia con un debito pubblico elevato, allertando contro ogni forma di ristrutturazione del debito automatica o semi automatica che sia.

Ancora una volta la risposta dei populisti è l’opposto di quello che bisognerebbe rivendicare contro le minacce liberali. Infatti, la ristrutturazione del debito non è sbagliata in sé, semmai lo è la ristrutturazione capitalistica del debito pubblico. Al contrario di quanto sostenuto dai keynesiani di ogni razza, sostenibile o meno che sia, il debito pubblico produce una gigantesca montagna di miliardi che ogni anno si travasano dalle tasche della classe lavoratrice per finire nei portafogli della classe borghese possidente. Dunque, una cancellazione del debito pubblico è una necessità imprescindibile per una minima forma di redistribuzione di classe. Alla faccia di populisti e nazionalisti beceri, difendere il debito pubblico contro la ristrutturazione significa semplicemente difendere il capitale nazionale contro il capitale straniero, ovvero la piccola e media borghesia contro la medio grande borghesia: una lotta interna al capitale, piuttosto che una conquista della classe lavoratrice.

Rivendichiamo, al contrario: l’annullamento del debito pubblico selettivo e di classe, in grado di salvaguardare i risparmi della classe lavoratrice e dei ceti popolari; la ricapitalizzazione pubblica delle banche e delle istituzioni monetarie e finanziarie per mezzo di autentici meccanismi di stabilità finanziati da un’autentica banca centrale in grado di assistere realmente gli stati membri, ovvero di metterli razionalmente sul sentiero di una crescita sostenibile ed ecosocialista. Ecco perché la prospettiva ecosocialista è l’unica alternativa della classe lavoratrice allo scontro tra il medio grande capitale del liberalismo europeista e il piccolo e medio capitale del populismo nazionalista. Ecosocialismo o barbarie, tertium non datur!!!

4.     Tutte le ipocrisie del MES pandemico

Terminiamo allora con il punto dal quale eravamo partiti, ovvero la linea di credito pandemica del MES. Lo scorso 8 maggio l’Eurogruppo ha dato seguito a quanto approvato il 23 aprile dal Consiglio europeo, prevedendo la linea di credito pandemica in seno al MES, Pandemic Crisis Support, pari al 2% per ciascun stato membro, circa 36 miliardi di euro disponibili per l’Italia. È stato richiamato che l’unico requisito per l’accesso a tale prestito sarà dato dal finanziamento diretto o indiretto delle necessarie spese sanitarie, di cura e di prevenzione, per fronteggiare la pandemia. Al posto del Memorandum o della lettera d’intenti, in questo caso sarà sufficiente un Pandemic Response Plan.

Tuttavia, già lo statement dell’Eurogruppo stabilisce, nel punto 5, che il monitoraggio e la sorveglianza dovrebbero essere in linea con il quadro dell’UE e le pertinenti linee guida del MES. Sebbene, si evidenzi un quadro semplificato di rendicontazione e monitoraggio, limitato agli impegni dettagliati nel Piano di risposta alla pandemia, il MES implementerà anche il suo Early Warning System, il c.d. Sistema di allarme rapido, per garantire il rimborso tempestivo del debito.

Dunque, l’unica differenza con le altre linee di credito del MES è data dall’assenza di rigorose condizioni ex-ante per consentire l’attivazione del prestito. L’unica condizione è data, infatti, dalla necessità di spendere le risorse per il sistema sanitario. Ciò nonostante, non solo la sorveglianza ex-post resta pienamente incardinata nel quadro giuridico dell’Unione e delle linee guida del MES, con tutto ciò che questo comporta dal punto di vista della disciplina del Patto di stabilità, della Procedura di squilibri macroeconomici, del Fiscal Compact, della sostenibilità del debito e della capacità di rimborso, ma addirittura, al pari di tutte le altre linee di credito, si innesca comunque il terribile Early Warning System. Di cosa si tratta? L’articolo 13(6) del trattato stabilisce che “il MES istituisce un idoneo sistema di avviso per garantire il tempestivo rimborso degli eventuali importi dovuti dal membro del MES nell’ambito del sostegno alla stabilità”. In questo caso, la disciplina del MES è strettamente connessa con la riforma del Patto di stabilità, prevista dai due regolamenti del 2013 sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio, c.d. Two pack.

Pressati dai dubbi e dalle rimostranze dell’opinione pubblica, in una lettera inviata il 7 maggio all’ex presidente dell’Eurogruppo, Mario Centeno, in qualità di presidente del MES, i commissari Gentiloni e Dombrovskis hanno auspicato che: non debba esistere alcuna ragione per attivare gli articoli 3(3), 3(4) e 3(7) del regolamento 472/2013, del Two pack, in materia di sorveglianza rafforzata per gli stati membri nella zona euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria; non vengano condotte dalla Commissione missioni ad hoc addizionali a quelle comunque previste nell’ambito del Semestre europeo; siano esclusi i programmi di aggiustamento macroeconomico previsti dall’articolo 7 del medesimo regolamento; non siano parimenti attivati gli articoli 14(2) e 14(4) sulla sorveglianza e il monitoraggio ex-post, prevedendo solo una rendicontazione semplificata e che le missioni di revisione siano integrate nel regolare ciclo di sorveglianza del Semestre europeo.

Ora premesso che non si capisce bene quale rango delle fonti del diritto europeo abbia tale lettera, rispetto al trattato del MES e ai regolamenti del Two pack, tale da consentire la disattivazione di importanti istituti, ma soprattutto e in ogni caso non si prevede la non applicazione né del resto dell’articolo 14 del Two pack concernente la Sorveglianza post-programma, né i paragrafi 5 e 6 dell’articolo 13 del trattato del MES relativi alle condizioni per il successivo rimborso del debito. Si evince molto chiaramente, al di là di tutte le perfide rassicurazioni, che mentre le condizioni rigorose siano effettivamente tralasciate ex-ante per accedere al prestito, esse restano tali e quali per garantire le successive tranche di pagamento e rimborso ex-post.

Si potrebbe comunque obiettare che per circa 36 miliardi su un debito pubblico di oltre 2.500 miliardi, tale rimborso non rappresenta un onere rilevante; mentre esso garantirebbe comunque un risparmio in termini di interessi. Ma anche questa obiezione risulta davvero ipocrita.  Ad oggi, il rendimento decennale dei titoli di stato si è ridotto a 0,52%, per effetto dell’intervento della Banca centrale europea, mentre il rendimento decennale del bond del MES è pari a -0,38%. Il risparmio è pari a 90 punti base, i quali, moltiplicati per 36 miliardi di potenziale credito, rappresentano un risparmio approssimato di 324 milioni l’anno. Tuttavia, il MES applica un margine di 10,5 punti base, uno 0.005% di service fee  e circa 25 punti base di ulteriore commissione iniziale d’ingresso, per un totale medio annuo di 18 punti base. Quindi, il risparmio reale è pari a 259 milioni l’anno.

Ancora però, le obbligazioni del MES saranno quinquennali o al massimo decennali. Il Tesoro italiano ha già emesso a fine ottobre titoli trentennali a tassi vantaggiosi, per lo stato s’intende, dell’1,7%, mentre oggi rendono addirittura l’1,12%. Il vero scopo, in una fase di rendimenti bassi, per il Tesoro dovrebbe essere quello di allungare quanto più possibile la scadenza dei titoli. Qui si misura il vero risparmio per il bilancio pubblico. Inizialmente, venne proposta, anche da economisti mainstream, una linea pandemica del MES cinquantennale o centennale; in quel caso, avremmo parlato davvero di risparmio, ma così com’è siamo di fronte all’ennesimo inganno villano degli europeisti de noantri. Tutto ciò senza considerare l’effetto stigma che potrebbe incrementare lo spread sui titoli sovrani. Inoltre, il confronto non è corretto in quanto i titoli del MES godono del carattere privilegiato, ovvero senior, rispetto ai titoli nostrani, nel senso che devono essere rimborsati prioritariamente. Ma nel mercato ogni servizio ha un prezzo. Un confronto paritario dovrebbe scontare l’effetto derivante dal carattere privilegiato di questi titoli in quanto rappresenta comunque un costo niente affatto irrilevante per un paese come l’Italia.

Infine, occorre pur sempre ricordare che, grazie al programma pandemico di acquisto dei titoli pubblici da parte della Banca centrale europea, la spesa per interessi dell’emissione aggiuntiva di titoli rientra in larghissima parte alla Banca d’Italia, e quindi al Tesoro, come dividendo della Banca centrale europea. In definitiva, si scopre che il risparmio presunto del MES è uno zero spaccato, semplicemente non esiste. Siamo così arrivati al paradosso, ma soprattutto speriamo di aver dimostrato l’infamia borghese. I nostri benpensanti mentono sapendo di mentire. Ma perché cotanto interesse da parte di lorsignori? Hanno così a cuore la nostra salute?

Per rispondere occorre partire da due evidenze empiriche chiare: la prima è il ruolo che all’interno della Confindustria ha assunto da tempo l’ambito di rappresentanza della sanità privata; la seconda è data dall’attuale congelamento dei capitali del MES. Da un lato, vi è la pressione della domanda di investimenti da parte della sanità privata e la ricerca spasmodica di opportunità di lauti profitti in epoca di pandemia; dall’altro v’è la ricerca ossessiva di opportunità e di offerta di finanziamenti da parte del MES. La salute del capitale è quella che conta davvero. La pandemia val bene un MES!!!

Eppure, tra le soluzioni per affrontare la pandemia dal punto di vista della classe lavoratrice, ci sarebbe la necessità, attraverso il ruolo della banca centrale, di cancellare il debito pubblico creato per fronteggiare la crisi sanitaria ed economica. Non è questa la sede opportuna per farlo, ma ci limitiamo a rimarcare alcuni aspetti chiave. A differenza dei populisti, che solitamente aderiscono fideisticamente all’ideologia cartalista e proudhoniana della politica monetaria, occorre essere consapevoli che l’emissione di moneta è sempre vincolata dalla sostanza del valore prodotto; non esiste denaro senza valore e non esiste valore senza lavoro; in un’economia capitalistica, poi, non esiste lavoro senza pluslavoro, valore senza plusvalore e denaro senza capitale. Pertanto, ogni eccesso di carta moneta si traduce in incremento generalizzato dei prezzi. Ciò nonostante, la crisi pandemica ha colpito sia la domanda che l’offerta, ma, come dimostrano i dati, la domanda in misura maggiore dell’offerta, con risultati recessivi e deflattivi. Di conseguenza, l’emissione straordinaria di moneta, in grado di trasmettersi direttamente all’economia reale e alla classe lavoratrice, non avrebbe alcun impatto immediato sull’inflazione.

Chiaramente, la cancellazione del debito pubblico per mezzo della monetizzazione può avvenire in molti modi: dall’annullamento dei titoli di debito pubblico acquistati dalla banca centrale alla trasformazione degli stessi in titoli pubblici perpetui senza scadenza. Nel primo caso, vi sarebbe una riduzione del capitale proprio della banca centrale; tuttavia, una banca centrale può tranquillamente operare, entro determinati limiti, con patrimonio netto negativo ed, in ogni caso, sarebbe sempre possibile una graduale ricapitalizzazione della banca centrale ad opera degli stati, soprattutto in vista della ripresa inflazionistica.

Questa è la premessa basilare per sostenere che una monetizzazione del debito pubblico potrebbe essere gestita dalla banca centrale senza contraccolpi inflattivi immediati e di vasta portata. Al tempo stesso, sarebbe necessario rimuovere l’intermediazione bancaria e finanziaria per la trasmissione della politica monetaria nell’economia reale, sia attraverso le operazioni sul mercato primario, sia attraverso il sostegno diretto alla classe lavoratrice, come i depositi in euro digitale potrebbero consentire senza problemi, a riprova di come il progresso tecnologico sarebbe un alleato importante della rivoluzione e della classe lavoratrice. Non un helicopter money, quanto piuttosto un intervento radicale e selettivo della banca centrale, direttamente a favore della classe lavoratrice e dei ceti popolari.

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