Saluteremo il signor padrone: una favola sociale

di Diego Giochetti

T’immagini

La faccia che farebbero

Se domani davvero

Davvero tutti quanti “smettessimo”!!

[…] Questa sì che sarebbe la crisi del secolo!!!

(Vasco Rossi, T’immagini, 1985)

Si ha diritto di sognare senza il permesso preventivo del partito? Sì, rispondeva Lenin nelle pagine dell’imperioso Che fare? E citava a sua difesa il pubblicista e critico russo, Dmitrij Ivanoviča Pisarev, secondo il quale il sogno, col suo precorrere il corso naturale degli avvenimenti, non danneggia la persona anzi, rafforza la sua energia e volontà. Si approfitti quindi della facoltà di sognare, di scavalcare il piccolo presente quotidiano per intravvedere con l’immaginazione il quadro compiuto, come fa il pittore mentre costruisce la sua opera. L’apparente contrasto tra sogno e realtà non per forza arreca danno se chi sogna lavora consapevolmente per attuarlo. Di sogni di questo genere, commentava Lenin, ce ne sono troppo pochi nel nostro movimento, ostacolati dal meschino “senso del concreto”, che svilisce e reprime ciò che l’immaginazione ci dice sia possibile realizzare.

Nel solco del diritto a sognare di Lenin si sviluppa la favola sociale scritta da Stefano Valerio, Saluteremo il signor padrone (Buendia Books, Torino 2023). Un libro agile e di piacevole lettura che cattura il soffio di una realtà più profonda, anticipatrice di una possibilità latente nel capitalismo moderno, cresciuta al suo interno, con solide premesse strutturali da cui muovere per cambiare lo stato di cose presenti, per essere più liberi e felici.

Una prospettiva utopica che si concretizza nel momento in cui, secondo l’incipit della favola sociale, venti milioni di lavoratrici e lavoratori, comunicano la fine del loro rapporto di lavoro inviando lettere di dimissioni. Finisce così l’era dell’Italia repubblicana fondata sul lavoro e si apre quella del reddito garantito, nella quale la stragrande maggioranza dei beni necessari è prodotta dalle macchine con un uso pressoché insignificante di forza lavoro.

Non tragga in inganno il sottotitolo “favola sociale” perché la narrazione poggia su strutture socioeconomiche e umane ben presenti nel sistema colte nella loro contraddittorietà e non univocità obbligata. Lo sviluppo tecnico-scientifico in uso in questa società, “libera dal lavoro” producendo disoccupazione, precarietà, dequalificazione delle mansioni; se spogliato dalla fame di plusvalore, fonte della ragion d’essere del capitalismo, tale sviluppo può trasformarsi in forza liberatrice, rovesciare l’equazione tempo di lavoro-tempo libero a vantaggio di quest’ultimo. In entrambi i casi si registra la tendenza verso un mondo in cui il lavoro umano si riduce, sostituito dai computer e dalle macchine e prospetta la possibilità di un benessere e di una prosperità senza precedenti a patto che la ricchezza sociale prodotta sia distribuita equamente, riducendo il potere delle grandi imprese per ridefinire una società in cui il lavoro non sarà più il centro delle nostre vite.

I protagonisti messi in azione dall’autore delineano le varie tipologie di carattere dei componenti le classi sociali e i ceti politici, sindacali, militari: l’operaio metalmeccanico con trent’anni di lavoro sulle spalle, la giovane addetta alla distribuzione, il rider, il manager-imprenditore di una grande industria automobilistica, il segretario del maggior sindacato, i rappresentati delle istituzioni politiche e di piccoli gruppi rivoluzionari sopravvissuti a decenni di sconfitte, i vertici dell’esercito propensi all’azione di forza per riportare l’ordine smarrito dopo le dimissioni di massa. Fallito il “golpe” militare, di fronte alla necessità di riprendere la produzione, un abile ingegnere sociale mette al lavoro robot, macchine, algoritmi. Salta la legge del plusvalore, le persone ricevono un salario di esistenza garantito, rimangono attivi i servizi sociali di cura, assistenza, formazione scolastica e culturale in senso lato.

Il tema sollecitato da Stefano Valerio non è un ceppo tagliato in mezzo al bosco. La sua feconda immaginazione poggia su dati reali, certo spuri e meno netti di quelli impostati nella favola. Recente è la pubblicazione di una ricerca sul fenomeno delle dimissioni nel mondo, oltre due milioni l’anno scorso in Italia. Partendo dal racconto di lavoratrici e lavoratori, la sociologa Francesca Coin ha analizzato le ragioni della crescita di una tendenza del tutto inattesa (Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita, Einaudi, Torino 2023). Dimettersi dal lavoro, scrive, ha due significati: impedire alle condizioni di sfruttamento di deteriorare la nostra salute e le nostre relazioni e riconquistare tempo per noi stessi e per la nostra vita. È un fenomeno che dà importanza ai propri bisogni e non alle esigenze della società del lavoro. Si rivendica la riduzione della giornata lavorativa e l’abbandono del lavoro quando è ritenuto umiliante per la persona. Le dimissioni non sono solo la risultante della presa di coscienza dello sfruttamento, entrano nel merito del valore d’uso, interrogano il produttore sull’utilità o la dannosità del prodotto. L’alienazione da valore d’uso interroga la coscienza della persona, ingenera conflitti circa la nocività della merce rispetto all’ambiente naturale e sociale. Alla coscienza di essere espropriato del frutto del proprio lavoro, si unisce la consapevolezza di uno sfruttamento del corpo e della mente, della vita nel suo insieme, quando gli esseri umani si accorgono di non essere nella condizione di auto-svilupparsi secondo tutta la loro specifica potenzialità. La grande dimissione, com’è stata definita, contiene la consapevolezza di voler svolgere un lavoro coerente coi propri valori, in caso contrario meglio dimettersi o non accettare l’offerta di lavoro. È un processo-ridefinizione del significato del lavoro, una ricerca di occupazioni più eque, più giuste, più rispettose dei bisogni delle persone. Si tratta di trovare dei punti di connessione tra la fuga dalle forme nocive che ha assunto la prestazione lavorativa, indirizzata alla ricerca di condizioni di vita migliori, e l’eliminazione della necessità stessa del lavoro. Sognare una vita libera dal lavoro, nel tempo presente, vuol dire lottare per un reddito garantito, d’esistenza, di cittadinanza, insinuandosi nelle contraddizioni di questa società per afferrare opportunità e spazi di libertà possibili al suo interno che sempre più rendono inutile e superato il capitalismo e il lavoro salariato.