Dalla Val Susa fino allo Stretto, passando per Bologna: ecosocialismo o barbarie

Sabato 17 giugno: tre manifestazioni contestano il Tav, il Ponte e il consumo di suolo che ha causato l’alluvione in Romagna. Questo articolo riassume le ragioni di tre campagne decisive ma vorrebbe enfatizzare il ruolo che dovrebbe avere l’istanza ecosocialista nei processi di convergenza e insorgenza [Checchino Antonini]

La crisi climatica (le alluvioni nelle Marche e in Romagna, soprattutto, dopo mesi di siccità che col fango restituisce i veleni dell’industria chimica), la speculazione edilizia aggrovigliata agli interessi della criminalità mafiosa (il Ponte sullo Stretto ma anche la Tav), l’austerità che, grazie alla trappola del debito, inibisce ovunque la cura dei territori mentre premia il consumo di suolo alla rincorsa di profitti e di fondi pubblici, come accade in Val di Susa, a Genova e in ogni landa interessata dai cantieri per le grandi opere. 

Da Nord a Sud un modello di sviluppo mostra senza veli gli effetti catastrofici sull’ecosistema dell’azione delle politiche liberiste degli ultimi decenni. Tav, Ponte e Romagna alluvionata e inquinatissima, saranno l’oggetto di tre manifestazioni parallele questo sabato perché in questa fase sono gli eventi più macroscopici di una tendenza di fondo dentro un paese “sbloccato” dai governi che si sono succeduti per l’estrazione di combustibile fossile e il suo stoccaggio (Piombino, Ravenna, le piattaforme dell’Adriatico), per allevamento e agricoltura intensiva, per un catalogo di grandi opere senza eccezione alcuna devastanti inutili e dannose, come i nuovi Stadi per il football che incombono su Roma e Milano per fornire di asset finanziari le spa multinazionali che lucrano sul senso comune agghiacciante delle piccole patrie calcistiche.

Se è “sbloccato” a nome e per conto di un padronato vorace e senza scrupoli, questo Paese è anche costellato da una miriade di vertenze “periferiche”, ne cito un paio solo a titolo di esempio, la battaglia nella Capitale contro l’inceneritore di Gualtieri, quella per la rinaturalizzazione dell’area Ex Snia a Roma (dove è scaturito il Lago Bullicante) che coinvolge migliaia di persone o la lotta per impedire che il quartier generale di certi carabinieri-paracadutisti devasti una pregiatissima area naturale a Coltano, nei dintorni di Pisa.

A complicare il quadro romano le cento pagine della Giunta Gualtieri che, di fatto, cancellano in un colpo solo il Piano Regolatore: si potrà costruire ovunque grazie a un semplice “accordo”. E’ l’ennesimo “Sacco di Roma”, legale e targato Pd.

Oltre al minimo comune conduttore di una regia bipartizan, questo contesto è segnato dall’ambiguità del più grande sindacato che, a macchia di leopardo magari partecipa alle lotte con le sue strutture periferiche ma in altri casi (Romagna e Tav balzano agli occhi) sta dall’altra parte della barricata, quella da cui piovono candelotti e manganellate sui manifestanti, quella che produce appalti, subappalti, lavoro pessimo, malpagato, nocivo e insicuro.

Questo lungo articolo, oltre a riassumere le ragioni di tre campagne decisive, fornendo anche piste e materiali, vorrebbe enfatizzare il ruolo che dovrebbe avere l’istanza ecosocialista nei processi di convergenza e insorgenza, nella ricostruzione di un blocco sociale conflittuale e antagonista capace di costruire una risposta complessiva proprio a partire da conflitti localizzati ma paradigmatici e dai bisogni immediati. Un ruolo che le soggettività che si richiamano all’ecosocialismo e a un’analisi di classe dovrebbero svolgere costruendo inchiesta, connessione e collegando elementi “visionari” alle piattaforme “realistiche”, quelle che (giustamente) puntano a ristori e risposte immediati ma che rischiano di esaurire le mobilitazioni con una delega a questo o a quel parlamentare di turno, a questo o quel partito desideroso di ripulirsi il pedigree.

A incombere su tutte le vertenze ci sono altri tre veleni potenti, almeno, che balzano agli occhi e sono stati fabbricati per ostacolare l’agibilità del conflitto da entrambi gli schieramenti politici che si contendono la guida del comitato d’affari delle borghesie: la militarizzazione dei territori grazie all’invenzione berlusconiana delle zone strategiche di interesse nazionale, i decreti Minniti-Salvini che prevedono il daspo per gli attivisti, l’uno e pene raddoppiate, l’altro, per chi venga individuato come promotore delle proteste. Il terzo veleno è la propensione accentuata, da parte della magistratura, ad applicare l’associazione a delinquere a ogni fenomeno di movimento sociale. Una tendenza che è molto visibile in Europa, in Francia, ad esempio, dove una polizia – attuale campione d’Europa di abusi contro i manifestanti – può contare sul supporto di una parte di toghe che non esitano a costruire teoremi contro i militanti ambientalisti che non hanno nulla da invidiare alla ferocia politica e giudiziaria che si sta abbattendo sugli attivisti e sulle attiviste, protagonisti di gesti assolutamente nonviolenti, di Ultima Generazione in Italia.

Non manca, né qui, né altrove, il supporto di sedicenti scienziati revisionisti che, malgrado le prove schiaccianti sulle responsabilità dell’industria del fossile, e sulla sua consapevolezza fin dalla fine degli anni ’60, continuano a utilizzare una lettura deformata dei dati per negare la relazione tra eventi climatici estremi e modello liberista.

La marcia popolare dei 10mila stivali sporchi di fango

Sta succedendo in queste ore in Romagna anche grazie a un contesto politico dominato dalla libertà d’azione di un governo liberal-fascio-leghista. Ovvio che l’Ue a trazione turbo liberista è il supporto più potente per dare copertura politica e finanziaria a politiche come quelle di Bonaccini in Emilia, avallate con docilità da Elly Schlein finché è stata sua vice in Regione che hanno portato la regione ad ad essere terza a livello nazionale per consumo di suolo, “con più di 658 ettari cementificati in un solo anno: significa che si è registrato oltre il dieci per cento di tutto il consumo di suolo nazionale”. «E tuttavia la regione potrebbe facilmente scalare la classifica – scrivono Cristina Quintavalla e Matteo Bortolon – quando venissero attuate o completate le opere previste dal PRIT (Piano Regionale Integrato dei Trasporti; attualmente è in vigore la versione PRIT 2025, approvata il 23 dicembre 2021):

•          il passante di mezzo di Bologna, il cui progetto, voluto da Autostrade per l’Italia, prevede il potenziamento fino a 18 corsie di tangenziale e autostrada di Bologna;

•          la Bretella Autostradale Campogalliano-Sassuolo, a favore del grande comparto della ceramica, che passa sulla riva destra del fiume Secchia e duplica la tangenziale che collega Modena a Sassuolo;

•          l’autostrada regionale Cispadana, che collega con una nuova autostrada di 67 Km il casello di Reggiolo-Rolo con il casello di Ferrara sud;

•          la Ti.Bre (Corridoio plurimodale Tirreno-Brennero), che prevede il collegamento tra A15-A22, di cui il primo lotto, una mostruosa colata di cemento in piena pianura fertile, è già stato realizzato;

•          l’allungamento dell’aeroporto di Parma da trasformare in cargo.

Leggiamo ancora per fornire una pista a compagne e compagni che vogliano mettersi in azione o sono già attivi/e in campagne e vertenze ecosocialiste: «Nel non lontano 2017 un pool di insigni studiosi, urbanisti, architetti in un libretto di poco più di un centinaio di pagine, Consumo di luogo. Neoliberismo nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna nel disegno di legge urbanistica dell’Emilia-Romagna, avevano denunciato la pericolosità della deregulation della nuova legge urbanistica regionale dettata dall’Ance, la confindustria dei palazzinari: salvaguardare gli investimenti economici già in atto

1.         tutelare i legittimi affidamenti fondati sulle previsioni di pianificazione già approvate e per le quali sono state spesso fornite garanzie agli istituti di credito

2.         sostenere la ripresa economica, favorendo nuovi investimenti in coerenza col Patto per il lavoro”

L’ideologia padronale, di comparti condizionati in larga parte dalla criminalità mafiosa che controlla il ciclo della movimentazione terra e del cemento, è che «l’espansione edilizia sia una leva di crescita, anche se ha originato un’urbanizzazione frammentaria e ingiustificata, ha prodotto grandi opere, drenato risorse pubbliche, privatizzato il territorio, svenduto il patrimonio storico delle città, eroso il suolo agricolo. Come osserva la geografa Paola Bonora: “Il territorio è diventato il cantiere di produzione di valore, ma di un valore che deriva dalla rendita fondiaria […]. Ci troviamo cioè di fronte ad una valorizzazione che non produce e mette in circolo altro valore, ma cristallizza delle rendite e sottende speculazioni di piccola o di grande scala” (sempre tratto da Bortolon-Quintavalla).

 Se i costruttori sono riusciti a svuotare il senso degli enti territoriali imponendo la diretta negoziazione della disciplina urbanistica lo dobbiamo agli orientamenti di politica finanziaria conseguenti al rispetto dei famosi parametri di Maastricht incarnati nel Patto di Stabilità e di Crescita (PSC). E’ il solito, tremendo ritornello dell’”Europa che ce lo chiede”. Da allora gli enti locali devono partecipare agli equilibri dei vincoli europei con tagli dei trasferimenti agli enti locali (per esempio il fondo per le politiche sociali è stato tagliato del 58%), patto di stabilità interno: 5 mld € non utilizzati nelle casse dei comuni italiani, 55 milioni solo in Emilia Romagna; spending review con forti limiti alla spesa, crescita dei tributi locali fra il 2008-18 hanno i maggiori aumenti. Tra le conseguenze di tutto ciò le privatizzazioni e gli oneri di urbanizzazione sono uno dei pochi modi di fare cassa per le amministrazioni di prossimità ormai senza armi per reali politiche pubbliche di cura dell’ambiente e delle persone.

E’ importante sapere che, tra chi scenderà in piazza a Bologna, a un mese esatto dall’alluvione, saranno in molti – “gli stivali” – a vivere in prima persona il dramma dell’alluvione, a altri sono comunque portatori di un sapere dal basso che i movimenti elaborano, conservano e trasmettono, anche nei momenti di riflusso.

Da allora si continua a spalare e il bilancio dell’alluvione è tremendo 15 morti, 40mila sfollati, oltre 7 miliardi di euro di danni. 23 fiumi sono esondati contemporaneamente, oltre 280 frane, di cui 120 particolarmente importanti, più di 100 comuni coinvolti, quasi 5mila uomini della protezione civile impegnati giorno e notte ad assistere la popolazione. Danni a case, infrastrutture ferroviarie, autostradali ed alle strade statali.

Le piogge sono state importanti, ma il territorio è uno dei più antropizzati d’Europa e il consumo di suolo lo ha reso fragile e lo ha esposto a ciò che sarebbe potuto accadere secondo i report di istituzioni che da diversi anni mettono in guardia».

A partire dall’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, fino all’Autorità di bacino distrettuale dell’Appennino centrale, all’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica, Legambiente, WWF Italia, Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Geologi, è stato detto che l’evento è stato accentuato dalla non adeguata gestione da parte della Regione Emilia-Romagna del proprio territorio, in particolar modo di non essere intervenuta sulle problematicità del dissesto idrogeologico e sulla legislazione del consumo di suolo. Nella tabella di consumo di suolo annuale netto del 2020-2021, tra i primi 10 comuni con più di 100mila abitanti che hanno consumato più suolo nel biennio, 4 sono dell’Emilia-Romagna (in seconda posizione Ravenna, in quarta Reggio Emilia, settima Modena, ottava Forlì). Tra il 2020 e il 2021 l’Emilia-Romagna è stata infatti la terza Regione italiana per consumo di suolo, più 658 ettari cementificati in un solo anno, pari al 10,4% di tutto il consumo di suolo nazionale (fonte Altreconomia). Un battage di negazionismo climatico sui giornali della destra ha provato a scollegare questa vicenda da quella più generale del surriscaldamento climatico ma il dossier citato del World Weather Attribution è stato confezionato ad arte ma poi sonoramente smentito da un documentato articolo di “Climalteranti”, autorevole blog di formazione e discussione sul tema dei cambiamenti climatici.

Torna in piazza il Movimento No Ponte

Nelle stesse ore di sabato 17 giugno,  a Torre Faro, si terrà il primo corteo No Ponte da quando il governo Meloni ha fatto ripartire le procedure per la realizzazione del Ponte sullo Stretto. Alla manifestazione, organizzata dal movimento No ponte, nelle componenti del comitato No Ponte Capo Peloro, Invece del ponte, Rete No ponte Calabria e Spazio No ponte, a cui hanno aderito partiti, movimenti, sindacati, associazioni e centri sociali. Dopo assemblee e piccoli eventi culminati con il presidio davanti agli imbarchi il 6 giugno scorso, quando Salvini era ospite della Cisl per un convegno sul ponte organizzato a bordo di una nave C&T, il movimento No Ponte riporta in piazza  “un solo No con mille sì”, uno slogan storico per chiedere di utilizzare i soldi per opere necessarie, utili e sostenibili e lasciar cadere una volta per tutte l’idea dell’ecomostro tra Scilla e Cariddi.  Come spiega un esperto come Antonio Mazzeo (di cui in calce proponiamo un dossier su Crimine organizzato e costruzione del Ponte: « la più grande gittata di cemento e calcestruzzo e che avrà la campata unica più lunga del pianeta, 3.360 metri, 1.400 in più del gioiello tecnologico giapponese di Akashi Kaikyo. Nell’incantevole scenario di Scilla e Cariddi, i mitologici mostri decantati da Omero, si chiede di realizzare due torri di cemento e acciaio alte 382,60 metri, formata ognuna da due piloni del diametro di oltre 50 metri, rette da quattro tiranti di acciaio per un peso totale di 166.600 tonnellate. Il volume delle fondazioni in Sicilia sarà di 86.000 metri cubi, mentre in Calabria di 72.000. Oltre al Ponte vero e proprio saranno realizzati 40 chilometri di raccordi stradali e ferroviari (2 km su viadotto e 20,6 km in galleria), mega-discariche, cave e strutture di raccordo. L’Opera investirà superfici territoriali vastissime nelle province di Messina e Reggio Calabria: la somma delle aree destinante ai cantieri ammonterà a 514.000 metri quadri, a cui si aggiungeranno le aree destinate a discariche finali, distanti anche più di 50 km dall’infrastruttura, per un valore complessivo di 764.500 mq».

L’Anac, l’autorità anticorruzione, segnala che ancora non ci sono i soldi ma c’è l’entusiasmo di Salvini (e dei suoi alleati nelle filiere tradizionalmente egemonizzate dalle mafie) per resuscitare un controverso progetto giudicato non idoneo dieci anni fa e scoperchiare il sepolcro in cui speravamo fossero chiusi anche gli attori imprenditoriali che lo avevano ideato, un’idrovora di soldi pubblici regalati all’impasto di imprenditoria mafiosa ben noto alle cronache. Il decreto che resuscita il progetto non contiene clausole su varianti eventuali e prelude a un rigonfiamento dei costi caratteristico di opere di questo genere. Oltre al prevedibile disastro ambientale, il sicuro rischio d’impresa non sarà un buon affare per le casse pubbliche. Anche qui è “l’Europa che ce lo chiede”.

Contro la Lione-Torino, finalmente una mobilitazione franco-italiana!

Ma in Europa qualcosa sta cambiando, non certo a Strasburgo e Bruxelles dove anzi si respira un vento di destra in vista delle elezioni del ’24, come si evince dai testi in discussione per un ulteriore giro di vite sui migranti.  Quella che sta cambiando è l’aria francese attorno a quel versante del Tav.

Un progetto ferroviario titanico, in ballo da più di trent’anni, che prevede la perforazione di 260 km di gallerie attraverso i massicci alpini, anima la fantasia megalomane e squilibrata del consorzio TELT, “Euralpin Lyon Turin Tunnel”, affiancato da decisori politici “visionari” e da gruppi come Vinci Bouygues o Eiffage. Sebbene il trasporto merci sia in stagnazione dal 1994 e la linea esistente sia utilizzata solo al 20% della sua capacità di trasporto, TELT prevede di scavare 11 gallerie, tra cui la più grande d’Europa, il “Tunnel di base” di 57 km. E tutto questo per far risparmiare ai viaggiatori e alle merci solo 1 ora e 25 minuti tra Parigi e Milano. Un modo semplice per garantire decenni di succulenti progetti di costruzione, spinti da oltre 30 miliardi di denaro pubblico. Nella valle della Maurienne e in Val di Susa, sono iniziati i lavori preparatori per il tunnel di base. Già decine di sorgenti si sono prosciugate o hanno perso la loro portata a causa dei lavori, le falde acquifere sono state perforate e 1500 ettari di terreno agricolo saranno resi improduttivi. Tutto questo per allestire aree di costruzione, stoccare i milioni di metri cubi di macerie scavate dalla montagna, aprire gli impianti di cementificazione e le cave in cui depositari i materiali estratti e costruire le gallerie.

A circa dieci anni, in Francia, collettivi e associazioni si mobilitano per dimostrare l’assoluta insensatezza di questo progetto. Ma questa lotta va oltre le frontiere! In Italia, il movimento popolare NO TAV lotta da 30 anni per preservare la sua valle, le sue montagne e la vita che vi prospera, nonostante la violenta repressione e la drastica militarizzazione dei territori. Mobilitazioni di 70.000 persone, blocchi dei cantieri, costruzione di spazi di vita comune all’interno o in prossimità dei cantieri, il movimento italiano è riuscito a rallentare la corsa frenetica di questo progetto arcaico! Prima dell’inizio della perforazione del tunnel di base, fermiamo questo progetto, prima che l’opera e i danni causati siano irreparabili!

L’incontro tra francesi e italiani No Tav  avverrà nella valle della Maurienne finalmente con una manifestazione internazionale lunga due giorni, 17 e 18 giugno.

Insorgenza e convergenza

Il 17 giugno da Campi Bisenzio partirà un pullman per supportare la manifestazione di Bologna “10mila stivali nel fango”, facendo seguito alle spedizioni di solidarietà partite da Ex Gkn per andare a spalare il fango in Romagna.

E il 18 giugno sarà una giornata campale per la reindustrializzazione dedicata ad una “conferenza operaia, assemblea sindacale e dell’attivismo climatico” dove discuteremo delle esperienze passate, presenti e future delle aziende che sono state prima chiuse dalle delocalizzazioni e poi logorate dalle finte reindutrializzazioni.