Il Governo fa la festa ai lavoratori e alle lavoratrici
di Francesco Locantore
Il primo maggio il governo Meloni si è riunito per discutere di alcuni provvedimenti riguardanti il mondo del lavoro, oggetto di un decreto pubblicato in gazzetta ufficiale solo il 4 maggio. Giustamente il governo è stato criticato da sinistra per l’operazione propagandistica di riunire il Consiglio dei ministri il giorno della festa del lavoro e per il video populista con cui la Meloni ha annunciato le riforme sui social, presentandosi come la paladina dei diritti dei lavoratori, quella che fa i fatti e non le parole.
Dopo la pubblicazione del decreto abbiamo qualche elemento in più per valutare questi fatti e, come c’era da aspettarsi, questo governo si conferma un acerrimo nemico della classe lavoratrice, anche quando apparentemente elargisce qualche euro in busta paga.
Taglio del cuneo o scala mobile dei salari?
Il primo e più sbandierato provvedimento riguarda un ulteriore taglio del cuneo fiscale, che porterà nelle tasche dei lavoratori con redditi fino a 35mila euro l’anno, fino a 100 euro al mese da luglio a dicembre 2023 (la cifra è comprensiva dell’aumento già disposto con la legge di bilancio).
E’ stato già scritto che la misura è insufficiente (perfino Renzi aveva fatto meglio) e che è destinata a durare solo per pochi mesi, visto che servirebbero quasi 10 miliardi di euro per renderla strutturale. La critica da parte sindacale su questo punto è debole, visto che i principali sindacati confederali, compresa la Cgil di Landini, si limitano a chiedere che il governo intervenga sul cuneo fiscale per restituire ai lavoratori il potere d’acquisto che stanno perdendo con l’inflazione.
Pochi si sono resi conto però che il taglio del cuneo fiscale va proprio nella direzione sbagliata.
Intanto per essere precisi, il taglio del cuneo si realizza attraverso una diminuzione delle aliquote contributive, ferme restando quelle fiscali. I lavoratori e le lavoratrici con redditi fino a 35mila euro/anno verseranno quindi il 4% in meno di contributi IVS. Questo taglio va a cumularsi con quello già previsto dalla legge di bilancio, del 2% per i redditi fino a 25mila euro e del 3% per quelli fino a 35mila euro, determinando il fatto che il gettito contributivo del 2023 coprirà solo l’85% della spesa per le pensioni di invalidità, vecchiaia e per i superstiti. Il restante 15% verrà coperto dalla fiscalità generale (presente o futura, per la parte della misura finanziata con un aumento del debito pubblico).
A conti fatti, questo apparente aumento delle retribuzioni nette verrà pagato dagli stessi lavoratori dipendenti e dai pensionati, che contribuiscono per l’85% circa al gettito complessivo dell’Irpef. Senza contare che tutto questo mette ulteriore pressione sul sistema pensionistico, che già oggi restituisce pensioni da fame al termine di una vita lavorativa sempre più lunga.
I padroni possono a buona ragione dirsi soddisfatti dalla logica sottostante a questo tipo di manovre. L’aumento dei salari monetari ha infatti come effetto collaterale quello di diminuire la pressione salariale in un periodo di alta inflazione. Lo scrive nero su bianco il giornale di Confindustria: “Non va trascurato peraltro che il taglio al cuneo fiscale è stato individuato come leva utile a rinforzare i redditi dei lavoratori dipendenti in tempi di inflazione alle stelle senza innescare la spirale prezzi salari che sarebbe stata accesa dagli aumenti contrattuali” (Il Sole 24 ore del 3 maggio 2023, p. 7).
Non si capisce invece perché i sindacati dovrebbero assecondare questa logica, se non per gli interessi di autoconservazione di una burocrazia incapace di mettere in campo le lotte sociali che sarebbero necessarie per riconquistare salari e pensioni dignitose, come invece sta avvenendo altrove in Europa.
Il primo obiettivo sindacale in questa fase dovrebbe essere invece la riconquista della scala mobile: un meccanismo automatico di adeguamento dei salari e delle pensioni all’inflazione, che permetta di mantenerne il potere d’acquisto nonostante gli aumenti dei prezzi, in gran parte generati, in questa fase, da problemi dal lato dell’offerta, cioè dai colli di bottiglia nelle catene di approvvigionamento mondiali di materie prime e semilavorati, dopo i blocchi determinati dalla pandemia, dalla guerra scatenata dalla Russia e dalle crescenti tensioni geopolitiche. Non si capisce perché questi aumenti debbano essere pagati dalla classe lavoratrice e non dai profitti dei padroni, in particolare da quelli che invece stanno ingrassando con extraprofitti grazie alle tragedie mondiali cui stiamo assistendo negli ultimi anni.
Licenziamenti, precarietà e povertà
I provvedimenti governativi imboccati dalla Confindustria non si sono limitati al solo taglio del cuneo fiscale. Ulteriori schiaffi alla classe lavoratrice sono stati dati sul terreno della disciplina sulle dimissioni volontarie, sulla precarizzazione dei rapporti di lavoro e sul sostegno ai redditi più poveri. I primi due provvedimenti sono contenuti all’interno di un disegno di legge di iniziativa governativa, mentre il terzo è incorporato nel decreto del 4 maggio, quindi immediatamente applicabile.
Sulle dimissioni, viene addirittura peggiorata la disciplina introdotta dal Jobs Act, che aveva cercato di mettere una pezza sul problema dei licenziamenti mascherati da dimissioni, impedendo la pratica ampiamente usata di far firmare le dimissioni in bianco all’atto dell’assunzione. Ora si stabilisce che una assenza ingiustificata del lavoratore per un periodo superiore a cinque giorni (se non diversamente stabilito dal CCNL) equivale alle sue dimissioni volontarie. In questo modo i lavoratori potranno essere dimessi “volontariamente” senza inventarsi complicati stratagemmi per aggirare le leggi, impedendo inoltre a questi lavoratori di poter accedere alla Naspi.
Per quanto riguarda la precarizzazione del lavoro, il Governo ha pensato bene di proporre nel ddl l’eliminazione dei limiti alle assunzioni di lavoratori in somministrazione, in pratica si liberalizza il lavoro interinale. Inoltre nel decreto viene mandato in soffitta il decreto dignità del governo Conte, che prevedeva l’obbligo di causale per i contratti a termine di durata superiore ai 12 mesi. Ora i contratti precari potranno avere una durata fino a 24 mesi e non dovranno riportare la causale, che potrà essere genericamente prevista per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva o per sostituire altri lavoratori.
Sulla lotta alla povertà, intesa proprio nel senso letterale di bastonare ulteriormente le persone povere, dopo aver cancellato il reddito di cittadinanza, il Governo lo sostituisce dal primo gennaio 2024 con un assegno di inclusione, condizionato da un “percorso personalizzato di attivazione e di inclusione sociale e lavorativa”. In pratica l’assegno di 480 euro mensili sarà riconosciuto solo ai nuclei familiari poveri (ISEE inferiore a 9.380€) in cui sia presente un disabile, un minorenne o un ultra-sessantenne, per 18 mesi (con la possibilità di rinnovo per altri 12 mesi). Questo assegno non spetta alle famiglie in cui sia presente un lavoratore che si sia dimesso volontariamente nei 12 mesi antecedenti alla domanda (vedi sopra) e viene revocato in caso di rifiuto di una qualsiasi proposta di lavoro a tempo indeterminato su tutto il territorio nazionale o entro gli 80km dal domicilio in caso di lavoro a tempo determinato.
La logica comune che sta sotto a questi provvedimenti è che l’occupazione sia un privilegio gentilmente concesso dal datore di lavoro, per cui bisogna accettare e sottomettersi a qualsiasi condizione di lavoro e a qualsiasi salario, e se qualcuno è povero o ha problemi di “inclusione sociale” in fondo è colpa sua, è un furbo che vorrebbe campare alle spalle dello Stato. Tutta la canea che si è sollevata da parte dei padroni piccoli e grandi contro il modesto provvedimento che è stato il reddito di cittadinanza, oggi ha trovato riscontro in un governo antipopolare che non esita a farsi carico delle esigenze espresse dalla borghesia.
Di fronte a questa logica bisogna riconquistare e contrapporre con forza un punto di vista autonomo della classe lavoratrice, avanzando una piattaforma per l’abrogazione di tutti i contratti di lavoro precari, per la riduzione della giornata lavorativa e della vita lavorativa a parità di salario, in modo da redistribuire le ore di lavoro e uscire dal ricatto della disoccupazione, per un salario minimo stabilito per legge al di sotto del quale non sia possibile lavorare, collegato ad un salario sociale per chi non lavora e non può essere sottoposto al ricatto della fame.
Saremo nelle piazze sindacali previste nel mese di maggio per chiedere uno sciopero generale contro il governo Meloni e aprire anche in Italia una nuova fase storica in cui la classe lavoratrice torni protagonista del proprio destino!