Una “postfascista” alla guida del neo governo delle destre non è un passo avanti per i diritti delle donne

di Laura Vassalli

“Finalmente una donna alla guida di un governo!” hanno gridato i media, commentando tutto il percorso di nomina di Giorgia Meloni a presidente del Consiglio dei Ministri. Evviva? Siamo nell’era della parità di genere? Certamente no e poi no.

Il messaggio che è passato sui media è più o meno questo: una donna arrivata a una delle più alte cariche dello Stato se non è proprio indice di una parità di genere raggiunta, almeno è un segnale positivo, perché si va nella giusta direzione.

Purtroppo, invece, c’è poco da stare allegre, soprattutto prendendo in considerazione che la persona in questione, oltre a essere di sesso biologico femminile, è una postfascista.

Che questo incarico lo possa ricoprire una rappresentante degli epigoni dei fascisti di cento anni fa, è anche il risultato di decenni di “memoria condivisa” ed equiparazione tra le “ragioni” di chi scelse di porsi a sostegno della dittatura fascista e di chi scelse invece di combatterla.

La storia si ripete sempre due volte, la prima volta come tragedia e la seconda come farsa, anche se questo non deve assolutamente farci sottovalutare la pericolosità di questo governo che sta dimostrando tutta la sua ferocia e disumanità anche in questi giorni con le vicende legate alle/ai migranti. A cento anni dalla tragedia del fascismo, dalla sua violenza, dalla sua feroce repressione, dalle persecuzioni e dalle deportazioni di tantissime persone, tra cui quelle “ree” di non rispondere ai canoni di mascolinità e femminilità imposti, ci ritroviamo dunque al governo una destra nostalgica ugualmente omolesbotransfobica, ma che, mentre inneggia ancora al motto Dio Patria Famiglia di fascista memoria, vuole apparire ripulita e “responsabile” agli occhi delle classi dominanti.

Un governo contro le donne e le soggettività LGBTQ*

Giorgia Meloni e le ministre e i ministri di cui si è circondata (compresa l’antiabortista Roccella, già all’attacco del “femminismo di sinistra”) portano avanti un’idea, che si sta trasformando in azione di governo, di una società familista, antiabortista, razzista e patriarcale. Con questo governo l’autodeterminazione delle donne, la loro libertà di decidere del proprio corpo, delle proprie relazioni e della propria vita, i diritti delle persone LGBTQ* e delle migranti, sono ulteriormente in pericolo, sia per i suoi atti politici, sia per il clima sociale e politico che si sta già instaurando e in cui neofascisti, maschilisti e razzisti di ogni sorta si sentiranno legittimati e protetti.

Nascere donna non vuol dire automaticamente essere disposte a lottare contro un sistema patriarcale che, nella nostra società, garantisce al sistema capitalista enormi profitti, ad esempio sfruttando l’essenziale lavoro “di cura” gratuito svolto quotidianamente dalla stragrande maggioranza delle persone di genere femminile o retribuendo le donne meno degli uomini.

Ci sono donne che hanno raggiunto livelli dirigenziali politici o aziendali molto alti, ma sono donne privilegiate che fanno coerentemente parte di questo sistema e lo sfruttano a vantaggio proprio personale e di quello delle élite di cui fanno parte, proprio come farebbe un uomo.

Quando altre donne non femministe, o antifemministe, hanno occupato una posizione di potere è successo esattamente quello che ci si poteva aspettare, ovvero che per la stragrande maggioranza delle donne non è cambiato nulla, anzi spesso le condizioni di vita delle lavoratrici (e dei lavoratori) sono drasticamente peggiorate (si pensi a Margareth Thatcher in Inghilterra, ad esempio). Di donne al potere in sistemi patriarcali e razzisti consiglio la lettura di questo articolo sulla nomina a vicepresidente degli Stati Uniti di Kamala Harris.

Queste donne, tra cui Giorgia Meloni, hanno tutto l’interesse a mantenere il loro status di eccezione e che la massa delle donne venga invece esclusa da ogni potere, venga ostacolata incessantemente nella propria autodeterminazione e rimanga relegata a un ruolo sociale subordinato a quello maschile.

La guerra contro le donne (sull’antifemminismo di Giorgia Meloni si veda questo articolo) è cominciata innanzitutto sul piano simbolico. Appena insediata, Giorgia Meloni ha subito specificato di voler essere chiamata “il signor presidente”, tornando così all’uso del “maschile neutro” e a un tipo di linguaggio che esclude il genere femminile dal discorso pubblico e distorce la realtà. I movimenti femministi hanno da tempo smascherato la finta neutralità del maschile universale e sovraesteso e propongono invece un linguaggio inclusivo che si sta diffondendo sempre più anche nella società, tanto che è già stato usato da altre cariche istituzionali. Con questo governo si torna dunque parecchio indietro. D’altronde, anche il nome del partito della neo presidente, “Fratelli d’Italia” è un misto di patriarcato e nazionalismo che stride abbastanza con un linguaggio inclusivo.

Il nuovo nome del Ministero della Famiglia, Natalità e Pari opportunità, poi, evoca subito la politica familista e antifemminista del neo governo, relegando le Pari Opportunità in fondo, ma tenendo la dicitura evidentemente come specchietto per le allodole.

La ciliegina sulla torta di questo triste quadro è la carrellata di nomi femminili rigorosamente senza cognome, che la neo presidente ha citato nel suo discorso alla Camera, in cui ha accennato perfino a due partigiane, ma solo, ovviamente, in quanto ex alte cariche dello Stato.

Il nuovo governo e il diritto all’aborto

La neo presidente Giorgia Meloni, antiabortista dichiarata e conclamata, ha sostenuto più volte  e con convinzione marce familiste e “per la vita”, mentre la ministra “pro vita” Eugenia Maria Roccella, portavoce del primo Family Day e contraria all’adozione per le coppie omosessuali ha definito l’aborto come “il lato oscuro della maternità”. La prima si è premurata subito di dire che non toccherà la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, mentre la seconda ha dichiarato di volerla addirittura difendere.

Da una parte le dichiarazioni formali di intenti, dall’altra i primi atti contro l’autodeterminazione delle donne sono iniziate già il primo giorno di legislatura, in cui sono stati presentati tre disegni di legge (due da Maurizio Gasparri di Forza Italia e uno da Massimiliano Romeo della Lega), uno per il riconoscimento della capacità giuridica già al concepimento, uno per l’istituzione di una “giornata della vita nascente” e il terzo che chiede nuovi fondi per ostacolare il ricorso all’aborto e una riforma dei consultori per assicurare la “tutela della vita fin dal concepimento”.

Esponenti di Fratelli d’Italia hanno più volte presentato proposte di legge per l’obbligatorietà della “sepoltura dei feti” anche all’insaputa o col parere contrario della donna che ha abortito.

D’altronde, la neo presidente e la neo ministra sanno benissimo che per negare un diritto, anche se tutelato sulla carta, è sufficiente svuotare una legge senza necessariamente arrivare ad abrogarla. Nel caso dell’interruzione volontaria di gravidanza, questo già accade principalmente attraverso l’obiezione di coscienza diffusa nelle strutture sanitarie.

In Italia la media dell’obiezione di coscienza si aggira intorno al 70%, con molte regioni che si pongono tra l’80 e il 90% e con molte strutture che arrivano al 100%.

L’aborto farmacologico, oltre ad essere molto meno invasivo, potrebbe risolvere in buona parte il problema della presenza massiva degli obiettori di coscienza, ma, nonostante i protocolli, soprattutto  nelle Regioni dove governano le destre viene fortemente ostacolato e limitato, a volte con deliranti giustificazioni razziste su un imminente pericolo di sostituzione etnica, come paventato dal consigliere capogruppo marchigiano di Fratelli d’Italia, Carlo Ciccioli.

Colpevolizzazione e criminalizzazione delle donne fanno parte delle strategie antiabortiste. L’imposizione per legge della “settimana di riflessione”, che obbliga le donne che hanno già deciso di ricorrere all’interruzione di una gravidanza non desiderata a considerare un ripensamento ne è un esempio.

A tutto ciò, si aggiunge la mancanza strutturale di fondi adeguati nella sanità, personale insufficiente e spesso precario e la privatizzazione dei servizi, grazie anche ai passati governi di “centrosinistra” o “tecnici”.

Uniamo le lotte per affermare la nostra autodeterminazione

Da femministe e da antifasciste non gioiamo certo per il fatto in sé che una donna sia in una posizione di comando. Potremmo farlo se il potere non fosse gestito da una classe sfruttatrice che si avvale del patriarcato e del razzismo per mantenere i suoi privilegi e se si realizzasse una società giusta imperniata su un femminismo diffuso, senza discriminazioni, in cui non faccia notizia da prima pagina l’assunzione di un ruolo di responsabilità da parte di una donna. Ma per arrivare a questo è necessario un movimento di massa, che sappia mettere insieme la lotta per l’autodeterminazione delle donne e delle soggettività LGBTQ*, i diritti civili e le istanze di giustizia sociale. Occorre far convergere le lotte a livello mondiale contro questo sistema capitalista che porta guerre, devastazione ambientale, sfruttamento e diseguaglianze.

Intanto una marea transfemminista sta montando e il movimento femminista il 26 novembre sarà in piazza a Roma, contro la violenza maschile sulle donne, contro la violenza istituzionale e istituzionalizzata, contro lo sfruttamento del lavoro gratuito “di cura” estorto alle donne, contro il sistema neoliberista, patriarcale e neocolonialista che ci governa, contro la guerra e la sua morsa autoritaria, antidemocratica e distruttrice, per i servizi pubblici, gratuiti e senza interferenze ecclesiastiche, contro le destre portatrici di un oscurantismo reazionario, razzista, sessista e classista, per l’autodeterminazione e la giustizia sociale.

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