Bilancio del gorbaciovismo. Rivoluzione dall’alto contro rivoluzione dal basso

Lo scorso 30 agosto è morto, all’età di 91 anni, Michail Gorbaciov, ultimo Presidente dell’URSS (dal 15 marzo 1990 al 25 dicembre 1991) e per moltissimi anni Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica (dal 11 marzo 1985 al 24 agosto 1991).

Nelle ore e nei giorni successivi, sono stati numerosi gli articoli e i commenti della stampa nazionale e internazionale per ricordarne “lo spessore politico”, “il coraggio riformatore” e “il coraggio politico”. Persino leader politici come Biden, Macron e Von Der Leyen hanno inviato messaggi di ricordo e gratitudine per l’eredità lasciata da Mikhail Gorbaciov: “un leader raro”, “un uomo di pace” capace di “abbattere muri”, “uno statista unico nel suo genere”.

Michail Gorbaciov è stato negli anni Ottanta e inizio anni Novanta tra i protagonisti di un’epoca caratterizzata da profondi cambiamenti storici: il suo impegno per una politica distensiva tra Occidente e Est Europa (con la firma dei trattati sul disarmo nucleare tra Urss e Stati Uniti d’America e il ritiro delle truppe russe dall’Afghanistan) lo portarono addirittura ad essere insignito del Nobel per la pace nel 1990. Oltre a questo, tra i meriti che gli sono stati riconosciuti, prontamente ricordati dopo la sua morte, c’è quello di aver aperto l’Unione Sovietica al mondo e di aver introdotto una serie di riforme in patria (tra cui le famose ‘glasnost’ e ‘perestrojka’, trasparenza e ristrutturazione) che portarono in pochi anni al crollo del Muro di Berlino e al dissolvimento dell’Urss.

Da contraltare a queste valutazioni, per una residua sinistra politica occidentale (nostalgica dell’Urss e fortemente identitaria) Michail Gorbaciov non è stato altro che “un traditore”, “un venduto agli americani”, un cancro che ha provocato la morte dell’Urss. Simili commenti si possono registrare anche tra alcuni strati popolari russi che, oltre ad essere bersagliati quotidianamente dalla propaganda patriotica e revanscista putiniana, hanno dovuto negli ultimi decenni subire sulla propria pelle le ristrutturazioni economiche e sociali delle politiche capitaliste russe.

Per quanto ci riguarda, Michail Gorbaciov, le sue scelte politiche e le contraddizioni che hanno prodotto vanno inquadrate dialetticamente nel contesto storico, politico, economico e sociale in cui operarono. Per far questo ci sembra utile ripubblicare un articolo di David Seppo, Bilancio del gorbaciovismo. Rivoluzione dall’alto contro rivoluzione dal basso, uscito su Bandiera Rossa n° 21-22, gen-feb 1992, che delinea gli elementi essenziali e le dinamiche politiche e sociali che hanno portato all’instaurazione del capitalismo nell’ex Urss.

Per approfondire l’argomento, nei prossimi giorni pubblicheremo un intero dossier, con testi e articoli sulle politiche gorbacioviane di quegli anni, tra cui un articolo di Antonio Moscato dal titolo 1989. L’impossibile autoriforma, che descrive molto chiaramente come la crisi che portò al crollo dell’Urss (a partire da una serie di concatenazioni di avvenimenti che coinvolsero quasi tutti i paesi dell’Est europeo) fu molto profonda e ebbe radici lontane.

Michele Azzerri


Bilancio del gorbaciovismo. Rivoluzione dall’alto contro rivoluzione dal basso

di David Seppo

I cambiamenti politici che si sono prodotti in Unione sovietica dalle elezioni della primavera 1990, considerevolmente accelerati dal mancato colpo di Stato del 19 agosto, hanno segnato la fine del capitolo della perestrojka aperto da Michail Gorbaciov nella storia dell’Urss. Non si tratta più di “ristrutturare” il vecchio sistema economico, ma di sostituirlo nel suo insieme con quella che è stata presentata come una economia “normale”, vale a dire il capitalismo. Coloro che detengono il potere non si chiamano più “comunisti” – il Pcus è stato bandito con decreto – ma si presentano come “democratici”.

A dispetto di questi spettacolari cambiamenti, colpiscono particolarmente gli elementi di continuità tra i due periodi. Il più importante di questi elementi è l’assenza di dibattito democratico e di controllo per quanto riguarda i problemi cruciali di questa riforma economica, che mira del resto a rimaneggiare la struttura stessa della società e a determinare il cammino per i prossimi decenni. Il progetto ufficiale di riforma, che ha conosciuto una radicale evoluzione nel corso degli ultimi due anni, continua a essere presentato come l’unico possibile. L’idea di una soluzione alternativa – né capitalista né “amministrativa di comando” (burocratica) – è rifiutata unanimemente con disprezzo come utopica e nociva dai politici, da “eminenti” intellettuali e dai giornalisti che, per difendere le loro concezioni, si riferiscono senza tregua all’esperienza reale o immaginaria del mondo “civilizzato”. Tuttavia, non molto tempo fa, queste persone dipingevano a tinte scure, con la stessa sicurezza, il mondo capitalista e descrivevano la società sovietica come la realizzazione vittoriosa della “teoria del socialismo scientifico”. (…)

Si può capire meglio questa continuità nel cambiamento se si utilizza il concetto di rivoluzione “dall’alto”. Il ruolo storico di trasformazioni di tale natura è di preservare il potere e i privilegi di almeno una parte della vecchia classe dominante, all’occorrenza della burocrazia del partito-Stato o “nomenklatura” (si tratta più di uno strato sociale che di una classe storica; nella fase attuale infatti cerca di trasformarsi in una classe proprietaria a pieno titolo).

Simili trasformazioni vengono inaugurate dagli elementi più chiaroveggenti delle vecchie classi, che si rendono conto che il vecchio modo di dominazione si è esaurito e che qualsiasi insistenza a mantenerlo stimolerebbe una rivoluzione “dal basso”, cioè una insurrezione popolare realmente democratica.

Benché la situazione si sia evoluta ben al di là di ciò che gli iniziatori della perestrojka avessero programmato all’inizio (un sistema burocratico razionalizzato essenzialmente sempre fondato sulla proprietà statale), si è mantenuto il carattere fondamentale di rivoluzione “dall’alto” antipopolare. Im­ portanti settori del vecchio strato burocratico si sono spostati verso il settore privato in ascesa o si sono integrati nelle strutture statali “democratiche”. Contemporaneamente, nuovi elementi che provengono soprattutto dall’ “economia sotterranea” (illegale) del passato e settori “intraprendenti” dell’intellighentsia, che conta su importanti relazioni, hanno apertamente occupato posizioni di potere e di ricchezza più o meno legali.

Tuttavia questa rivoluzione “dall’alto”, pur avendo realizzato progressi impressionanti, è lontana dall’essere compiuta e il suo successo finale non è per nulla assicurato. Una rivoluzione popolare, “dal basso”, non può essere esclusa, anche se oggi è solamente potenziale. A breve periodo, lo sviluppo più probabile è quello di un’impasse politica, visto che le forze popolari hanno bloccato la rivoluzione “dall’alto” senza però essere in grado di realizzare una trasformazione democratica che corrisponda ai loro interessi. Un simile impasse potrebbe durare molti anni.

Alla fine del 1987, un segretario del comitato centrale ha affermato in una riunione nella città di Shakhty, nel sud della Russia, che se il partito non avesse avviato a tempo la perestrojka, il popolo sarebbe sceso in piazza. È difficile valutare quanto il pericolo in quel momento fosse immediato ma non vi è dubbio che nel 1985 il malcontento popolare, per la stagnazione del livello di vita e la corruzione che inquinava tutti i livelli di governo, avevano alla fine convinto la maggior parte della direzione che il sistema politico lasciato da Breznev non avrebbe più potuto assicurare la stabilità interna del regime, né lo statuto di grande potenza del paese (e la prima era di gran lunga la constatazione più importante).

Le radici della crisi consistevano nella natura contraddittoria della burocrazia stessa, uno strato dominante i cui interessi sono in contrasto con la logica del sistema politico ed economico che controlla. La burocrazia non è sorta con la Rivoluzione d’Ottobre, ma è il prodotto non voluto dell’arretratezza della società russa e dell’isolamento della rivoluzione in un mondo capitalista ostile. L’estrema degenerazione della rivoluzione negli anni Venti e Trenta sotto la direzione burocratica non ha, tuttavia, portato alla restaurazione del capitalismo ma alla “economia di comando” e al tentativo totalitario di controllo su tutti gli aspetti della vita sociale. Tale regime, una volta costituito, genera un sistema di gestione che è intrinsecamente fattore di spreco e di conservazione, che si divide per frazioni, per gruppi regionali, di mafia o di clan: ogni gruppo difende suoi ristretti interessi a scapito delle esigenze nazionali.

Un regime che si fonda sull’usurpazione del potere e sull’illegittima appropriazione di privilegi materiali può difficilmente contenere la corruzione e gli abusi in limiti “accettabili” dal momento che ogni funzionario si ingegna a trarre profitti supplementari dalle attività di cui è responsabile.

Le contraddizioni della burocrazia

La sfrenata ricerca dei propri interessi da parte dei singoli burocrati ha come conseguenza paradossale di minare il potere burocratico nel suo insieme. Per la sopravvivenza del sistema diventa necessario un capo forte che protegga la burocrazia in quanto tale. Stalin ha riportato ordine nella burocrazia – e nella società -per mezzo di un apparato terroristico che controllava personalmente; Krusciov ha fatto ricorso a misure non terroristiche per mantenere la burocrazia nell’incertezza mentre tentava di costruirsi una base politica indipendente basata su un intreccio di misure populiste e di miglioramento dei livelli di vita.

Questa strategia è fallita e la burocrazia lo ha sostituito con un proprio strumento, Breznev, che si è limitato a lasciar andare le cose ispirandosi al principio: “Dopo di me, il diluvio”. Il suo regime ha portato alla profonda crisi della fine degli anni Settanta. Andropov, al principio, si è sforzato di ristabilire la disciplina senza cambiare la natura di fondo del sistema, ma è morto appena dopo l’arrivo al potere e il regno del suo successore, Cernienko, è durato ancora meno. Quando Gorbaciov è stato scelto come segretario generale, nel 1985, da un pugno di vecchi funzionari che costituivano il Politburo (anche se ufficialmente è stato eletto da alcune centinaia di membri del comitato centrale, istanza dell’élite della burocrazia, in larga misura onorifica) si riteneva che il suo compito sarebbe stato quello di continuare l’opera di Andropov. Gorbaciov, infatti, aveva promosso campagne contro la corruzione e per la disciplina e un progetto di ristrutturazione (“accelerazione”) industriale a partire dalla metallurgia, concepito come leva per una rapida modernizzazione tecnologica.

La portata relativamente modesta di questi sforzi iniziali era dettata dagli interessi della burocrazia che, dopo tutto, costituiva la base sociale di Gorbaciov e lo strumento per le sue riforme. Queste erano condannate in partenza, esattamente come i piani quinquennali dei tre ultimi decenni che non avevano raggiunto i principali obiettivi.

Gli indicatori economici del 1986 furono relativamente positivi ma questo derivava in gran parte dall’entusiasmo popolare per le promesse di mutamento, per uno stile di direzione più populista e più aperto, dal timore che le campagne di Gorbaciov avevano, all’inizio, ispirato alla burocrazia; l’effetto non poteva che essere effimero e già nell’anno successivo erano riapparsi i segni della stagnazione.

Ancora nell’estate del 1987, Gorbaciov rassicurava il comitato centrale che non ci sarebbero state riforme del mercato, ma in realtà egli era già convinto che era necessario procedere a trasformazioni più radicali, a una “rivoluzione dall’alto”. La riforma del mercato appariva come la sola possibilità di successo. Già, negli anni Sessanta, analoghe riforme erano state discusse in Unione sovietica ed erano state avviate in forme timide prima di essere annullate per una reazione burocratica conservatrice. La riforma del mercato era inoltre stata, negli anni Settanta, la scelta di tutti i regimi riformatori in Europa orientale e della Cina mentre in Unione sovietica era continuamente evocata negli istituiti di scienze sociali. Quando la perestrojka e la glasnost sono diventate politica ufficiale, i sostenitori delle riforme sono diventati consiglieri ufficiali del governo e hanno cominciato a diffondere le loro idee attraverso gli strumenti di comunicazione.

Le riforme di mercato della perestrojka

II principio ispiratore delle riforme di mercato della perestrojka era la sostituzione della “economia di comando” centralizzata, che in linea di principio (ma non nella pratica) considerava l’intera economia come una sola gigantesca impresa, una economia nella quale i rapporti tra le aziende non dovevano più fondarsi su ordini amministrativi dall’alto ma su contratti liberamente stipulati.

Il coordinamento verticale delle gigantesche burocrazie del partito-Stato avrebbe lasciato il posto a un coordinamento economico orizzontale orientato dal mercato. La pianificazione e il coordinamento sarebbero stati ottenuti indirettamente con strumenti economici quali la manovra dei tassi di interesse e l’imposizione fiscale, che avrebbero definito i parametri entro i quali le aziende, autonome e concorrenziali, avrebbero preso le loro decisioni. Il ruolo economico dello Stato sarebbe stato ridotto al controllo del mercato, alla pianificazione di lungo periodo e alla gestione di settori come la Difesa, la Sanità e l’Educazione che non potevano essere abbandonati al mercato.

A parte la retorica ufficiale sul “socialismo di mercato”, fu presto chiaro che tale concezione della riforma comportava un passo indietro rispetto alla tradizionale concezione socialista (ancora una volta nella pratica le cose andavano diversamente, anche se l’ideologia aveva qualche fondamento nella realtà) fondata su una società sempre più egualitaria capace di fornire garanzie socio-economiche solide a tutti i membri. Gli ideologi della perestrojka dichiararono che queste idee erano sorpassate e le indicarono come la causa fondamentale del I’ inefficacia del precedente sistema di “comando”; a loro parere le tendenze al livellamento dovevano essere abbandonate se si volevano stimolare imprese e individui a produrre con efficacia quei beni e servizi che la società richiedeva. Il mercato veniva indicato come il solo strumento sperimentato che permettesse alla società di esprimere le sue scelte. Contemporaneamente venivano soppresse le restrizioni all’attività economica privata da parte di individui e cooperative. Tutto questo avrebbe dovuto contribuire a superare le carenze del settore statale nella produzione di beni e servizi.

Indipendentemente dai problemi puramente economici e tecnici posti dalla riforma, vi era un ostacolo di fondo e cioè la mancanza di un vero sostegno da parte della società. Una delle contraddizioni principali stava nel fatto che la burocrazia che avrebbe dovuto guidare la riforma era, nel suo complesso, ostile al tentativo di Gorbaciov di “salvarla da se stessa”.

La burocrazia contro la perestrojka

Alcune ragioni spiegavano tale ostilità. Da un punto di vista più generale, le riforme strutturali comportavano rischi di cui non si poteva valutare tutta la portata: la limitata liberalizzazione politica prevista nel quadro della glasnost metteva in luce la profonda ostilità popolare nei confronti dei “burocrati parassiti”; la riforma avrebbe potuto costituire una minaccia per lo stesso potere burocratico, come nel 1968 in Cecoslovacchia. Neppure era certo che migliori risultati economici avrebbero assicurato, in ultima analisi, una maggiore stabilità politica. È certo che in altre società dello stesso tipo la riforma del mercato aveva all’inizio prodotto una rapida crescita economica, ma nella seconda metà degli anni Ottanta, la maggior parte di queste società si erano impantanate nel debito estero, nell’inflazione e in una nuova tendenza alla stagnazione.

L’instaurazione della “economia di comando” verso la fine degli anni Venti era stata la risposta burocratica alla crisi della economia mista della Nep; in seguito, la sua gestione era diventata la ragione d’esser dei giganteschi apparati del partito e del governo (secondo alcune stime si trattava di 18 milioni di persone, nel 1987). La riforma del mercato, così come era ufficialmente intesa, comportava per questi apparati una sostanziale perdita di potere, mentre intere amministrazioni, con centinaia di migliaia di posti, avrebbero dovuto essere soppresse e i posti disponibili nelle industrie e nei servizi non avrebbero potuto offrire né status, né condizioni, né retribuzioni comparabili a quelli che si perdevano.

Anche per chi non era direttamente minacciato, la perestrojka apriva un periodo di grande instabilità. Le prime epurazioni di Gorbaciov erano state senza dubbio positivamente salutate dai membri della burocrazia intermedia e giovane, le cui carriere erano bloccate dalla gerontocrazia brezneviana (I ‘aspetto caratteristico di Breznev era stato sempre il “rispetto per i quadri”). I funzionari aspirano sempre alla sicurezza del proprio posto e la perestrojka contrastava questo fondamentale interesse: il mantenimento del posto sarebbe ora dipeso da una rigorosa e regolare valutazione del lavoro svolto e quel che costituiva un fattore ancora più grande d’angoscia era che questa valutazione sarebbe dipesa non solo dai superiori amministrativi ma anche dagli operai e dagli impiegati di base. Anche il più onesto e il più competente degli amministratori si rendeva conto che verifica e controllo non potevano che complicare un lavoro già difficile.

Amministratori onesti e competenti erano assai poco numerosi; il sistema, specialmente all’epoca di Breznev, era divenuto assai efficace nel piegarli e, nell’impossibilità di piegarli, nell’allontanarli. Anche i privilegi collegati alle funzioni amministrative, decisi dall’alto – alloggi, godimento di servizi rari a buon prezzo e di alta qualità – rappresentavano agli occhi della popolazione una forma di corruzione. Tutto ciò veniva mostrato dalla stampa liberalizzata dalla glasnost. A differenza della borghesia nelle società capitalistiche avanzate, i burocrati, obbligati a fingersi i garanti della rivoluzione socialista, si erano mostrati incapaci di dare legittimità al loro potere e alla loro condizione di privilegio e non potevano accettare a cuor leggero l’allentamento del controllo burocratico sulla società.

Analoghi atteggiamenti e interessi erano fondamentalmente condivisi dagli organi di repressione dello Stato, la polizia, l’esercito e il Kgb. L’esercito in particolare – così come l’industria militare – doveva aspettarsi restrizioni di bilancio significative. Il “nuovo pensiero” di Gorbaciov comportava una riduzione del ruolo della forza militare nella politica estera: questo significava spesso fare concessioni unilaterali agli Stati uniti e ai loro alleati. Le critiche pubblicamente fatte all’esercito intaccavano il suo prestigio (assai alto sotto Breznev), in particolare agli occhi dei giovani tra i quali il rifiuto del servizio militare stava diventando un problema serio. Per quanto riguarda il Kgb, si trattava di una istituzione odiata che già stava per essere privata di uno dei suoi compiti principali: la repressione contro la dissidenza politica e culturale. Gli ufficiali erano allarmati per il declino dell’Unione sovietica come grande potenza e per le minacce alla sua integrità territoriale da parte dei movimenti nazionali in ascesa.

Per tutte queste ragioni la perestrojka non contava che su un sostegno assai limitato nelle fila della burocrazia. Certo vi erano in tutti i settori dell’apparato del partito e dello Stato elementi assai competenti, energici e chiaroveggenti che avevano compreso la necessità di una ampia riforma e visto positivamente la sfida ma in nessun caso questi rappresentavano la maggioranza. Neppure i managers delle aziende, che sarebbero stati liberati dalla tutela burocratica, non sempre erano entusiasti della riforma: quelli che avevano raggiunto successi nelle fasi precedenti li dovevano in gran parte alle relazioni intrattenute con i settori superiori della burocrazia statale o di partito. Una conseguente riforma di mercato avrebbe tolto ogni valore a queste relazioni e avrebbe rese necessarie altre qualità. In più, ora sarebbe stato necessario saper trattare con operai che perdevano la soggezione verso le direzioni. Anche se l’autogestione odiata dai dirigenti, non si fosse alla fine concretizzata (a questo proposito la lobby dei direttori ha finito col farsi intendere da Gorbaciov) la forza lavoro sarebbe stata assai meno malleabile.

Formalmente tutti i burocrati erano sostenitori entusiasti della perestrojka. In quanto strato sociale la burocrazia è stratificata gerarchicamente e non poteva sfidare apertamente la direzione più o meno unita che esisteva nei primi momenti; la sua opposizione si esprimeva attraverso una resistenza passiva e pressioni dietro le quinte che determinavano inefficacia e incoerenza di provvedimenti e leggi, aperte sfide politiche nei confronti di Gorbaciov in riunioni al vertice del partito e al Soviet supremo, di solito preceduti sui media da ondate di informazioni che mettevano il pubblico in allerta per le gravi minacce conservatrici.

Ogni volta, queste iniziative, in genere poco serie, erano state facilmente respinte da Gorbaciov, che i conservatori non osavano allontanare poiché lo ritenevano un utile bastione contro i liberali e il popolo. In ogni caso, l’offensiva mancata aveva l’effetto di rafforzare i “radicali”, fondamentalmente intellettuali, ai quali via via si affiancavano burocrati disertori che assumevano posizioni liberali. In tal modo la burocrazia rivelava la sua enorme debolezza politica: profondamente divisa da spaccature regionali e settoriali, si dimostrava incapace di agire di propria iniziativa senza disporre al vertice di una direzione forte e decisa. La sua debolezza consisteva in particolare nell’incapacità di elaborare un programma per uscire dall’isolamento sociale pressoché completo e per far uscire il paese dalla crisi sempre più grave: il suo sistema era decisamente screditato agli occhi della grande maggioranza della popolazione a causa del “periodo di stagnazione”.

Già nel secondo e terzo anno della perestrojka e, in particolare, dopo la caduta dei regimi dell’Europa orientale, gli elementi più chiaroveggenti e più fiduciosi in sé della burocrazia, rappresentati da personaggi come Boris Eltsin e da Yan Silaiev (un burocrate per tutta la vita, capo del primo governo di Eltsin), si resero conto che il regime era condannato e legarono la propria sorte politica all’introduzione di un sistema di mercato fondato sulla proprietà privata. Molti funzionari e ex funzionari cominciarono a inserirsi nel processo di “accumulazione primitiva” del capitale.

Resistenze popolari alla perestrojka

Malgrado l’entusiasmo popolare iniziale per la prospettiva di porre fine al “regime di stagnazione”, l’atteggiamento generale della popolazione verso la perestrojka fu freddo e diffidente. Sociologi e giornalisti sovietici hanno attribuito questo atteggiamento all’inclinazione degli operai per la vita facile di cui avrebbero goduto sotto il vecchio regime. In realtà, i salari, già modesti inizialmente, erano stati stazionari nei diciotto anni precedenti; le condizioni sanitarie e della sicurezza sociale erano pessime e il caos nella produzione aveva conseguenze disastrose sulla vita dei lavoratori per l’alternarsi di periodi di ozio forzato e la fine dei quadrimestri, quando occorreva fare gran quantità di ore straordinarie, anche il sabato e nei giorni festivi. I sindacati erano strumenti passivi della direzione e i lavoratori avevano pochi strumenti di difesa contro le decisioni arbitrarie dei direttori. Per di più, era constatazione quotidiana verificare gli sprechi e l’irrazionalità di un sistema che privava anche della soddisfazione di fare un buon lavoro, un lavoro utile.

I lavoratori sovietici avevano una sana sfiducia nelle riforme dall’alto, fondata su una amara esperienza storica: le campagne burocratiche lanciate senza vere consultazioni popolari o dibattiti aperti, tendevano a fallire miseramente ed erano gli operai a fame le spese. Inoltre, anche la riforma proposta da Gorbaciov aveva, dal punto di vista degli operai, diversi aspetti negativi: ai lavoratori si diceva che se volevano una vita migliore dovevano rinunciare a diritti fondamentali, il più importante dei quali era la sicurezza del posto di lavoro. Sotto la pressione del mercato, le aziende sarebbero state costrette a eliminare forza lavoro per allontanare il pericolo del fallimento. È vero che le aziende sovietiche hanno un eccesso di manodopera e che una ristrutturazione economica implica una redistribuzione settoriale della forza lavoro ma, in assenza di sindacati democratici e di una reale autogestione, i lavoratori non avrebbero avuto nessuna protezione contro gli abusi della direzione. Più generalmente, la fine della sicurezza del posto di lavoro avrebbe mutato radicalmente i rapporti di forza in fabbrica; la direzione avrebbe avuto ulteriori mezzi per imporre la sua volontà. Anche se non vi fosse stato un immediato pericolo di esuberi generalizzati, il ricatto del licenziamento sarebbe stato uno strumento efficace nelle mani dei direttori dal momento che la maggior parte dei nuovi posti sarebbero stati disponibili in regioni e settori poco attraenti (in particolare nel settore dei servizi).

Inoltre, molti vantaggi sociali, per esempio il posto occupato nelle liste d’attesa per gli appartamenti, dipendevano dall’anzianità in azienda.

Malgrado le smentite ufficiali, molti economisti non esitavano a spiegare che sarebbe stato utile disporre di un “piccolo esercito di riserva” al fine di imporre la disciplina. Se questo esercito doveva svolgere il suo ruolo la vita di coloro che ne avrebbero fatto parte non sarebbe certo stata agevole. La lentezza con cui il regime di Gorbaciov ha fatto passi nella direzione di organizzare la distribuzione del lavoro e un sistema di formazione mostravano con chiarezza che questi problemi, così importanti per i lavoratori, non venivano considerati prioritari.

Allo stesso modo, la riforma sopprimeva il salario garantito nei fatti facendolo dipendere dalla redditività delle aziende mentre il “salario sociale” (abitazioni gratuite o sovvenzionate, sicurezza sociale, educazione eccetera, o i prodotti di base a prezzi sovvenzionati), che costituivano una parte importante del salario operaio, sarebbero stati tagliati per aumentare il valore degli incentivi nel salario individuale.

La crescita delle disuguaglianze diventava la politica ufficiale mente il “livellamento” salariale (che non aveva mai toccato la burocrazia) veniva denunciato come il principale ostacolo all’efficienza. I salari, inoltre, sarebbero dipesi dai redditi dell’azienda sui quali i lavoratori non avevano alcun reale controllo.

Non era la riforma in sé a provocare il malcontento dei lavoratori, disgustati dall’antico regime almeno quanto gli intellettuali; preoccupava la natura specifica della riforma proposta che richiedeva di rinunciare a diritti sociali significativi (anche se goduti in misura modesta) in cambio della semplice promessa di un livello di vita più elevato nel futuro. I lavoratori ben conoscevano il valore di tali promesse.

La perestrojka o la fase della rivoluzione dall’alto

Gorbaciov sembrava comprenderlo: I’ originalità della perestrojka, rispetto a precedenti tentativi di realizzare una riforma di mercato in una società burocratizzata, stava nel collegare tacitamente la riforma economica con una riforma politica. Le riforme di mercato, in altri paesi, erano in larga misura state concepite come strumento per fronteggiare dei pericoli contro la dittatura burocratica. Gorbaciov dichiarava che la “democratizzazione”, sia al livello dello Stato che delle aziende, era parte integrante della riforma economica; per lo meno all’inizio, era una proposta di controllo popolare sul processo riformatore teso a ottenere, alla riforma economica, l’appoggio della popolazione, resa più diffidente dal fatto che la situazione economica cominciava a deteriorarsi. L’autogestione intendeva far accettare ai lavoratori la radicale trasformazione dei rapporti di forza in fabbrica. Era una precondizione perché i lavoratori assumessero la loro responsabilità per il successo delle aziende sul mercato, che sarebbe diventata la componente principale dei loro redditi.

La “democratizzazione” voleva inoltre mobilitare l’ostilità popolare contro la burocrazia per neutralizzare la sua resistenza: una pressione aperta, legale, dal basso doveva far da contrappeso al conservatorismo e all’inerzia della burocrazia. In questo Gorbaciov seguiva le tracce di Krusciov, ma con più audacia, nel tentativo di sbarazzarsi della stretta conservatrice della sua stessa base burocratica. Egli aveva inoltre compreso che la critica e l’aperto dibattito erano elementi essenziali per un efficace orientamento politico. La “democratizzazione” non doveva andare oltre una parziale liberalizzazione politica e l’instaurazione di un ben delimitato regime parlamentare che avrebbe lasciato in ultima analisi le leve del potere nelle mani di una élite burocratica, diretta da Gorbaciov. Una vera democrazia avrebbe comportato un conflitto diretto con la funzione che la burocrazia assegnava alla “rivoluzione dall’alto” destinata a evitare una rivoluzione democratica popolare. Ecco qui la contraddizione centrale della perestrojka.

Il limite delle riforme politiche si è rivelato in particolare nel campo della riforma economica le cui fasi sono state tutte decise “dall’alto”, a porte chiuse, e solo successivamente sottoposte a una “consultazione popolare” che, al massimo, poteva modificare qualche dettaglio. Per esempio, Gorbaciov ha spiegato, in un meeting nella regione degli Urali, uno dei centri dell’industria pesante e militare, che egli aveva ascoltato il loro grido d’allarme e che era venuto per verificare con i lavoratori la rotta della barca dello Stato prima delle grandi scelte che avrebbe dovuto fare. Ancora una volta si è impegnato a consultare la classe operaia sui principali punti della riforma, ma nel contempo ha chiaramente affermato che non sarebbe tornato indietro sulla concezione di fondo: Riflettiamo sul problema di sapere come, quando e che cosa fare, sulle priorità, su dove cominciare (…) ma per quanto riguarda le scelte strategiche, la direzione della nostra politica, nessuno ha ancora proposto niente di serio, di fondamentale. Ha solo dimenticato di dire che egli era il solo arbitro di ciò che era “serio e fondamentale” e che la sua concezione strategica, “la sola seria”, era più volte radicalmente cambiata da quando aveva affermato che non ci sarebbero state riforme di mercato.

Persino la riforma dell’autogestione nelle fabbriche è stata paracadutata dall’alto, senza alcuna vera consultazione degli operai così come nulla di concreto è stato fatto per aiutarli a liberarsi dalle importanti leve di potere che le direzioni tuttora detenevano. Nulla è stato fatto per eliminare la pratica assai diffusa del lavoro a cottimo, un sistema di retribuzione molto reazionario e che divide i lavoratori, come non si sono fatti tentativi per offrire una efficace protezione legale ai responsabili sindacali eletti che hanno continuato a essere vulnerabili dalle pressioni dei direttori. Di conseguenza, I’ autogestione, salvo rare eccezioni, è restata lettera morta. Inoltre, poiché le strutture economiche di livello superiore alle fabbriche non sono per nulla mutate, l’intera operazione è apparsa ai lavoratori come un trucco teso a far loro assumere la responsabilità di un declino economico sul quale non avevano alcun controllo.

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