Ernest Mandel, la Seconda guerra mondiale al contropelo
Quelli che vogliono parlare di fascismo o di nazismo non possono tacere del capitalismo. Abbiamo letto Il significato della Seconda guerra mondiale di Ernest Mandel appena pubblicato in italiano [Diego Giachetti]
Il Primo conflitto mondiale, lungi dall’essere la guerra che avrebbe posto fine a tutte le guerre, non conquistò affatto un mondo di pace. I trattati che i vincitori imposero ai vinti, la crisi sociale e politica che lasciò in eredità sia nei paesi vinti che vincitori definirono uno scenario instabile in tutta Europa. Il breve ventennio che separò la Prima dalla Seconda guerra mondiale non fu affatto pacifico e, anche per impulso della crisi economica e finanziaria del capitalismo del 1929, fomentò le ragioni dell’esplosione di un nuovo conflitto mondiale. Da questa premessa muove l’analisi di Ernest Mandel nel libro, pubblicato in lingua inglese nel 1986, e ora tradotto e stampato dalla casa editrice Punto Critico di Roma nel 2021, intitolato Il significato della Seconda guerra mondiale, con una interessante introduzione di Pietro Acquilino e l’aggiunta in appendice di uno scritto dell’autore sul genocidio nazista degli ebrei. Contro le spiegazioni semplicistiche, Ernest Mandel, intellettuale marxista poliedrico, stimato economista nonché militante e dirigente della Quarta Internazionale, richiama tutti gli elementi che concorsero a definire quel conflitto e l’influenza che esercitarono sul corso della guerra stessa.
Una guerra meccanizzata, pianificata e totale
Nella prima parte del libro l’autore si sofferma sulla valutazione delle forze sociali, economiche, militari (strategie, logistica, scienza e pianificazione) e ideologiche dispiegate dai paesi coinvolti nella guerra. Descrive il connubio che si venne a creare fra élite militari, finanziarie, industriali e politiche della classe dominante in funzione di una guerra caratterizzata dalla produzione di massa di armi meccanizzate, costruite in serie dalla catena di montaggio, unito all’uso spregiudicato della comunicazione-propaganda, in primis l’uso della radio. Considerando l’insieme di queste forze, le potenze dell’Asse non avevano nessuna chance di battere l’alleanza angloamericana e sovietica per quanto concerneva la produzione e riproduzione di tutti i mezzi necessari allo scontro armato. Godettero però di un vantaggio immediato nei primi anni di guerra, che andò esaurendosi nel corso del protrarsi del conflitto.
Lo sforzo bellico fu totale e fu il detonatore della terza rivoluzione tecnologica con la scoperta e applicazione del calcolatore elettronico (antesignano del computer), dell’energia nucleare e dell’automazione. Non fu colpa della scienza “impazzita” a spingere all’uso di armi sempre più sofisticate, in ultimo quella atomica, ma del militarismo imperialistico, il cui potere di classe sulle macchine e sulle armi era in funzione del potere che esercitava sulla maggioranza della popolazione. La bomba atomica fu una delle più terribili eredità della guerra, simbolo, scrive Mandel, della predisposizione della borghesia a utilizzare la terrificante soluzione se e quando sente minacciati i propri interessi economici e politici globali.
Dotata di queste conquiste e scoperte scientifiche e tecniche, della forza produttiva del capitalismo, la guerra assunse aspetti disumani, di vera e propria regressione di civiltà in un contesto nel quale già era dilagata la crisi dell’umanesimo durante e dopo la Prima guerra mondiale, i cui precedenti nel colonialismo avevano fagocitato la nascita di dottrine razziali in parte dei paesi colonizzatori. A proposito, scrive l’autore, il genocidio degli ebrei, perseguito con “terrificante” determinazione dai nazisti, non sarebbe stato possibile senza l’insieme dei mezzi industriali, tecnici, logistici che permisero uno sterminio pianificato su larga scala. Esso fu uno dei peggiori crimini contro l’umanità, permesso dall’industria moderna che combina la razionalizzazione efficiente con la perdita di controllo della ragione umana, per cui la conoscenza razionale è messa al servizio di una massima irrazionalità omicida.

Tanti conflitti in una guerra
Il carattere generale di quella guerra si coglie nella combinazione di cinque diversi conflitti. Fu una guerra tra imperialismi per l’egemonia mondiale vinta dagli Stati Uniti. Fu una guerra di difesa dell’Unione Sovietica contro il tentativo dell’imperialismo germanico di colonizzare il paese e distruggere le conquiste strutturali della rivoluzione del 1917. Fu una guerra del popolo cinese contro l’invasione dell’imperialismo nipponico che si trasformò in una rivoluzione socialista. Fu una guerra dei popoli coloniali dell’Asia e dell’Africa contro le diverse potenze europee per la liberazione nazionale e l’indipendenza. Fu una guerra di liberazione nazionale combattuta dalle popolazioni sottoposta all’occupazione tedesca e italiana in Europa che si trasformò in rivoluzione socialista in Jugoslavia e Albania e in una guerra civile e di classe nei paesi nei quali si costituirono governi collaborazionisti coi tedeschi.
Il primo di questi elementi, oggi spesso e volutamente dimenticato dall’elenco delle cause e concause che provocarono la guerra, era dato dalla concorrenza fra paesi imperialisti di vecchia e nuova formazione. La guerra iniziò come scontro tra potenze imperialiste, quelle che difendevano posizioni acquisite e quelle che volevano assicurarsene di nuove strappandole a chi le aveva. In un mondo caratterizzato dal dominio o dall’influenza dei vecchi imperialismi europei, britannico e francese, e dall’emergente nuovo imperialismo statunitense, la possibilità per gli ultimi arrivati al ruolo di potenza economica e militare, come la risorta Germania hitleriana, l’Italia fascista e l’Impero giapponese, di estendere le loro zone d’influenza mercantili e sociopolitiche, prevedeva anche l’opportunità di una nuova guerra. Quindi una classica guerra tra potenze imperialiste tra due blocchi rivali: Inghilterra, Francia e Stati Uniti da una parte e Germania, Giappone e Italia dall’altra unite, a guerra già iniziata, nel Patto Tripartito (detto anche Asse Roma-Berlino-Tokyo), sottoscritto a Berlino il 27 settembre 1940, nel quale si riconoscevano le rispettive zone d’influenza dei tre paesi sottoscrittori: l’Europa per la Germania, il bacino del Mediterraneo per l’Italia, l’Estremo Oriente per il Giappone.
La guerra fu scatenata in Europa per responsabilità tedesca nel settembre 1939 con l’invasione della Polonia, mentre in Asia, aspetto spesso trascurato, ebbe inizio con l’occupazione giapponese della Cina nel 1937 e, ancor prima, con la conquista della Manciuria nel 1931. Limitata inizialmente all’Europa e nelle colonie italiane in Africa, con l’intervento giapponese e americano il conflitto si estese sull’arena mondiale. Al di là della successiva retorica che ha voluto rappresentare l’intervento statunitense come generoso contributo alla lotta per la democrazia contro i regimi totalitari, va detto innanzi tutto che esso fu provocato dall’aggressione subita da parte dell’imperialismo giapponese nel dicembre del 1941. Già nella Prima guerra mondiale, gli Stati Uniti si presentarono al mondo come un paese che interveniva per estendere la democrazia e la libertà, nonostante l’intervento tardivo, quando ormai la guerra era in corso da tre anni durante i quali avevano capitalizzato e valorizzato il bisogno di denaro, materie prime e armi dei belligeranti europei. Solo quando, col cedimento dello stato zarista russo a cavallo tra il 1916-17 si paventò la possibilità di una vittoria della Germania e dell’Austria-Ungheria, gli Stati Uniti scesero in campo per difendere i loro interessi in Europa. Nel 1939, lo scoppio della guerra in Europa aprì agli Stati Uniti opportunità interessanti per l’industria impantanata da quasi un decennio in una profonda crisi economica. Gli aiuti americani all’Inghilterra furono subordinati alla firma di un contratto che prevedeva per gli inglesi lo smantellamento, al termine della guerra, del sistema protezionista di tariffe che non proibiva ma limitava seriamente le esportazioni americane verso la Gran Bretagna e le sue colonie.
Una volta scatenata la guerra era logico che le parti in causa attribuissero una veste ideologica e politica al conflitto, una lotta tra opposte concezioni statuali e politiche, tra “civiltà” totalitarie o liberal-democratiche. Ma ciò che aveva disturbato i contendenti, costringendoli allo scontro, non fu tanto la motivazione ideologica, quanto il contrasto sorto nella competizione tra stati e blocchi di stati imperialisti. Le classi dominanti britanniche e americane non entrarono in guerra per sconfiggere l’ideologia fascista e nazista ma per spezzare la resistenza e l’aggressività delle borghesie dei paesi dell’Asse che si opponevano all’estensione e conservazione dei rispettivi interessi particolari.
Guerra mondiale
L’estensione del conflitto e le iniziali travolgenti conquiste delle forze dell’Asse svilupparono nuove ragioni di guerre. Nell’estremo oriente, l’incalzare dell’avanzata dell’imperialismo giapponese, suscitò una guerra di difesa condotta dal popolo cinese contro l’invasore che assunse i toni di guerra di liberazione nazionale. La decisione giapponese di entrare in guerra nel dicembre 1941 avvenne sotto l’incalzare dell’evoluzione del conflitto in Europa. La sconfitta repentina della Francia, le difficoltà in cui versava l’Impero britannico, l’Europa pressoché occupata dai tedeschi, i successi travolgenti riportati sul fronte orientale contro l’Unione Sovietica, l’occupazione dei Balcani e l’esito positivo delle operazioni militari in Africa delle truppe italo-tedesche, offrivano all’Impero del Sol Levante un’opportunità politica e militare da cogliere al volo. Era possibile mettere le mani, senza temere una reazione, sulle colonie francesi e inglesi in Asia, l’unico ostacolo a tale progetto espansionistico era dato dalla presenza della flotta statunitense a presidio della zona, che infatti fu attaccata a Pearl Harbor.
Quando il 22 giugno del 1941 la Germania scatenò l’Operazione Barbarossa, la Seconda guerra mondiale che fino allora si era svolta nel quadro di rivalità intermperialiste, assunse un nuovo significato: si apriva uno scontro tra l’armata dell’imperialismo tedesco, coadiuvata dal contributo di altri paesi alleati, e uno Stato le cui caratteristiche strutturali non erano più propriamente capitalistiche e quindi privo di motivazioni imperialistiche. La guerra interimperialista già in corso si combinava con quella difensiva cui era costretta l’Unione Sovietica per la sua stessa sopravvivenza contro la proclamata volontà di colonizzazione da parte della Germania nazista.
Di fronte all’attacco tedesco all’Unione Sovietica, le classi dirigenti americane e inglesi si augurarono che la guerra sul fronte orientale durasse a lungo, così da logorare entrambi i contendenti, ciò soprattutto per volontà inglese. A differenza di Roosevelt, disposto ad aprire al più presto un secondo fronte in Europa per alleggerire il peso della guerra che ricadeva tutto sull’Armata Rossa, Churchill si opponeva. In merito, diversi analisti hanno sostenuto che già nell’estate del 1942 era possibile tentare di aprire un secondo fronte sulle coste francesi o da qualche altra parte delle coste occidentali. A favore di quest’ipotesi è stato ricordato che in quell’anno i tedeschi disponevano ad occidente di sole 59 divisioni contro le 260 schierate sul fronte russo, che non erano ancora trincerati bene come lo saranno nel 1944, poiché l’ordine di costruire il Vallo Atlantico fu dato da Hitler nell’agosto del 1942.
Le cose cambiarono dopo la battaglia di Stalingrado, la riconquista dei territori russi e l’affacciarsi dell’Armata Rossa ai confini dei paesi dell’Europa Orientale non rendeva particolarmente felici gli angloamericani in quanto consideravano perlomeno incresciosa la prospettiva di dove spartire coi sovietici il ruolo di guardiani dell’Europa nel dopoguerra. Quando fu chiaro che buona parte dei paesi orientali del vecchio continente sarebbero stati invasi dai sovietici, gli angloamericani si convinsero della necessità di aprire il secondo fronte per arrivare il più presto possibile, e possibilmente prima dei “rossi”, nel cuore della Germania, visto anche il fallimento della cosiddetta via mediterranea al Terzo Reich intrapresa con lo sbarco in Sicilia del giugno 1943, che arrancava con fatica nel risalire la penisola italiana.

Guerra di Resistenza
Nei paesi europei occupati dall’imperialismo nazista coadiuvato in alcuni casi dall’esercito italiano si manifestò il fenomeno della Resistenza che trovò consenso tra le popolazioni a causa delle disumane condizioni esistenti nei paesi occupati. La Resistenza assunse toni e prospettive non univoche perché si sviluppò in un intreccio di variabili, occupazione straniera, collaborazionismo di forze autoctone con il regime nazista e fascista, dettate dal modo stesso in cui tedeschi e italiani procedettero nell’amministrazione dei territori occupati. Ciò concorre a spiegare le motivazioni diverse, anche se non necessariamente contrapposte, che conteneva la Resistenza europea.
Il collaborazionismo fu, come la Resistenza, un fenomeno europeo, trasversale ai singoli paesi nelle cui storie specifiche pur affondava le radici. Le Resistenze che si svilupparono in Francia, Olanda, Norvegia, Danimarca, Belgio, Jugoslavia, Grecia, Polonia e dietro le linee tedesche in Unione Sovietica, ebbero caratteristiche ideologiche e politiche dipendenti dal tipo di avversario o di avversari che l’occupazione tedesca e italiana dei territori aveva imposto. Tra queste Resistenze, quella italiana si dispiegò compiutamente dopo gli eventi del 1943: scioperi nelle fabbriche del Nord, crollo del regime fascista, armistizio, invasione tedesca e costituzione della Repubblica Sociale Italiana.
La Resistenza in Italia o le Resistenze in Europa sfuggono quindi ad una definizione univoca, contengono al loro interno motivazioni, soggetti e attori agenti, mossi da intenti non tutti eguali o coincidenti. Il tipo di dominio cui fu sottoposta l’Europa sotto il tallone tedesco e italiano generava forme di ribellione che univano lotta di liberazione dall’occupante straniero, guerra civile là dove regimi collaborazionisti autoctoni affiancavano l’opera dell’occupante e lotta di classe prodotta dalle classi subalterne contro i regimi collaborazionisti, gli occupanti e il padronato. La Resistenza tedesca al nazismo, soprattutto nel corso della guerra, non ebbe la rilevanza e la dimensione di partecipazione a una lotta, che era anche armata, riscontrabile negli altri paesi. Ciò è imputabile al fatto che i nazisti, giunti al potere nel 1933, avevano spietatamente represso ogni focolaio di resistenza eliminando decine di migliaia di oppositori politici fisicamente o internandoli nei campi di concentramento. Strategia che proseguirono nel corso della guerra contro i militari sospettati a torto o ragione di complottare contro il regime nazista. Quando ad esempio fallì l’attentato a Hitler del 20 luglio 1944, la reazione dei nazisti fu larga, violenta e immediata, eliminarono più di settemila persone.
Fine della guerra e narrazione popular dei vincitori
Gli Stati Uniti emersero dal conflitto mondiale come unici e veri vincitori. Erano la più grande potenza del mondo e si aspettavano che il XX secolo diventasse il “secolo americano”. I suoi nemici, Germania, Italia e Giappone, erano annientati, i suoi alleati economicamente abbattuti. La Francia era solo l’ombra dell’antica potenza, la Gran Bretagna era esausta, l’URSS aveva subito pesantissime perdite. Dai paesi liberati l’America si aspettava cooperazione, rispetto del libero commercio e porte aperte agli investimenti dei suoi capitali. Erano determinati a inondare il mondo non solo dei prodotti made in USA, ma simultaneamente della loro visione istituzionale del mondo fondata sulla democrazia liberale, la libera impresa e il libero commercio. Così sostanzialmente fecero in ogni paese liberato, imponendo il sistema sociopolitico ed economico dello Stato liberatore. Erano i liberatori a decidere come punire o perdonare i fascisti, in quali forme la democrazia veniva ripristinata, quale spazio dovevano avere i movimenti della resistenza antifascista, quali riforme politiche, sociali ed economiche era possibile introdurre. Tale condotta diede a Stalin un’implicita carta bianca per procedere in modo analogo nei paesi liberati dall’Armata Rossa.
Terminata la guerra la storiografia popular statunitense e non solo, fece propria la narrazione della guerra giusta dei paesi democratici contro quelli totalitari fascisti e nazisti, mentre contemporaneamente si apprestava a una nuova guerra, quella poi chiamata fredda, contro il socialismo reale che, intanto, si era espanso in varie zone del mondo. I nazisti furono proposti e interpretati come dei sadici, una banda di gangster, criminali e avventurieri assetati di potere. La loro ascesa al potere divenne una tragica e misteriosa fatalità della storia e si tralasciarono volutamente studi, ricerche, riflessioni sulla dinamica sociale ed economica che aveva favorito l’avvento dei fascismi in Europa. Un silenzio storico-politico calò sugli intrecci tra il nazismo e il fascismo con gli oligarchi della finanza, la borghesia industriale e terriera, i vertici dell’esercito e delle istituzioni statali. Un velo scese a nascondere quella connessione così evidente che faceva dire a Max Horkheimer: quelli che vogliono parlare di fascismo o di nazismo non possono tacere del capitalismo.