Debito buono e debito cattivo: il nuovo mostro capitalista in Europa!

Dal Recovery Fund alla NADEF: lo spietato e infame contrattacco della borghesia

di MP

C’era una volta l’austerità in Europa? Di fronte alla crisi pandemica, la borghesia europea si prepara in modo tempestivo e sbalorditivo a una imponente svolta espansiva sul piano economico e finanziario. Una delle straordinarie capacità della borghesia è stata sempre quella di concepire e far apparire tutto e il contrario di tutto, con girotondi e capovolte improvvise, pur di perseguire impietosamente la propria causa manifesta: il profitto.

Improvvisamente, il ruolo dello stato, da opprimente, inutile e dannoso, si è trasformato in strumento fondamentale per una svolta epocale sul piano della crescita economica e della sostenibilità ambientale; allo stesso modo, il debito pubblico, tanto vituperato in passato, è divenuto la leva principale per la ripresa e la resilienza economica dell’immediato futuro. Statalisti di destra e statalisti di sinistra restano improvvisamente attoniti di fronte a questa presunta giravolta borghese. I sovranisti si accorgono che la borghesia si converte, eccome se si converte, all’ideologia dello stato quando si tratta di salvaguardare i propri interessi; i keynesiani vengono costretti a rimembrare, come alla fine degli anni trenta del secolo scorso di fronte alla guerra, che lo statalismo non è affatto la via dell’unico e possibile socialismo democratico, come tanto avevano pontificato, ma piuttosto l’arsenale peggiore di un nuovo scontro di classe, dominato da una borghesia priva di scrupoli e agguerrita come non mai. Si scopre in definitiva che l’invocato stato è sempre e comunque lo stato borghese, stato minimo o stato massimo a seconda delle circostanze.

Ancora una volta l’illustrazione più subdola, ma anche più efficace, del nuovo mantra borghese l’ha data Mario Draghi il 18 agosto scorso, il giorno dell’apertura del meeting di Comunione e liberazione, distinguendo tra un debito buono, quello utilizzato a fini produttivi, e un debito cattivo, quello utilizzato a fini improduttivi. Sembrerebbe l’uovo di Colombo; eppure letteralmente si capisce a quale debito l’ex presidente della BCE si riferisce, cioè principalmente al debito pubblico, prestato dalla borghesia e dai mercati finanziari: “Questo debito, sottoscritto da paesi, istituzioni, mercati e risparmiatori, sarà sostenibile, continuerà cioè a essere sottoscritto in futuro, se utilizzato a fini produttivi… se è cioè debito buono. La sua sostenibilità verrà meno se invece verrà utilizzato per fini improduttivi, se sarà considerato debito cattivo”. Del resto ogni debito da una parte è anche un credito dall’altra parte, proprio come ogni salita è una discesa da un altro punto di vista; ogni credito è, a sua volta, letteralmente una manifestazione di fiducia. In definitiva, il debito pubblico buono è sempre e soltanto quello che la borghesia e i mercati finanziari percepiscono come buono. Non potrebbe essere altrimenti. “I bassi tassi d’interesse non sono di per sé una garanzia di sostenibilità: la percezione della qualità del debito contratto è altrettanto importante. Quanto più questa percezione si deteriora tanto più incerto diviene il quadro di riferimento con effetti sull’occupazione, l’investimento e i consumi”. E qui già si assapora bene una sorta di nuovo ricatto borghese.

Come noto, Mister Draghi è il massimo esperto in quanto a ricatti. Fu lui a inviare, come governatore della Banca d’Italia e assieme all’ex presidente francese Trichet della BCE, la lettera al Corriere della Sera il 5 agosto 2011, per costringere il governo Berlusconi alla riforma delle pensioni e alle misure di austerità in cambio del programma di acquisto di titoli pubblici sovrani, per scongiurare la crisi. Fu ancora lui, nel celebre discorso del whatever it takes, a proporre il nuovo programma di acquisto dei titoli pubblici da parte della BCE (OMT) in cambio della sottoscrizione di programmi di aggiustamento macroeconomico basati esclusivamente sulle riforme strutturali in tema di austerità, riduzione della spesa pubblica e privatizzazione di beni e servizi pubblici. Fu sempre lui a costringere la Grecia al dietrofront sul referendum contro le politiche di austerità previste nel Memorandum, attraverso l’interruzione della flebo della liquidità di emergenza, in una sorta di colpo di stato fatto con i bancomat anziché con i carri armati.

Ancora una volta, Draghi ha evidenziato come il nuovo paradigma europeo, definito nel programma del Next Generation EU (NGEU), si configuri come una sorta di ricatto micidiale della borghesia. Nel negare ostinatamente la pur indispensabile cancellazione dei debiti pubblici, contratti a causa del Covid-19, da parte della BCE, Madame Lagardegli ha fatto eco, paragonando il debito pubblico al colesterolo: “Per parafrasare quello che altri hanno detto, ci sono debiti pubblici buoni e debiti pubblici cattivi, come succede con il colesterolo. Quelli buoni sono quelli che poi vengono usati per investire, sulla transizione digitale, sulla sostenibilità ambientale, sul miglioramento della produttività: sono buoni debiti. Quindi penso che le autorità di bilancio devono essere molto attente all’impiego che viene fatto del surplus di debito che viene contratto in questa crisi e che poi peserà sui conti futuri“.

Il debito pubblico buono è duplice: da un lato deve alimentare i profitti della borghesia, la componente Investimenti del programma NGEU; dall’altro lato deve essere subordinato alle riforme strutturali per migliorare le condizioni di profittabilità delle imprese, la componente Riforme del programma. In altre parole, il debito pubblico che serve al profitto è buono; il debito pubblico che ostacola il profitto è cattivo. Questa è la logica chiara e semplice per comprendere come l’Unione europea si accingerà a finanziare i programmi nazionali dei singoli stati membri.

L’Unione europea è stata costituita sulla base dell’ideologia ordoliberale della disciplina di bilancio, della stabilità monetaria e della tutela della concorrenza. Dal Trattato di Maastricht in poi, le politiche liberiste dell’austerità, riduzioni massicce della spesa pubblica e privatizzazioni, sono state dominanti in tutti gli stati membri. Tuttavia, la crisi pandemica, il Grande Lockdown, è riuscita laddove persino la precedente crisi economica e finanziaria, la Grande Recessione, aveva fallito. La borghesia si è fatta paladina di un nuovo intervento pubblico, economico e finanziario, per sostenere la ripresa economica e della profittabilità, per mezzo di aiuti di stato, ricapitalizzazioni pubbliche e riduzione massiva delle tasse sulle imprese. Di necessità virtù, la conversione borghese allo statalismo è servita, ma non è affatto una bella notizia per la classe lavoratrice.

Di qui la necessità del debito pubblico, dapprima per sanare le perdite nei bilanci delle imprese e delle banche e, successivamente, per stimolare e agevolare nuovi investimenti privati. Dal principio della disciplina di mercato e dalla teoria dell’azzardo morale si è facilmente scivolati verso il leit motiv dell’interesse nazionale e del vecchio adagio della socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Finché il ruolo della spesa pubblica veniva rivendicato dalla classe lavoratrice per il welfare e i salari era costantemente vituperato e minacciato dall’austerità liberista; ora che il debito pubblico serve anche e soprattutto alla borghesia diviene il fulcro della nuova politica economica liberale. Dall’austerità liberista all’espansione statalista cambia gattopardescamente tutto per non cambiare niente: inutile sottolineare, infatti, che lo sfruttamento capitalista e il dominio borghese non sono mai messi in discussione.

Così viene fuori il Next Generation EU (NGEU), il fondo europeo di 750 miliardi di euro in risposta alla crisi del Covid-19, approvato dal Consiglio lo scorso 21 luglio. In particolare, il NGEU si compone di sette programmi principali: il più importante e cospicuo è il Recovery and Resilience Facility (RRF) di 672,5 miliardi di euro, di cui 312,5 miliardi come sovvenzioni e 360 miliardi come prestiti agli stati membri, che rappresenta il programma principale di finanziamento per gli investimenti e le riforme strutturali; il React-EU di 47,5 miliardi, finalizzato alle politiche europee di coesione; il Just Transition Fund (JTF) di 10 miliardi, finalizzato al perseguimento della transizione verso la neutralità climatica; lo Sviluppo Rurale di 7,5 miliardi per il sostegno all’agricoltura; Invest-EU di 5,6 miliardi di garanzie nuove per rifinanziare la leva del fu Piano Juncker sugli investimenti; Orizzonte Europa di 5 miliardi per investimenti in ricerca e sviluppo; restano soltanto 1,9 miliardi per il programma RescEU per la sanità e la protezione civile.

L’accordo raggiunto tra gli stati membri viene costantemente presentato come la bandiera della vittoria dal governo Conte. La realtà dei fatti è radicalmente opposta. Rispetto alla precedente proposta della Commissione, per l’Italia è andata molto peggio. La composizione tra sovvenzioni e prestiti è cambiata: nella precedente versione i prestiti erano 250 miliardi di euro, ora sono cresciuti a 360 miliardi di euro, dal 33% a quasi il 50% del totale. Tutti hanno enfatizzato che per l’Italia i finanziamenti dovrebbero passare da 173,8 miliardi a circa 208,8 miliardi. Tuttavia, le sovvenzioni si sono leggermente ridotte da 81,8 miliardi a 81,4 miliardi, mentre i presiti disponibili sono cresciuti da 90,9 miliardi a 127,4 miliardi, dal 5% al 6,8% del PIL. Ma anche questo calcolo è imperfetto, poiché fa riferimento solo ai primi due programmi del NGEU, ossia il RRF e il React-EU. Considerando l’intero pacchetto, la perdita negli aiuti a fondo perduto per l’Italia è di oltre 10 miliardi di euro, passando da circa 94 miliardi nella proposta della Commissione ai soli 84 miliardi finali. In definitiva, per l’Italia è aumentata la disponibilità dei fondi, ma solo nella componente dei prestiti, mentre si è ridotta quella dei finanziamenti c.d. a fondo perduto.

Ciò è il risultato dell’incremento delle risorse al RRF, l’unico in cui le somme si ripartiscono tra sovvenzioni e prestiti, a scapito degli altri programmi, finanziati solo per mezzo di sovvenzioni. Nell’ambito del RRF si capovolge la ripartizione, in quanto i prestiti diventano prevalenti rispetto alle sovvenzioni. I programmi sacrificati sull’altare del compromesso sono proprio quelli relativi alla sanità e alla cooperazione allo sviluppo, tra cui anche le politiche europee per i migranti.

Questi risultati hanno conseguenze nefaste in quanto tutte le risorse del NGEU non sono affatto un pasto gratis, ma sono ottenute attraverso l’emissione di nuovi bond europei da parte della Commissione europea. In altre parole, si tratta in ogni caso di debito, da rimborsare a partire dal 2028, anche se la maturità massima dei titoli sarà soltanto trentennale, con il pagamento degli interessi da effettuarsi con le ulteriori risorse proprie dell’Unione, attraverso tasse e imposte per tutti gli stati membri, ma cercando di rispettare il peso percentuale del PIL di ciascuno stato membro. Al tempo stesso, mentre nel caso delle sovvenzioni si tratta di debito comune europeo e il rimborso avverrà attraverso nuove risorse proprie dell’Unione, nel caso dei prestiti ciò contribuirà ad aumentare a tutti gli effetti il debito pubblico italiano (c.d. back to back lending).

Secondo le prime applicazioni delle formule previste negli allegati della Commissione, la c.d. allocation key, che si applicherà soltanto ai primi due programmi del NGEU, riguardo alle sovvenzioni, per l’Italia si tratterebbe di ricevere il 20,45% delle risorse a fronte di un costo del 12,8%, pari al peso percentuale sul PIL europeo. Il conto del beneficio netto per l’Italia è presto fatto: 20,45% meno 12,8% per 208,8 miliardi uguale 15,97 miliardi di euro. In altri termini, per l’Italia aumenta il debito per la componente che viene prestata direttamente, mentre il beneficio netto è minimo per quanto riguarda le sovvenzioni a fondo perduto. Di fronte allo stress finanziario di un paese come l’Italia, che nel 2020 deve già versare 60 miliardi per il servizio sul debito, e lo dovrà fare sempre di più visto l’incremento vertiginoso del debito pubblico, almeno al 158% sul PIL secondo la NADEF, tutto ciò non sembra affatto rassicurante. Inoltre, i mercati finanziari peseranno comunque in modo complessivo l’esborso totale necessario, con conseguente aumento del costo del debito sovrano; se si aggiunge che la BCE distrarrà risorse per acquistare i Recovery Bond, verrà persino ridotta la copertura sui titoli di stato italiani.

Ma il danno peggiore per l’Italia, nonché la sconfitta più pesante per il governo Conte, è un’altra ancora ed è legata alle condizionalità previste per utilizzare queste risorse. L’assegnazione delle risorse del RRF è subordinata all’approvazione delle riforme strutturali previste dalla Raccomandazioni-Paese del Consiglio, approvate nel luglio del 2019 e del 2020 e ispirate alla logica mainstream e profondamente borghese dell’eliminazione dei c.d. bottlenecks, tutti i colli di bottiglia che intralciano la creazione di un clima business friendly e un campo da gioco attrattivo per gli investimenti privati, sound economic governance come scritto nell’articolo 69 dell’Allegato dell’accordo. Insomma, come tristemente previsto, il ricatto tra prestiti e riforme si manifesta nel modo peggiore possibile: non solo la classe lavoratrice sarà chiamata a rimborsare il prestito alla borghesia, con interessi tanto più salati quanto più alta è la loro rischiosità dal punto di vista dei mercati finanziari, ma addirittura dovrà subire le riforme peggiori per garantire la competitività ai padroni e la ripresa e la resilienza dei profitti. Loro lo chiamano appunto il debito buono e sostenibile. Ma buono e sostenibile per chi? Per la classe borghese sicuramente, ma per la classe lavoratrice oltre al danno anche la beffa!

La sconfitta per il negoziatore Conte è stata davvero senza attenuanti. Infatti, tali condizioni non saranno affatto formali e non rigorose. I piani per l’utilizzo delle risorse devono essere approvati dal Consiglio a maggioranza qualificata su proposta della Commissione, la quale richiede il parere al Comitato economico e finanziario in merito al soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali. Le pietre miliari e gli obiettivi del piano, alias milestones and targets, ricordano minacciosamente da vicino i salvataggi della Grecia ai tempi della troika.

Inoltre, nel compromesso approvato dal Consiglio, si prevede il c.d. emergency brake, il freno di emergenza, articolo 19 dell’Allegato. Infatti, qualora, in via eccezionale, uno o più stati membri ritengano che vi siano gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali possono chiedere che il presidente del Consiglio europeo rinvii la questione al successivo Consiglio europeo. In caso di rinvio della questione al Consiglio europeo, la Commissione non prenderà alcuna decisione relativa al soddisfacente conseguimento dei target intermedi e finali e all’approvazione dei pagamenti fino a quando il prossimo Consiglio europeo non avrà discusso la questione in maniera esaustiva. Tutta la discussione in sede di Consiglio, sino all’alba, è ruotata attorno a quest’ultimo avverbio. L’Olanda voleva utilizzare decisively, con fermezza, mentre l’Italia chiedeva qualcosa di più vago: alla fine è arrivato questo exhaustively, in modo completo. Una cosa è certa: qui si anniderà il potenziale di future e certe tensioni.

In altri termini, i c.d. paesi frugali dapprima volevano addirittura un super freno di emergenza, ossia un vero e proprio diritto di veto basato sull’approvazione all’unanimità; successivamente, hanno optato per una decisione definitiva del Consiglio europeo, di fatto all’unanimità. L’Italia voleva che il tutto fosse comunque gestito dalla Commissione, in ogni caso a maggioranza dal Consiglio dell’Unione.Il presidente Conte ha dato l’ok finale, una volta acquisito il parere e le assicurazioni dal servizio giuridico del Consiglio. Tuttavia, il risultato richiama il meccanismo belga del c.d. sonette d’alarme, il quale, piuttosto che un semplice contentino ai c.d. frugali, rappresenta un vero e proprio congelamento della situazione, come l’esperienza belga dimostra. In definitiva, si tratta del ritorno dalla finestra di un’impostazione confederale alla faccia della tanto decantata vittoria del federalismo europeo. Del resto, il primo ministro olandese ha già fatto trapelare sui nostri quotidiani che, senza l’eliminazione di quota 100 sulle pensioni, di sovvenzioni a fondo perduto per l’Italia non se ne parla proprio. Ma su questo anche la Commissione è piuttosto determinata e, a quanto pare, anche il governo italiano non si mostra particolarmente resistente. Sull’onda del nazionalismo più estremo, persino l’approvazione del compromesso finale da parte del parlamento olandese scricchiola in vista delle prossime elezioni politiche.

Le condizioni del programma riguardano in modo stringente i parametri economici, mentre sono ridicole rispetto alle questioni dello stato di diritto. L’articolo 24 si limita a sottolineare che “gli interessi finanziari dell’Unione sono tutelati in conformità dei principi generali sanciti dai trattati dell’Unione, in particolare i valori di cui all’articolo 2 TUE … Il Consiglio europeo sottolinea l’importanza del rispetto dello Stato di diritto”. Addirittura, i c.d. paesi fascistoidi di Visegrad hanno persino rivendicato la non approvazione del programma senza la rimozione della clausola sullo stato di diritto, soprattutto con riferimento alle norme sulla democrazia, sulla libertà di stampa e i diritti delle donne, degli omosessuali e dei migranti. Su questo punto, ci possiamo giurare, persino il vago proposito dell’Allegato verrà opportunamente cancellato, o quanto meno reso ininfluente. Le priorità per la borghesia liberale, illuminata e perbenista, sono decisamente altre.

Ebbene, per ottenere questi aiuti l’Italia dovrebbe impegnarsi a implementare queste riforme imbevute della peggiore ideologia liberista. Queste condizionalità stavolta sarebbero davvero forti e rigorose, con un monitoraggio e una sorveglianza rafforzata della Commissione, pena l’interruzione del programma di sostegno. Alla fine della fiera, l’Italia si troverebbe a dover scegliere tra indebitarsi con il MES, che formalmente non prevede le condizionalità rigorose ma fa aumentare il debito degli stati membri, persino con maturità a breve scadenza, o chiedere aiuti al RRF, che non fa formalmente, e solo parzialmente, aumentare il debito pubblico interno ma che prevede rigorose condizionalità. Se non è zuppa, è pan bagnato. Il presunto vantaggio sarebbe puramente nella forma, la sostanza è sempre la stessa: debito pubblico in cambio di condizionalità!

Tali condizioni sono espressamente previste nelle Raccomandazioni del Consiglio all’Italia. Nulla di nuovo, insomma. Si tratta, in altre parole, di quella consueta ramanzina che la Commissione europea propina all’Italia nel mese di maggio, che poi il Consiglio approva nel mese di luglio. Per ora, rispetto al vincolo del Patto di stabilità, questa appariva decisamente meno stringente; ma ora, c’è da giurare, non sarà più così. L’Italia presenta due squilibri macroeconomici eccessivi: l’alto debito pubblico e la bassa competitività. Le riforme previste dalla Commissione europea sono indirizzate a rimuovere questi squilibri. Sul piano del debito pubblico, inutile sprecare tempo, si tratta delle consuete politiche di austerità; sebbene, sia stata confermata la sospensione del Patto anche per il 2021, la lettera inviata all’Italia, firmata dai commissari Gentiloni e Dombrovskis, non solo prevede un primo monitoraggio nella primavera del 2021, ma soprattutto richiama l’attenzione immediata sulla sostenibilità del debito pubblico nel medio termine. Di fronte al lascito della crisi pandemica, nubi si addensano sul fronte dell’austerità per i prossimi anni. Sul piano della bassa competitività, si tratta delle riforme in materia fiscale, nel mercato del lavoro, nel sistema del credito e nella governance pubblica, soprattutto giustizia e pubblica amministrazione.

Dal punto di vista della sostenibilità del debito, per l’Italia sul banco degli imputati sono finiti la riforma previdenziale e il reddito di cittadinanza. Per quanto riguarda le pensioni, l’introduzione di quota 100 non ha affatto rappresentato una eliminazione della legge Fornero, come propinato ideologicamente dalla Lega. Soprattutto per via dell’enorme taglio implicito, sino al 15%, previsto dal meccanismo del sistema contributivo, le richieste effettive, non a caso, sono state enormemente inferiori rispetto a quelle previste e potenziali, come avevamo precisamente ammonito su questo stesso sito. Ora non solo non è possibile rinnovare il finanziamento di quota 100, ma occorre gestire la fase di transizione verso il c.d. scalone, da 62 anni a 67 anni di pensionamento a partire dal 2022, moltoprobabilmente attraverso ulteriori e pesanti penalizzazioni per ogni anno di anticipo, oltre a un incremento graduale dell’età anagrafica e contributiva. Anche l’adeguamento automatico all’aspettativa di vita torna come una minaccia molto verosimile.

Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, il fallimento era stato anche qui ampiamente previsto. Impostando una matrice tra beneficiari e non beneficiari del reddito di cittadinanza da un lato, e poveri e non poveri in termini relativi dall’altro lato, si scopre che soltanto il 14% di chi ne avrebbe bisogno prende effettivamente il reddito di cittadinanza, circa 1,3 milioni su 9 milioni. Ciò è il frutto dell’ideologia sovranista, razzista e populista: innanzitutto, sono escluse di fatto larga parte delle famiglie straniere residenti, che tuttavia rappresentano oltre un terzo delle famiglie povere; in secondo luogo sono tagliate le famiglie più numerose, per via del tetto imposto alla scala di equivalenza al fine di ridurre le risorse; in terzo luogo, l’introduzione di parametri ultra stringenti sulle condizioni di reddito e patrimonio ha ridotto notevolmente il potenziale di beneficiari, che pure sono poveri a tutti gli effetti; in quarto luogo, non è stata affatto tenuta in considerazione la differente soglia di povertà tra il nord e il mezzogiorno, col risultato di tener fuori oltre la maggioranza di poveri del settentrione; infine, le restrizioni in materia di accettazione di qualsivoglia domanda di lavoro hanno combinato il disastro finale, attraverso ricatti e controlli burocratici sul lavoro irregolare. Inoltre, oltre il 50% di chi prende il reddito di cittadinanza non ne avrebbe diritto, 1,5 milioni su 2,8 milioni, anche in quanto evasori fiscali. Il tutto condito da una confusione generale tra politiche a sostegno della povertà e politiche di incentivo all’offerta di lavoro. Piuttosto che aumentare le risorse, rivedere i requisiti per debellare l’evasione fiscale, incrementare l’offerta di formazione pubblica e lavori socialmente utili o di pubblica utilità, per un vero e proprio lavoro e salario sociale di cittadinanza, sarà impostata una svolta opposta mirata a condizionare maggiormente l’erogazione del reddito alle politiche liberiste sul mercato del lavoro.

Sul piano fiscale viene auspicato il c.d. tax shift, ovvero lo spostamento dalle imposte dirette e dai contributi sociali, come il cuneo fiscale sul lavoro sopportato dalle imprese, alle imposte indirette, come l’IVA e le accise: dall’imposta progressiva a quella regressiva sul reddito disponibile delle famiglie. Sul piano del mercato del lavoro, si intende rafforzare la contrattazione di secondo livello, depotenziando quella di primo livello, per legare il salario alla produttività del lavoro, attraverso la defiscalizzazione dei premi di risultato e della componente del trattamento economico legata al welfare aziendale e ai rinnovi contrattuali aziendali. Sul piano della pubblica amministrazione, si richiede una riforma strutturale per garantire l’efficienza della spesa, attraverso un cospicuo piano di riduzione della spesa pubblica corrente, soprattutto nelle spese del personale, salvo burocrati, dirigenti e parassiti di ogni razza, considerata ideologicamente, sempre e comunque, come inefficiente e improduttiva. Insomma, un disastro sotto tutti i punti di vista.

Ora i governi degli stati membri devono presentare, nell’ambito del programma RRF, le bozze dei piani nazionali per la ripresa e la resilienza (PNRR) entro il 15 ottobre. Dopo l’interazione con la Commissione, entro il mese di aprile dovranno essere presentati i PNRR definitivi. Nei PNRR dovrà essere rappresentata in modo esaustivo, sia sul piano finanziario sia sul piano tecnico e amministrativo, la duplice componente del programma: la componente degli Investimenti e la componente delle Riforme. Il 70% delle risorse previste potranno essere utilizzate nel triennio iniziale 2021-23, mentre la rimanente parte sarà impiegata sino al 2027. Per ora, l’Italia si è limitata ad approvare le Linee Guida, sulla base delle indicazioni della Commissione. Inoltre, sono stati presentati i progetti che dovranno essere valutati dal Comitato tecnico di valutazione. Nella Nota di aggiornamento del DEF, c.d. NADEF, il governo si è misurato solo a presentare il piano di spesa delle risorse previste, in termini di sovvenzioni e prestiti, nei prossimi sette anni, nonché a prevedere l’impatto in termini di stimolo all’economia. Nulla viene ancora chiarito sul piano della sostanza, soprattutto sul tema rilevante della crescita degli investimenti pubblici, aldilà delle chiacchiere, per ora sterili e prive di contenuti reali, sulla transizione gemella verde e digitale.

Per la precisione, nella NADEF si mette in evidenza una strategia, che il ministro Patuanelli ha definito prioritaria, durante la prima assemblea di insediamento del presidente Bonomi, di stimolo agli investimenti privati. Si tratta dell’accondiscendenza alla lista della spesa della Confindustria. Innanzitutto la proroga e l’irrobustimento della Transizione 4.0, ovvero la montagna di agevolazioni fiscali sugli investimenti in innovazione tecnologica da parte delle imprese; in secondo luogo, si prevede la fiscalità di vantaggio per il sud, ovvero una sorta di zone economiche speciali tax free, dove non si pagano tasse e contributi sociali. Persino, la ministra Catalfo ha presentato una serie di proposte per il mondo del lavoro, ma che in realtà servono a sgravare ulteriormente le imprese. I rinnovi contrattuali, la riduzione dell’orario di lavoro e il salario minimo dovrebbero essere finanziati attraverso la fiscalità generale ovvero fiscalizzando gli oneri sociali, per mezzo delle risorse previste dal RRF, in modo da non pesare sui costi delle imprese. Il famoso debito buono in questo caso viene direttamente utilizzato per evitare che le imprese aumentino i salari con il loro portafogli e i loro profitti. Il vero e autentico Sussidistan di Bonomièuno statalismo assistenziale e sussidiario per la borghesia e il profitto, ma pagato concretamente con i futuri salari della classe lavoratrice!

Eccolo il populismo del movimento cinque stelle: aumentare i salari senza ridurre i profitti, attraverso l’aumento del deficit e scaricando sulla classe lavoratrice i futuri costi del rimborso del debito pubblico. I loro corifei, talvolta presunti rappresentanti della sinistra convertita sulla via di Travaglio e del suo fango quotidiano, seguaci prezzolati del loro partito tagliagole, giustizialista e carceriere, dimenticano tutto questo per esaltare le ricette populiste e spacciarle per conquiste sociali. Sono persino arrivati a scambiare Rousseau con la piattaforma Rousseau, la democrazia diretta e consiliare con la democrazia plebiscitaria, nonché a esaltare la riduzione del numero dei parlamentari e l’introduzione di soglie implicite di sbarramento al 15% o al 20%, anche in presenza di un sistema proporzionale purissimo, come la nuova vittoria contro la casta, piuttosto che una sferzata esiziale a quel che resta della democrazia formale e rappresentativa in Italia. Ci obiettano che non capiamo lo stato d’animo del paese: è vero, il loro qualunquismo reazionario è stato perfetto nel raggiungere ciò che neanche la peggiore destra era riuscita a fare. Chapeau!

Così chiudiamo il nostro ragionamento, rovesciando dialetticamente i concetti di debito pubblico buono e debito pubblico cattivo. Va da sé che per debito pubblico buono s’intende quello sostenibile nel tempo, ma non dal punto di vista della profittabilità, bensì secondo i criteri propri della crescita economica sostenibile sul piano ambientale e sociale. Ecco perché debito pubblico buono è quello necessario agli investimenti pubblici per la riconversione ecosocialista dell’economia, per un’autentica economia need-oriented e non profit-oriented, finalizzata per davvero alla neutralità climatica e alla crescita dell’economia digitale. In questo senso, è doveroso finanziare gli investimenti pubblici e le società pubbliche attraverso l’emissione di nuovo debito, come si conviene a qualsiasi impresa e organizzazione sociale economica, ma non per il profitto ma per il benessere collettivo.

Tale debito pubblico dovrebbe essere finanziato, fintanto che le condizioni economiche lo consentono, attraverso l’espansione monetaria della banca centrale, senza gravare sulla classe lavoratrice. La presidente della BCE Lagarde si è ostinata ancora una volta a difendere la necessità di non cancellare i debiti sovrani degli stati membri, in quanto sarebbe contrario ai trattati. In realtà, era esattamente ciò di cui c’era bisogno, ovvero monetizzare il debito pubblico creato di fronte allo shock pandemico, con la conseguente rimessa in discussione dei trattati e dello statuto. Era doveroso e non è stato fatto. Anche questo verrà messo sul computo degli orrori compiuti dalla Banca centrale europea.

Tuttavia, ciò che attiene alle conquiste sociali non può, generalmente, essere finanziato con debito pubblico. Nella relazione inversa tra salari e profitti, per aumentare i primi occorre ridurre i secondi. Tertium non datur. Altrimenti, il finanziamento in deficit sarebbe piuttosto un modo per evitare furbescamente la riduzione dei profitti; la borghesia se ne approfitterebbe immediatamente non appena le condizioni lo consentirebbero, riprendendosi tutto il dovuto, per mezzo di tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni al fine di ripagare il debito pubblico contratto. Questo sarebbe un debito pubblico cattivo senza alcuna forma di giustificazione sociale, sostenuto dai populisti per mascherare il loro vigliacco servilismo verso la Confindustria. Per il populismo sovranista è facile scagliare la prima pietra contro i migranti e contro la casta dei politici; molto meno è il coraggio nell’affrontare direttamente il padronato e il loro vampirismo sociale.

Per questa ragione, senza la ripresa del conflitto sociale non sarà possibile nessuna conquista economica. La spesa pubblica sociale, il sostegno ai redditi, gli incrementi salariali per riconquistare quote rilevanti di produttività maltolta nel tempo, devono essere piuttosto finanziati attraverso una autentica rivoluzione fiscale, in grado di eliminare: sia il fenomeno dell’erosione fiscale, attraverso il ripristino di tutti i redditi da capitale nell’imposta progressiva sul reddito complessivo; sia il fenomeno dell’evasione fiscale, attraverso il contrasto al lavoro irregolare e alla sottodichiarazione dei redditi d’impresa e da lavoro autonomo; sia il fenomeno dell’elusione fiscale e dell’abuso del diritto, attraverso una imposta sulle società con una base imponibile consolidata e armonizzata a livello europeo, in grado di ostacolare non solo i paradisi fiscali ma anche più semplicemente le forme agguerrite di competizione fiscale e di c.d. race to the bottom. Tuttavia, non basta colpire la disuguaglianza dei redditi; esiste lo scandalo della disuguaglianza delle ricchezze mobiliari e immobiliari che non può che essere affrontato se non attraverso l’introduzione di una imposta sul patrimonio complessivo, in grado di colpire in modo definitivo chi ha accumulato fortune senza pagare alcuna forma adeguata di imposta sui redditi da capitale. Questo scandalo è ora che finisca per sempre, senza se e senza ma!!!

Comunque, è sul terreno degli investimenti pubblici per la riconversione ecosocialista che si gioca una partita fondamentale per il cambiamento del modo di produzione. Nel discorso tenuto all’Europarlamento lo scorso 16 settembre, la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen ha rivisto il target della riduzione delle emissioni di gas serra entro il 2030 dal -40% al -55% rispetto ai livelli del 1990. Il Parlamento europeo ha poi successivamente innalzato l’asticella al -60%, sempre per raggiungere la neutralità climatica, ovvero l’azzeramento delle emissioni nette, nel 2050. Sarebbe uno sforzo finanziario enorme tenendo conto che si calcola di colmare un gap di investimenti verdi stimato in almeno 2.600 miliardi da qui al 2030, altro che almeno il 30% dei 750 miliardi del Next Generation EU.

Come noto il capitolo più impegnativo della lotta al cambiamento climatico sarebbe quello della transizione energetica, che nell’ottica del Green New Deal della Commissione comprende il taglio delle emissioni, il maggior ricorso alle energie rinnovabili e l’aumento dell’efficienza energetica. Ebbene, per contrastare la dipendenza dai combustibili fossili, l’Unione si basa su iniziative fondate sull’estensione e potenziamento del sistema europeo per lo scambio di quote di emissione (ETS) e sulle tasse ambientali, compresa la carbon tax di frontiera per tassare le importazioni dai paesi esteri in cui le norme ambientali sono meno rigide. Ciò nonostante, più o meno, dal 1990 al 2019 le emissioni si sono ridotte del 25%; anche considerando la riduzione del 2020 dovuta al Covid-19, che sarà parzialmente sciupata nel 2021, il target del -60% entro il 2030 richiederebbe una riduzione media annua di oltre il 4%, davvero complicata da raggiungere con gli strumenti sinora utilizzati. In particolare, i cap troppo elevati alle emissioni dei settori e l’elevato numero di quote allocate ha contribuito a garantire un costante surplus di permessi, finendo col tenere bassi i prezzi e facendo venire meno la convenienza a limitare le emissioni.

L’economia borghese mainstream considera l’inquinamento una esternalità negativa, ossia un mercato mancante dove i costi sociali non vengono prezzati. La soluzione dei libri di testo borghesi, imbevuti fino al midollo di ideologia mercatista, è allora quella della costituzione di un nuovo mercato in cui vengono scambiate le emissioni inquinanti, con l’effetto finale di aumentare il prezzo e ridurre la quantità prodotta. Tuttavia, affinché si raggiunga l’obiettivo, ciò si dovrebbe tradurre in una sensibile riduzione dei profitti. Di qui, la pressione esercitata per ostacolare sia la tassazione ambientale o pigouviana, sia l’estensione del sistema di scambio delle quote di emissione. Un fallimento del mercato che segue un altro fallimento del mercato e così all’infinito, nella fatica instancabile di Sisifo di rifiutarsi di guardare alla vera esternalità e al vero mercato mancante del modo di produzione capitalista: l’esternalità della produzione di plusvalore, l’eccesso di valore d’uso sul valore di scambio della forza-lavoro e il mercato mancante dello sfruttamento dell’eccesso di lavoro rispetto a quello pagato.

Fintanto che non viene messa in discussione la logica del profitto, non sarà possibile assicurare il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni entro il 2030. Il modo di produzione capitalista è trainato dalla ricerca spasmodica del profitto, attraverso un modello basato quasi esclusivamente sulla crescita in termini quantitativi. Ciò nonostante, nessuna energia rinnovabile potrà mai sostenere questi tassi di incremento della produzione e dei profitti. Si pensi al settore del trasporto aereo, al settore dei rifiuti, al settore della produzione della carne e così via. Senza un sensibile incremento dei prezzi e una riduzione consistente della produzione, in questi settori non sarà concretamente possibile raggiungere obiettivi compatibili con la neutralità climatica. Non c’è più neanche da sospettare: l’enorme massa di investimenti verdi previsti dal NGEU non serve tanto a ridurre la produzione inquinante, quanto piuttosto a alimentare nuovi spazi di profitti e a innescare una nuova brama di plusvalore da succhiare, probabilmente con dimensioni relative senza precedenti. Per raggiungere la sostenibilità ambientale, occorrerebbe, al contrario, buttare al cesso il modo di produzione capitalistico, la crescita quantitativa irrazionale e miope, la concorrenza sfrenata e anarchica, la proprietà privata capitalistica: in poche parole, bisognerebbe rimuovere il profitto e la quantità per sostituirli con il benessere e la qualità.

A tal proposito, bene ha fatto il Collettivo Controtempi a evidenziare il limite delle rivendicazioni e delle mobilitazioni di venerdì scorso di Fridays For Future. “Fridays For Future non ha una direzione politica. E quando, in qualche modo convulso, riesce a farne emergere una (come nella lettera “ritorno al futuro”) esprime idee moderate, ingenue, indistinguibili da quelle di un qualsiasi partito verde. L’idea è fare del “lobbismo positivo”, fare pressione perché siano i governi a cambiare le cose e non i movimenti a imporle. Ma i governi non vogliono e non possono cambiare le cose perché rappresentano proprio gli interessi di chi ci ha portato in questo disastro. Nessun governo può realizzare i buoni desideri di Fridays For Future: significherebbe meno circolazione di merci, di capitali, freni all’economia, meno guadagni per le aziende. Nessun governo è disposto, per davvero, a questo. Finiamola di illuderci…

E allora come si riparte? Guardando davvero il problema per come è realmente. Capendo che non c’è Green Economy che tenga, che ogni azione ambientalista, ecologista, da parte di aziende e governi è puramente di facciata, è pubblicità. Si riparte costruendo un movimento che rompa con l’esistente. Che dica chiaramente, senza ambiguità, che per invertire la rotta bisogna mutare radicalmente il sistema economico. Smetterla con questo doppio binario, in cui nelle piazze urliamo “non c’è più tempo” e poi, però, concretamente, ci limitiamo a fare pressione, come se ci fosse tutto il tempo del mondo. Il tempo non c’è più, davvero. Il sistema va rovesciato, per davvero.”

La contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di proprietà ha raggiunto un livello cruciale. Hic Rhodus hic salta! Per risolvere questa contraddizione occorre per forza cambiare il modo di produzione capitalista e sostituirlo con un modo di produzione ecosocialista. L’unica alternativa restano le barbarie!