Ancora su Montanelli razzista e reazionario

di Fabrizio Burattini

Nei giorni scorsi (per l’esattezza il 10 giugno), con l’intento di demistificare l’idea secondo cui il razzismo e il “suprematismo” fossero una peculiarità degli Stati uniti, ho ricordato le responsabilità coloniali dell’Italia prefascista, fascista e, in qualche misura, anche postfascista, riportando in particolare l’impegno come volontario in Africa orientale di Indro Montanelli. Ho dunque accolto con approvazione l’appello che nello stesso giorno facevano i “Sentinelli di Milano” per la rimozione della statua eretta a sua memoria in un parco milanese e ho totalmente compreso le ragioni che hanno portato alcuni collettivi studenteschi a scrivere “razzista” e “stupratore” su quella statua.

Ho trovato stucchevoli non tanto le scontate reazioni di esponenti razzisti (Salvini, Santanchè, ecc.) a difesa di un altro razzista, quanto piuttosto le indignate dichiarazioni di alcuni “antirazzisti” che chiedevano di “contestualizzare” il deprecabile operato africano del futuro principe del giornalismo italiano, come se il fatto che si fosse comportato in quel modo (assassinando eritrei e etiopi inermi, vantandosene e stuprando una bimba dodicenne, da lui definita “bestiolina”) in un contesto in cui non era il solo a farlo costituisse un’attenuante.

Peraltro, la sua rappresentazione della giovanissima “moglie” eritrea non era un incidente letterario, ma faceva parte dell’immagine che il governo italiano voleva propagandare della donna africana, esotica ed erotica, non solo come stereotipo maschilista e razzista, ma anche come argomento per indurre i coloni italiani a trasferirsi nei “territori conquistati”. Perlomeno fino a quando l’alleanza con il nazismo indusse il regime ad una svolta di 180° verso un razzismo purista, “ariano”, nemico di ogni meticciato.

Si consiglia la lettura dell’interessante saggio di Chiara Volpato “La violenza contro le donne nelle colonie italiane. Prospettive psicosociali di analisi”, “DEP” n. 11/2009.

Vale la pena allora ricordare che Indro Montanelli, caduto il fascismo e diventato anche lui antifascista, proseguì ad avere un comportamento che continua a fare a pugni con l’immagine agiografica che ne fa l’informazione e la storiografia mainstream.

Per esempio nel periodo immediatamente successivo alle grandi lotte del 1968-69, quando il “nostro” ebbe un ruolo centrale nella sollecitazione alla mobilitazione di quella che poi assunse il nome di “maggioranza silenziosa” per rispondere alla piazza studentesca e operaia. D’altra parte, di quegli anni Montanelli fa una ricostruzione che sintetizza così nella prefazione ad uno dei suoi volumi sulla “Storia d’Italia”: “quei ‘formidabili’ anni furono quelli del sopruso di una minoranza ubriaca di mode e di modelli d’importazione (Marcuse, Mao, Che Guevara) su una maggioranza succuba anche perché priva di una voce che la rappresentasse. Noi fummo questa voce. E non possiamo prescinderne anche se abbiamo fatto di tutto per dimenticarcene. Secondo noi, il bilancio di quei ‘formidabili’ anni è tutto in passivo” (Montanelli, Cervi, Storia d’Italia: L’Italia degli anni di piombo. 1965-1978, Rizzoli).

Il “Corriere della sera”, all’epoca il quotidiano indiscutibilmente re dell’informazione italica, guidato da un giovanissimo Giovanni Spadolini, del quale Montanelli era il principale editorialista, punta subito il dito accusatore sul “ballerino anarchico” Pietro Valpreda, facendo proprie le veline del questore Marcello Guida. La tesi della pista anarchica, che cadde miseramente prima minuziosamente smontata dalla controinchiesta “La strage di Stato” e poi anche dalle indagini ufficiali, non smise però di tormentare la mente di Montanelli, che, perfino undici anni dopo, nell’ottobre del 1980, divenuto nel frattempo direttore del “Giornale” di Berlusconi, riconferma la tesi secondo cui Giuseppe Pinelli, l’anarchico “suicidato” nel dicembre 1969 nella Questura di Milano, da lui definito “informatore della polizia”, poco prima dell’attentato, avrebbe comunicato al commissario Calabresi che “gli anarchici stavano preparando qualcosa di grosso”. Salvo, pochi mesi dopo dover dichiarare pubblicamente di essersi inventato quella tesi.

In quello stesso anno, nel 1980, Montanelli esaltò la “manifestazione dei 40.000”, cioè la resistibile marcia che la Fiat organizzò per far digerire alle direzioni sindacali l’accordo bidone con il quale venne posta la parola fine alla lunga lotta degli operai torinesi contro la ristrutturazione delle fabbriche dell’auto: “Niente chiasso, sceneggiate, slogans, niente insomma che appartenga al repertorio del buffonismo nazionale” scrisse Montanelli di quel corteo, “Nessuno ha rotto le righe per andare a rovesciare auto o a fracassar vetrine. Sappiamo già cosa diranno gli altri, oggi e domani. Diranno che gli operai non c’erano. Infatti. Doveva trattarsi di 40.000 presidenti, consiglieri delegati, ingegneri: insomma, la solita ‘maggioranza silenziosa’, termine che soltanto in Italia ha significato spregiativo. La maggioranza che ristabilisce gli equilibri”.

Ma non basta. Nel 1999, due anni prima di morire novantaduenne, venne chiamato a testimoniare nel processo in contumacia contro Theo Saevecke, capo delle SS a Milano durante la guerra, imputato per il massacro di piazzale Loreto del 10 agosto 1944, quando 15 antifascisti vennero trucidati per rappresaglia. Montanelli, nell’interrogatorio in aula, difese Saevecke dalle accuse, definendolo “un soldato-gentiluomo”, amante della precisione, incapace di condurre quel massacro nella maniera “sciabattona” in cui venne condotta. D’altra parte venne scoperto successivamente uno scambio epistolare tra Montanelli e l’ufficiale nazista, nel quale il giovane Montanelli ringraziava Saevecke per averlo aiutato ad evadere dal carcere di San Vittore proprio pochi giorni dopo l’eccidio di Piazzale Loreto.

Fortunatamente, la testimonianza di Montanelli non fu sufficiente a risparmiare la condanna dell’ergastolo a Theo Saevecke.

Negli ultimi anni della sua vita Indro Montanelli ha cercato di riscattarsi un po’ agli occhi dell’opinione pubblica democratica, in particolare rompendo clamorosamente con Silvio Berlusconi al momento della “discesa in campo” di quest’ultimo, ritenendolo poco utile, anzi controproducente per la difesa degli stessi interessi delle classi dominanti italiane che Montanelli, in tutti i suoi “periodi” (da quello nero degli anni Trenta a quello “rosa” degli anni Novanta) non ha mai smesso di perseguire. Per cui è morto come fosse un campione dell’antiberlusconismo democratico. Uno degli effetti collaterali di quell’antiberlusconismo di maniera che ha travolto l’identità di buona parte della sinistra italiana, ma non tale da farci rimuovere dalla memoria e da poter assolvere le sue prodezze e le sue dichiarazioni di un tempo.