Vakhtang Enukidze: un’altra morte di Stato. Accade al Cpr di Gradisca
Sinistra Anticapitalista – Gorizia
Lo scorso 17 dicembre a Gradisca d’Isonzo la giornata è plumbea, non solo meteorologicamente: dalla sera precedente, i primi reclusi provenienti da altri CPR d’Italia sono rinchiusi nella nuovo Centro Per il Rimpatrio. Nonostante sia un martedì mattina, sotto una pioggerellina intermittente, una trentina di solidali chiamati a manifestare dall’Assemblea NO CPR – No Frontiere FVG osserva il via vai di mezzi delle forze dell’ordine e dell’esercito, che entrano e escono. Il mostro ha riaperto.
La stessa struttura attiva dal 2006 al 2013 prima sotto il nome di CPT e poi di CIE, ha ricominciato ad ingoiare persone e vite.
Il decreto per trasformare l’ex-caserma Polonio in una prigione per migranti era stato firmato dai ministri Bianco, Visco e Turco nel 2000. Sin da subito una vasta rete di associazioni antirazziste si era mobilitata contro questa prospettiva, senza riuscire ad bloccare l’apertura. Una mobilitazione che era proseguita pressoché ininterrottamente per 13 anni, che aveva mostrato all’Italia tutta le immagini shock dei volti dei reclusi tumefatti dalle botte, e le labbra cucite per protesta. Ripetuti interventi della Commissione straordinaria Tutela e Promozione Diritti Umani del Senato guidata da Luigi Manconi avevano imposto modifiche alla struttura, concepita come un carcere di massima sicurezza, con l’onnipresente e alienante utilizzo di gabbie e sbarramenti metallici.
Ma alla fine è stata l’esasperazione e la rabbia di chi si vedeva privato della libertà con un semplice atto amministrativo a rendere inagibile il centro con una serie di rivolte nell’estate del 2013. In una di queste occasioni Majid El Kodra cadeva dal tetto sul quale si era arrampicato e verso il quale le forze dell’ordine avevano ripetutamente lanciato lacrimogeni, per morire dopo sei mesi di coma. Una morte rimasta senza alcun responsabile.
Nei due mesi di vita del “nuovo” CPR purtroppo tutto questo film si è riavvolto e ripetuto con incredibile rapidità. Di diverso vi è però in un clima politico fortemente cambiato che vede quella che era la diffusa solidarietà nei confronti dei migranti imprigionati, espressa da un territorio di confine da sempre multietnico, trasformata in ostilità e razzismo crescente.
La struttura pensata per trattenere 150 reclusi è stata ristrutturata nel corso dell’intero 2019 con il chiaro intento di rafforzare all’estremo le misure di contenimento. Celle da 6 posti, un unico ambiente con bagno alla turca in un angolo, letti e suppellettili imbullonati a pavimento e pareti, materassi e lenzuola ignifughi, divieto di far entrare libri e giornali che potrebbero alimentare incendi. Ogni cella è dotata di uno spazio esterno di pochi metri quadri, diviso da quelli vicini da sbarre e plexiglas. A coprire il cielo una rete per impedire di salire sul tetto, rete nella quale a detta dei reclusi scorre la corrente elettrica.
Poi un sistema di sorveglianza con 200 telecamere, un presidio permanente di esercito, carabinieri, polizia e guardia di finanza.
Ad oggi solo metà del CPR è aperto, i lavori nella seconda ala sono ancora in corso, e l’appalto di gestione da svariati milioni di euro è nella mani della padovana EDECO, cooperativa salita alle cronache per le inchieste che hanno mandato a giudizio i sui vertici per le irregolarità nella gestione degli appalti dei centri gestiti in Veneto.
Sabato 11 gennaio l’Assemblea NO CPR – No Frontiere FVG chiama un primo corteo regionale, durante il quale alcune centinaia di persone si raduna sotto il muro alto 4 metri che nasconde la struttura alla vista degli automobilisti che sfrecciano lungo l’adiacente provinciale.
Inaspettatamente alle urla di solidarietà e agli slogan rispondono delle voci dall’interno, sono i reclusi delle celle più vicine al muro. Inizia un dialogo che da allora non si è mai interrotto e dal quale trapelano i particolari della vita dentro il CPR: il cibo passato sotto le porte delle celle “come ai cani”, le docce dalle quali esce solo acqua bollente costringendo a utilizzare dei secchi per raffreddarla e lavarsi, la somministrazione massiccia e indiscriminata di psicofarmaci richiesti dagli stessi reclusi per sopportare l’alienazione di un simile luogo, i continui casi di autolesionismo, la violenza delle forze dell’ordine che reagiscono picchiando ad ogni minima intemperanza, la difficoltà di contattare i propri legali, la descrizione della farsa dell’udienza di convalida del trattenimento difronte al Giudice di Pace alla presenza di un difensore d’ufficio di solito silente e inerme.
Racconti in qualche modo confermati dalle dichiarazioni di Questura e sindacati di polizia, che parlano in questi due mesi di 3 tentati suicidi, decine di ricoveri per autolesionismo, 20 rimpatriati, 14 liberati e 8 fuggiti.
Nel pomeriggio di sabato 18 gennaio i mezzi d’informazione locale riportano una notizia raggelante: un recluso è morto in seguito ad una rissa con un compagno di cella nel CPR.
Immediatamente decine di antirazzisti si radunano sotto al muro, e quello che esce è una verità totalmente diversa: Vakhtang Enukidze imbianchino georgiano di 38 anni, da alcuni anni in Italia dove svolgeva lavori in nero perché privo di documenti è morto dopo essere stato picchiato da agenti intervenuti per sedare un alterco con un compagno di cella. Era già stato pesantemente picchiato in altre occasioni nei giorni precedenti, medicato nell’infermeria del CPR, aveva subito un processo per direttissima per resistenza, lo stesso giudice dirà poi che all’udienza presentava il volto tumefatto.
Il giorno successivo un nuovo corteo si ferma per ore davanti al CPR, da dentro le testimonianze sono drammatiche, raccontano di agenti in tenuta antisommossa che entrano nelle celle e picchiano chiunque provi a parlare con l’esterno, e contemporaneamente dicono di compagni di reclusione che vogliono testimoniare, che hanno visto il loro compagno trascinato via per i piedi mentre perdeva sangue, che non si può venir ammazzatati come animali a quel modo.
Inizia a circolare un video, che non si riferisce al caso in questione ma mostra carabinieri che con caschi e manganelli picchiano dei reclusi dentro una delle gabbie del CPR.
La sera stessa quella che viene definita un’operazione di “bonifica” sequestra i cellulari ai reclusi. Dopo poche ore il parlamentare Magi si reca in visita a sorpresa nella struttura, viene trattenuto per oltre mezzora all’ingresso, sentirà le forze dell’ordine borbottare che vi è molto sangue da ripulire prima di poter farlo entrare. Riuscirà a parlare con alcuni dei testimoni che forniscono dichiarazioni sostanzialmente coincidenti con gli audio già diffusi online dall’assemblea.
Poche ore dopo, nella stessa notte, tre dei detenuti che avevano visto i fatti, compreso il protagonista della presunta rissa mortale vengono deportati in Egitto, loro paese d’origine, un luogo tristemente alla ribalta per il mancato rispetto dei diritti umani. Nei giorni successivi altri subiranno la stessa sorte, nel giro di pochissimo nessuno di coloro i quali hanno visto e sentito si trova più in Italia.
Il Procuratore del tribunale di Gorizia che indaga per omicidio, afferma alla stampa che le dichiarazioni dei testimoni sono state acquisite prima dell’espulsione, e non replica agli avvocati dell’ASGI che ricordano come i testimoni vadano sentiti in un ambiente protetto (e non dentro al CPR davanti alle forze dell’ordine), alla presenza di avvocati e che a loro andrebbe assegnato il permesso di soggiorno per motivi di giustizia.
Qualche testata nazionale inizia a raccogliere la notizia, si ipotizza apertamente che Vakhtang Enukidze è morto a seguito dell’intervento delle forze dell’ordine. Subito i sindacati di polizia minacciano querele, il Presidente della Regione, il leghista Fedriga afferma “Io sono vicino alle Forze dell’ordine e le ringrazio per il lavoro che fanno quotidianamente”.
Nei giorni successivi quattro esponenti dell’Assemblea NO CPR – No Frontiere vengono raggiunti da altrettanti fogli di via: non potranno ritornare per un anno nel comune di Gradisca pena l’arresto da uno a sei mesi.
Lunedì 27 gennaio si svolge l’autopsia sul corpo di Vakhtang Enukidze. Ufficialmente saranno necessari 60 giorni di tempo per il deposito dei risultati ma i medici legali presenti, quello nominato dal Procuratore e quello nominato dal garante nazionale dei detenuti nello stesso pomeriggio dichiarano che la morte non è avvenuta a seguito di traumi evidenti, ma bensì per “edema polmonare”.
Il giorno dopo praticamente tutti i media locali e nazionali titolavano “Non sono state le botte a uccidere il georgiano al Cpr di Gradisca”. Da allora scende il totale silenzio sul caso.
“La morte di del Sig. Stefano Cucchi è addebitabile ad un quadro di edema polmonare acuto da insufficienza cardiaca…. ” così afferma le perizia di parte nel caso Cucchi. Asmat, sorella di Vakhtang Enukidze, secondo quanto riporta il quotidiano “la Repubblica” che la raggiunge telefonicamente: “…chiude ogni discorso. «Sì, ma lui era italiano».”