“Gilet gialli”, una protesta popolare contro l’atto secondo dell’offensiva neoliberale

di Alain Bihr

Molti osservatori del movimento dei “gilet gialli” sono rimasti sorpresi nel vedere che questi ultimi concentrano le loro critiche e le loro richieste sul governo, puntando in particolare sulla sua politica fiscale e più in generale sulla gestione delle finanze pubbliche, omettendo di attaccare i datori di lavoro, che ovviamente, hanno una pesante responsabilità sul deterioramento del loro potere d’acquisto e, più in generale, delle condizioni di vita di cui si lamentano. Alcuni, in particolare all’interno delle organizzazioni sindacali, hanno addirittura usato questa omissione e incoerenza come argomento per denunciare il movimento come tipicamente “poujadista”, “consumista” o “cittadinista”, mettendone in discussione la natura di classe, rifiutando per questo di aderirvi e di sostenerlo. Per rispondere a queste critiche, è necessaria una piccola parentesi teorica.

  1. Fin dalla loro origine, alla fine degli anni ’70, le politiche neoliberali si proponevano, come obiettivo non dichiarato, di contribuire al ristabilimento del tasso di profitto, il cui deterioramento era la causa immediata e principale della crisi strutturale in cui era entrato in quel decennio il regime fordista dell’accumulazione di capitale[1]. Cerchiamo di capire quale è stata la natura di questo contributo.

Il tasso di profitto è definito dal rapporto tra la massa del plusvalore (pl) formata e realizzata durante un ciclo di riproduzione del capitale sociale (la totalità del capitale in funzione nella società) e la massa di quest’ultimo (C) che ha dovuto essere anticipata, in qualsiasi forma questo avvenga (capitale costante o capitale variabile, capitale improduttivo, rappresentato dai costi di circolazione, o capitale produttivo, capitale fisso o capitale circolante) per ottenere questo plusvalore. Per risollevare il tasso di profitto, è quindi necessario cercare e aumentare il pl, aumentando così la durata, l’intensità e la produttività del lavoro messo in atto (sfruttato) dal capitale, e ridurre la massa C di quest’ultimo necessaria a questo scopo.

Questi due risultati devono e possono essere raggiunti, almeno in parte, con i mezzi specifici del capitale come rapporto di produzione, in questo caso attraverso l’implementazione di nuove modalità di sfruttamento e dominio del lavoro: nuove forme di occupazione, nuove forme di organizzazione del lavoro, nuove forme di gestione dei lavoratori nell’impresa, nuove tecnologie produttive, un nuovo discorso di legittimazione dell’impresa, etc. Il nuovo paradigma produttivo, quello della fabbrica fluida, flessibile, diffusa e nomade, implementato in tutti i settori industriali delle formazioni capitalistiche centrali dagli anni ’80 in poi, anche se con successo ineguale, ha avuto proprio questo obiettivo [2]. Ha significato, tra l’altro, lo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (NTIC), lo sviluppo del lavoro precario (contratti a tempo determinato e lavoro interinale), un’intensificazione generale del lavoro sotto l’effetto sia delle NTIC che di un gestione del personale sempre più fondata su molestie e stress, il ricorso al subappalto e alla filializzazione, etc. Ma queste innovazioni all’interno del processo capitalistico di produzione e circolazione del capitale non sarebbero state sufficienti da sole a permettere la ripresa del tasso di profitto. C’è voluto il ruolo decisivo delle politiche neoliberali nelle loro varie dimensioni di privatizzazione (delle imprese e dei servizi pubblici), deregolamentazione dei mercati (del lavoro, dei capitali e delle merci) e della liberalizzazione della circolazione internazionale del capitale in tutte le sue forme.

Per quanto riguarda la riduzione della massa del capitale sociale C, il loro apporto sarà rimasto secondario, anche se non trascurabile. Essi avranno operato essenzialmente deregolamentando e liberalizzando il mercato dei capitali, con l’effetto di aumentare la concorrenza tra capitali e inasprire le condizioni di accesso al credito, in modo da eliminare alla fine le “anatre zoppe”: “liberare” il capitale sociale nel suo complesso dal peso morto del capitale meno competitivo e produttivo, che aveva potuto sopravvivere solo a costo di continuare il fordismo a credito nella seconda metà degli anni ’70 e, infine, di una “economia sovraindebitata”. Il fatto che ciò abbia comportato licenziamenti collettivi massicci in settori come il tessile, la siderurgia, la cantieristica, l’industria automobilistica, etc., facendo precipitare intere regioni nella povertà e nella marginalità socio-economica, è stata la minore preoccupazione dei governi che hanno attuato queste politiche, anche per quelli cosiddetti di sinistra.

D’altra parte, il contributo delle politiche neoliberali all’aumento plusvalore, e quindi all’aggravamento dello sfruttamento della forza lavoro attuato dal capitale, sarà stato molto più grave e, per certi versi, decisivo. E ‘stato effettuato a due livelli e in due fasi. Vediamo come un po’ più da vicino.

  1. Per peggiorare lo sfruttamento della forza lavoro, il primo passo è quello di aggravare le condizioni di impiego, le condizioni di lavoro e la retribuzione di questa forza lavoro. A questo primo livello, il contributo delle politiche neoliberali ha assunto forme diverse.

La più generale di questa è l’allentamento delle condizioni giuridiche (contrattuali, amministrative e legali) relative all’assunzione e al licenziamento, permettendo così di aumentare la disoccupazione e il lavoro precario. Ciò equivale semplicemente a gonfiare l'”esercito di riserva industriale” (Marx [3]) e, di conseguenza, e ad aumentare la concorrenza tra coloro che lo compongono, più o meno immediatamente impiegabili dal capitale (quel che Marx chiama “sovrappopolazione fluttuante” e “sovrappopolazione latente”) e ad accentuare la minaccia permanente e silenziosa che questo “esercito di riserva” rappresenta per l'”esercito industriale attivo” (i lavoratori dipendenti), concorrendo a “disciplinare” gli uni e gli altri, cioè costringendoli ad accettare le condizioni di impiego, di lavoro e di remunerazione che il capitale “offre” loro, attualmente o potenzialmente.

Anche il contributo delle politiche neoliberali al peggioramento dello sfruttamento della forza lavoro assume forme diverse e più specifiche. Ad esempio, l’inasprimento delle condizioni delle indennità di disoccupazione (in termini di prove di ricerca attiva del lavoro, corsi di formazione da seguire, buona volontà da dimostrare, etc.), mira solo ad aumentare la concorrenza tra disoccupati e a responsabilizzarli/colpevolizzarli, facendo loro credere che il loro destino (felice e sfortunato) dipenda esclusivamente da loro. Tutto questo per cercare di far dimenticare un’offerta di circa 350.000 posti di lavoro insoddisfatte non è in grado di assorbire le 5’650’000 persone alla ricerca di lavoro attualmente registrate al Pôle Emploi – per non parlare di tutti i disoccupati che hanno abbandonato qualsiasi ricerca di lavoro e sono scomparsi dalle statistiche sulla disoccupazione. Tutti costoro sanno che “attraversare la strada”, [come dice Macron NdT], non basta per trovare un lavoro!

Lo smantellamento del diritto del lavoro e l’indebolimento delle organizzazioni sindacali, in conseguenza, tra l’altro, dell’aumento della disoccupazione e della precarietà, hanno contribuito ad inasprire le condizioni di lavoro. Infatti sono riusciti a modificare il rapporto di forza tra capitalisti e lavoratori sugli stessi luoghi di lavoro, rendendo più difficile per questi ultimi lottare contro le nuove forme di sfruttamento, così come contro quelle vecchie che si perpetuano.

L’abbandono di qualsiasi politica salariale basata sull’indicizzazione dei salari sulla base dell’evoluzione dei prezzi e della produttività del lavoro, eventualmente ricorrendo anche a misure volte a ridurre la gerarchia salariale (attraverso una crescita più rapida dei bassi salari), ha anche fatto parte della panoplia delle politiche neoliberali, che fuggono come la pesta qualsivoglia regolamentazione amministrativa dei prezzi. Costringendo il salario (come prezzo della forza lavoro) a fluttuare come tutti gli altri prezzi in funzione del  presunto rapporto domanda/offerta [4], esse avranno contribuito alla stagnazione o, almeno, ad una progressione assai ridotta del potere d’acquisto dei salari diretti, ad aggravare la gerarchia salariale e le disuguaglianze tra la remunerazione del lavoro (salariato) e quella del capitale (i suoi beneficiari), contribuendo così alla relativa svalutazione della forza lavoro.

3. Ma c’è un secondo livello in cui le politiche neoliberali possono aver contribuito al peggioramento dello sfruttamento della forza lavoro. E questo in modo più decisivo che al livello precedente evocato.

Per svalutare la forza sociale del lavoro è necessario ridurre la quantità di lavoro socialmente necessaria per la sua (ri)produzione. Anche in questo caso, il capitale può farlo direttamente con i propri mezzi, aumentando la produttività del lavoro e rallentando la crescita dei salari reali affinché sia inferiore all’aumento della produttività. È questo il meccanismo di formazione di quello che Marx chiama il plusvalore relativo [5]. Ma, anche in questo caso, le virtù del capitale rimangono limitate, semplicemente perché una parte significativa del lavoro sociale necessario per la (ri)produzione della forza lavoro gli sfugge.

Infatti, questa (ri)produzione non si limita a ciò che Marx presenta in Il Capitale, ovvero la circolazione della forza lavoro come merce. Per assicurare questa (ri)produzione non basta che questa forza lavoro trovi il modo di vendersi (in cambio di un salario) e che il salario sia scambiato con i mezzi di consumo necessari al mantenimento dei lavoratori e delle loro famiglie. Oltre all’immensa quantità di lavoro domestico che contribuisce al mantenimento di questa forza-lavoro, la maggior parte della quale è sempre stata e rimane svolta da donne [6], è necessaria un’intera gamma di servizi e strutture collettive: un apparato scolastico e universitario (per formare e qualificare la forza lavoro sociale in tutta la sua diversità), un apparato sanitario (ospedali, équipe di medici, infermieri, assistenti) per rimettere in sesto una forza lavoro degradata dalla malattia, un apparato assistenziale (per prendersi cura di disoccupati di lunga durata, di disabili, di invalidi, di anziani dipendenti), mezzi di comunicazione e di trasporto, etc.

Di questi servizi e strutture collettive, della massa di lavoro morto e vivo che essi materializzano e realizzano, lo Stato non è sempre stato il proprietario diretto (non sempre è stato colui che li ha prodotti, mantenuti e sviluppati), ma è stato, almeno finora, il primo committente: li ha finanziati (attraverso i famosi prelievi obbligatori: tasse e contributi sociali, questi ultimi costituenti la parte socializzata del salario) e ne ha governato (diretto, organizzato e controllato) l’attuazione. Ciò è avvenuto per diverse ragioni, che variano nello spazio e nel tempo: il capitale non sarebbe stato in grado di produrli da solo (ad esempio, alcune infrastrutture di comunicazione e di trasporto); gli sono stati imposti da lotte popolari attraverso lo Stato (ad esempio, libero accesso ai servizi ospedalieri), in particolare nel contesto del compromesso fordista; soddisfano, in parte, altre esigenze di interesse generale o, al contrario, esigenze derivanti dall’interesse particolare dello Stato (ad esempio, imperativi militari). Ciò significa anche che le loro attrezzature e i loro costi di funzionamento non contribuiscono pienamente alla formazione del valore della forza sociale del lavoro, anche se quest’ultima comprende probabilmente una parte significativa della prima [7].

Il finanziamento di questi servizi e strutture collettive grava sul capitale (attraverso imposte e contributi sociali) e ne limita di conseguenza la valorizzazione. Proprio in questo senso, le politiche neoliberali hanno proposto di ridurre il costo complessivo (tagli, palesi o nascosti, della spesa pubblica) – che equivale direttamente a svalutare in proporzione la forza sociale del lavoro – e, in particolare, il contributo del capitale al suo finanziamento (riducendo i contributi sociali e le imposte sul capitale e sugli utili, in forma assoluta o relativa, in particolare in modo assai relativo rispetto a quelli che pesano sul lavoro). Tutta l’antifona neoliberale, che critica l’eccessiva spesa pubblica (“folli somme di denaro” rappresentate dalla protezione sociale, secondo Macron) e l’eccesso di prelevamenti obbligatori (la “voracità” dello Stato), può essere spiegata in gran parte da questo, pur nutrendosi della convinzione che, mentre lo Stato è un male necessario, deve essere ridotto ad una parte sempre minore.

A questo primo obiettivo, le politiche neoliberali ne aggiungono un secondo, a questo livello. Pur garantendo lo smantellamento dei servizi pubblici e delle attrezzature finanziate con fondi pubblici, essi cercano di porre sotto il controllo del capitale tutti quegli elementi che offrono più o meno certe opportunità per la sua valorizzazione. Questo è ovviamente l’obiettivo della privatizzazione di queste strutture e servizi, di cui sono possono fare innumerevoli esempi; l’aumento dei fondi pensionistici privati (mediante capitalizzazione) in sostituzione dei sistemi pensionistici pubblici in crisi, fondati su un sistema a ripartizione; le assicurazioni private che promettono di subentrare alle assicurazioni sanitarie pubbliche, visto che queste ultime hanno ridotto  la portata del loro intervento e il tasso di copertura; lo sviluppo delle cliniche private ai margini o addirittura all’interno di ospedale pubblici sempre più alle prese con minori risorse; il moltiplicarsi delle scuole private che accolgono alunni in fuga dal deterioramento del servizio pubblico nel settore della formazione. Sono tutti esempi che vanno in questa stessa direzione.

Tra questi due obiettivi c’è una relazione evidente. Poiché sarebbe politicamente difficile o addirittura pericoloso dichiarare, ad esempio, di voler abolire le scuole e gli ospedali pubblici e a sostituirli con scuole e cliniche private, o anche di voler abolire l’assicurazione malattia o l’assicurazione vecchiaia per sostituirle con forme di assicurazione private legate alle diverse capacità finanziarie degli assicurati, l’operazione è consistita, da molti anni, nel soffocare finanziariamente le amministrazioni pubbliche per causare il deterioramento dei servizi che esse forniscono al pubblico, ponendo così le basi per l‘intervento dei loro concorrenti privati e aprendo la strada alle privatizzazioni complete continuamente richieste dagli ideologi neoliberali.

  1. I due contributi delle politiche neoliberali all’aggravamento dello sfruttamento della forza lavoro che abbiamo appena descritti in dettaglio, fanno parte di una strategia assai coerente, sia nella progettazione che nell’attuazione, e sono stati quindi attuati simultaneamente. Da una fase all’altra della loro esecuzione, l’una avrà comunque prevalso sull’altra, almeno in Francia.

In primo luogo, per lo più durante gli ultimi due decenni del secolo scorso, è stato il loro contributo al deterioramento diretto delle condizioni occupazionali, lavorative e salariali, a prevalere. In questa fase, abbandonando o sacrificando l’eredità delle politiche economiche e sociali precedentemente praticate nel quadro del compromesso fordista, i governi successivi, si definissero essi di sinistra o si dichiarassero di destra, hanno permesso che la disoccupazione e la precarietà si sviluppassero, ad esempio introducendo forme successive di cosiddetto “lavoro assistito” che altro non sono che tante forme di messa a disposizione dei datori di lavoro di forza lavoro gratuita (cfr. la creazione del “lavoro di utilità collettivo “, il TUC, nell’ottobre 1984). Hanno introdotto la deindicizzazione dei salari (diretti) sui prezzi e sulla produttività (abolizione della tabella mobile dei salari nel giugno 1982). Hanno poi continuato cominciando a sfilacciare il diritto del lavoro (ad esempio, sopprimendo l’autorizzazione amministrativa preventiva per i licenziamenti, nel luglio 1986). E hanno ridotto notevolmente le condizioni di retribuzione e di durata precedentemente “generose” delle indennità di lavoro, portando all’introduzione dell’indennità specifica di solidarietà (marzo 1984) e del reddito minimo di inserimento (dicembre 1988). Ovviamente, da quel momento in poi, l’offensiva neoliberale si sviluppa anche sull’altro fronte, quello delle condizioni socializzate per la riproduzione della forza sociale del lavoro: vi è  l’introduzione di un pacchetto ospedaliero nel gennaio 1983; poi le prime misure di deregolamentazione del rimborso dei farmaci nell’ambito del piano di Séguin per il “controllo della spesa sanitaria” (dicembre 1986 – gennaio 1987); è poi la volta della prima “riforma” delle pensioni imposta dal governo di Balladur nel luglio 1993, prolungando la durata dei contributi e riducendo il livello delle pensioni versate. Ma, nel complesso, la prima parte prevale sulla seconda durante questa prima fase.

Sarà l’opposto nella fase successiva, che copre i primi due decenni di questo secolo. Indubbiamente, il deterioramento delle condizioni di impiego, di lavoro e di retribuzione non scompare dall’agenda delle politiche neoliberali: lo testimonia, tra l’altro, la successione delle cosiddette “leggi sul lavoro” degli ultimi anni, dalla legge El Khomry (agosto 2016) alla recente “riforma” del Codice del lavoro adottata parallelamente (settembre 2017). Ma questa fase sarà dominata dall’insistente problema del controllo del debito pubblico. Costantemente aggravato dalla politica di sgravi fiscali e contributivi (soprattutto per il capitale, gli alti redditi e le persone facoltose) attuata a partire dai primi anni 2000, questo indebitamento farà un grande e brusco balzo in avanti durante la cosiddetta crisi finanziaria dei subprime del 2007-2008, grazie alla combinazione del massiccio salvataggio di capitale finanziario che è stato o sta per fallire, piani di rilancio  volti a contenere la depressione economica generale e il deficit di entrate causato da quest’ultima [8]. Pertanto, con il pretesto di ridurre un debito pubblico che deriva soprattutto dall’ingiustizia fiscale nei confronti del capitale e dei possidenti, nonché dalla socializzazione di un debito privato causato dagli stessi, e da qui traendo le argomentazioni sulla necessità di ridurre il suo insostenibile onere, l’ossessione dei nostri governi sarà quella di ridurre la spesa pubblica amplificando e accelerando lo smantellamento delle strutture e dei servizi pubblici che questa spesa finanzia.

Tutto ciò a danno delle classi lavoratrici, che sono così soggette ad una doppia sanzione: debitamente sollecitate dall’aumento delle imposte indirette e dalla quota di imposte dirette sul lavoro, vedono il deterioramento quotidiano dei servizi e delle infrastrutture, che fanno parte delle condizioni immediate e, in parte, essenziali per l’esistenza dei loro membri, specialmente dei più bisognosi.

  1. Inserita in questo contesto, la rivolta del “gilet gialli” può essere meglio analizzata, compreso il fatto che essa sia orientata principalmente verso la contestazione dello Stato, in particolare nella sua dimensione fiscale. La scelta di questo obiettivo non lo rende un movimento “poujadista” o “consumistico” come alcuni si compiacciono di ripetere, né pone questa rivolta al di fuori della lotta anticapitalista. Al contrario, individua uno dei due momenti principali (mezzi, metodi, orientamenti) del processo globale di aggravamento dello sfruttamento della forza sociale del lavoro da parte del capitale a cui contribuiscono le politiche neoliberali. Individua nelle finanze pubbliche, sia in termini di entrate che di spesa, una delle due sfide principali della lotta di classe oggi sul piano economico, l’altra, ovviamente, rimanendo quella della ripartizione del “valore aggiunto” tra profitti e salari risultato dello scontro diretto tra lavoro e capitale all’interno del processo produttivo stesso. Essa fa della lotta contro queste politiche, nel senso di obbligare il capitale e i suoi beneficiari a contributo misurato sulle loro reali capacità in questo campo [9] e di una priorità data al soddisfacimento dei bisogni sociali più elementari delle classi lavoratrici (in termini di istruzione, salute, alloggio, cultura, tempo libero), un obiettivo essenziale di qualsiasi politica volta a unificare queste classi in una prospettiva anticapitalista.

Sicuramente la consapevolezza della natura politica e della portata globale di tutto cioè è probabilmente ancora solo parziale all’interno del movimento dei “gilet gialli”, anche se è maturato notevolmente rispetto alle prime richieste del movimento, limitate alla questione della tassazione dei carburanti. Anche l’articolazione di questo problema con l’altro, quello al centro del confronto quotidiano sui luoghi di lavoro, nei cantieri, nelle fabbriche e negli uffici, lascia ancora molto a desiderare, anche se la necessità di un aumento generale del potere d’acquisto è apparsa nelle piattaforme delle richieste. Questo rende ancora più necessario e urgente un intervento delle organizzazioni sindacali e politiche anticapitaliste nel movimento dei “gilet gialli” come ho già avuto modo di ripetere. Solo in questo modo, infatti, potranno essere bloccate e poi spezzate le due braccia della tenaglia capitalista, il padronato e lo Stato. (8 dicembre 2018).

  1. Per un’analisi dettagliata dell’attuazione delle politiche neoliberali in risposta alla crisi fordista, si veda l’articolo “Crisis” in La novlangue néolibérale, 2a edizione, Pagina 2 & Syllepse, 2017.
  2. Per una presentazione di questo nuovo paradigma produttivo, si veda La novlangue néolibérale, op. cit., pp. 169-173.
  3. Il Capitale, Libro I, capitolo XXV.
  4. Presumibilmente, perché, come ha dimostrato Marx, in questo caso i dadi sono truccati. Nel mercato del lavoro la domanda e l’offerta lungi dall’essere due fattori indipendenti l’uno dall’altro, entrambi sono controllati dal capitale, che controlla l’offerta di lavoro così come determina in larga misura la domanda di lavoro attraverso la “sovrappopolazione relativa” che genera nel corso del suo processo di riproduzione.
  5. Capitale, Libro I, capitolo XII.
  6. Cfr. ad esempio Delphine Roy, “Le travail domestique: 60 milliards d’heures en 2010”, Insee Première, n°1423, Insee, novembre 2012.
  7. A mia conoscenza, non c’è mai stata una valutazione della quota delle finanze pubbliche (entrate e spese) incluse nella composizione del valore della forza sociale del lavoro.
  8. Per maggiori dettagli, si veda l’articolo “Debito pubblico” in La novlangue néolibérale, op. cit.
  9. Secondo l’articolo 13 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789: “Per il mantenimento della forza pubblica, e per le spese d’amministrazione, è indispensabile un contributo comune: esso deve essere ugualmente ripartito fra tutti i cittadini in ragione delle loro capacità”