Lettera dal carcere di Putin

Il sociologo marxista russo, condannato a cinque anni con l’accusa inventata di «giustificare il terrorismo», descrive la vita collettiva in prigione[Boris Kagarlitsky]

A luglio scorso, la polizia russa ha arrestato il sociologo marxista e attivista politico Boris Kagarlitsky con l’accusa inventata di «giustificare il terrorismo». È stato rilasciato poi a dicembre sulla scia di una massiccia campagna di solidarietà internazionale. Tuttavia, il 13 febbraio, i giudici hanno riaperto il caso contro di lui e lo hanno condannato a cinque anni di carcere. Kagarlitsky ha scritto a Jacobin dalla sua cella a Zelenograd, dove attualmente sta scontando la pena, sulle condizioni nelle carceri russe e sull’importanza del movimento di solidarietà internazionale.

Dopo essere tornato a Mosca da Syktyvkar, un mio conoscente giornalista mi ha esortato a scrivere qualcosa sulle mie esperienze in prigione. L’idea mi è sembrata buona e subito mi sono messo al lavoro. Dopo aver scritto una quindicina di pagine, però, mi sono reso conto che non avevo abbastanza materiale per un libro intero. Il problema si è risolto presto, quando il Leviatano si è assicurato che avessi nuove opportunità per arricchire la mia conoscenza della vita carceraria. Su richiesta della Procura, la corte d’appello ha deciso di rivedere la sentenza pronunciata a Syktyvkar e di mettermi ancora una volta dietro le sbarre.

La mia ultima esperienza in galera per molte cose si è rivelata diversa da quella precedente. Nell’arco di poco più di un mese ho attraversato tre prigioni e cinque celle, prima di stabilirmi nella mia «cella di lunga degenza», da dove scrivo queste righe. Il risultato è che ho conosciuto nuove persone e ho avuto accesso a una quantità estremamente ricca di nuovo materiale. Mi sono venuti in mente molte idee nuove e poco a poco le sto scrivendo (questi pensieri non hanno sempre a che fare con la vita in prigione, ma sono ovviamente influenzati dalla mia esperienza qui). Sto avendo molte opportunità per riflettere sulla filosofia e sulla psicologia, ma le scoperte più ricche sono legate agli spostamenti che sono stato costretto a fare da un posto all’altro.

Sebbene le regole della vita carceraria siano sostanzialmente le stesse ovunque, la pratica effettiva può differire notevolmente, non solo da prigione a prigione, ma anche da cella a cella. In ogni luogo comunità distinte nascono, si evolvono, si disintegrano e si formano di nuovo al mutare delle circostanze. Ci sono prigioni grandi e piccole, ricche e povere, nelle province e nella capitale. Le guardie possono essere amichevoli e persino mostrare comprensione, ma possono anche essere di indole meschina. I detenuti sono di varie tipologie umane, appartenenti a diversi gruppi culturali e classi sociali. Ci sono sempre cose di cui parlare, anche se queste conversazioni non sono sempre piacevoli. Mentre i prigionieri vengono spostati da una prigione all’altra, si scambiano informazioni su come erano le cose nel loro ultimo posto e cosa ci si potrebbe aspettare in una nuova struttura. Ciò che interessa di più alle persone, ovviamente, è il cibo. Mangiare decentemente è uno dei principali piaceri auspicabili nella vita carceraria, e per questo la qualità della cucina carceraria è un argomento di discussione particolarmente vivace.

Quando sono arrivato a Zelenograd, per qualche motivo sono stato messo in una cella di isolamento, anche se le due settimane trascorse a Kapotnya equivalevano già all’isolamento. Il problema dell’essere in isolamento era che le persone all’esterno non potevano contattarmi correttamente. Non ricevevo pacchi e i miei tre nuovi compagni di cella si trovavano esattamente nella stessa situazione. È stato qui che ho sentito parlare del centro di detenzione di Medvedkovo, dove, a quanto pare, i prigionieri sono molto ben nutriti. Oh, quante lodi ho sentito riversare sui cuochi di quella prigione durante il mio periodo di quarantena a Zelenograd! Il porridge in quel posto! La quantità di carne nella zuppa! La dimensione delle porzioni distribuite a cena! A giudicare dai commenti dei miei compagni di cella, quella struttura meritava una stella Michelin.

Una volta che arrivi in una cella dotata di frigorifero e televisore, inizi a dipendere meno dalla cucina della prigione e più dai pacchi di cibo e dai tuoi compagni di cella. Non tutto è condiviso, né con tutti, ma gestire le cose in comune è comunque del tutto naturale e ragionevole. Nella cella in cui sono stato rinchiuso a Kapotnya, sono rimasto colpito dal fatto che fossero state stabilite procedure democratiche, con alcune questioni decise tramite votazione e altre tramite consenso. Il cibo, tuttavia, non era proprietà comune; i detenuti si erano divisi in più gruppi (in tutto eravamo da tredici a quindici, con persone che arrivavano continuamente e altre che uscivano), e all’interno di questi gruppi si condividevano le risorse.

Sono arrivato a considerate tutto ciò come una sorta di anarco-socialismo, sebbene ci fossero anche degli individualisti. Ad esempio, c’era un ex capo accademico che era stato incarcerato per corruzione. Il frigorifero era pieno delle sue scorte di cibo, che non condivideva con nessuno. Una volta, è vero, mi si è avvicinato a me per offrirmi una fetta di torta. Sono rimasto stupito e ho accettato con gratitudine il regalo. Purtroppo il motivo della sua generosità è stato subito chiaro: la torta era scaduta.

Qui a Zelenograd la cellula è più piccola e a nessuno viene in mente di stabilire procedure formali e tanto meno di votare. Tuttavia, le comunità informali inevitabilmente prendono forma e operano secondo le proprie regole. Il grado di solidarietà e di aiuto reciproco qui è notevolmente maggiore che fuori.

Certo, sono stato fortunato. Sono stato messo in una cella con persone perbene, per quanto possibile in tali condizioni. Anche se forse non è così sorprendente. La maggior parte dei detenuti, dopotutto, non sono delinquenti incalliti, ma persone comuni entrate in conflitto con la legge, che hanno ceduto a qualche tentazione o che hanno perso il controllo sulla propria situazione. Quando mi hanno messo nella mia cella a Kapotnya uno dei detenuti, che era lì da più tempo degli altri, mi ha subito detto: «Saresti qui per omicidio, vero?» Ero sconvolto. «Sembro davvero un assassino?». La risposta è stata ancora più inaspettata della domanda: «Le persone che sono qui per omicidio non premeditato sono tutte molto rispettabili, intelligenti e gentili». Allo stesso tempo, la reputazione dei prigionieri politici non è sempre così buona. «Alcuni di loro pensano troppo a se stessi e nel complesso sono inclini all’isterismo». Spero di essere riuscito a migliorare un po’ la reputazione dei prigionieri politici agli occhi dei miei compagni di cella.

La prigione di Zelenograd, dove mi hanno sistemato, è piccola e ha risorse limitate. Ciò è evidente nella quantità e nella qualità del cibo e nel fatto che la struttura è cronicamente a corto di personale. Le guardie si lamentano costantemente di tutto questo, attirando simpatia e comprensione da parte dei prigionieri. In generale, però, la qualità del cibo in prigione non ti preoccupa più una volta che ti mettono in una cella con frigorifero. La nostra cellula è particolarmente fortunata; uno dei detenuti si è diplomato in un istituto culinario e di mestiere fa il pasticcere. Riuscì a procurarsi una pentola di terracotta per la cella, e ogni sera il luogo si riempie di aromi deliziosi.

Purtroppo, mentre un frigorifero può diventare fonte di emozioni positive, un televisore è l’opposto. In modo curioso, questi due apparecchi esistono in una sorta di unità organica; o li hai entrambi o nessuno dei due. Ogni giorno la televisione ti inonda di propaganda che diventa una sorta di rumore di fondo da cui è difficile uscire cambiando canale: il messaggio è lo stesso ovunque. Dopo un certo tempo, tuttavia, sviluppi un’immunità. La televisione ha anche una funzione positiva: permette di sapere che ore sono.

Parlando con i miei compagni di cella nel corso di alcune settimane, e in alcuni casi solo di poche ore, ho gradualmente compilato una sorta di enciclopedia dei tipi umani e delle storie di vita, in base alla quale potrei, ad un certo punto, essere in grado di scrivere un bel libro. Tutta questa esperienza e conoscenza, tuttavia, dovrà ancora essere riassunta e rielaborata. Spero, ovviamente, di poterlo fare all’esterno.

Per il momento, però, sto semplicemente accumulando conoscenze. Il viaggio continua.

Zelenograd, 25 marzo 2024

* Boris Kagarlitsky è professore di sociologia alla Scuola di scienze sociali ed economiche di Mosca e redattore di Rabkor. Ha scritto, tra le altre cose, Between Class and Discourse: Left Intellectuals in Defense of Capitalism (Routledge, 2020), Empire of the Periphery: Russia and the World System (Pluto, 2007) e Restoration in Russia: Why Capitalism Failed (Verso, 1995). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione di Jacobin Italia.