La Primavera ai tempi della guerra esterna ed interna (2)

La guerra contro la classe lavoratrice e i settori più deboli della società [Franco Turigliatto]

La scelta della corsa al riarmo in atto e il conseguente dirottamento di ingenti risorse e investimenti per sviluppare le spese militari (l’economia di guerra) sono in completa antitesi al mantenimento di un welfare  per tutte e tutti, a partire da sanità e scuola, ma anche a buoni salari e alla garanzia di un reddito decente per le classi lavoratrici e popolari.[1]

Sui giornali si sono diradati gli articoli che, pur molto genericamente e senza individuarne le cause, sottolineavano come salari italiani siano tra i più bassi d’Europa.

Diversa sono invece le condizioni dei capitalisti le cui imprese continuano a conseguire cospicui profitti, qualche volta vertiginosi come le industrie belliche che in borsa conosco un periodo d’oro; Leonardo (un colosso che si colloca al 13° posto a livello mondiale) e la Fincantieri tirano la volata, ma è l’intero settore che negli ultimi mesi ha superato i 20 miliardi di guadagni; anche le banche vanno a gonfie vele migliorando il loro stesso record del 2022  tanto è che non hanno avuto alcun problema a siglare un accordo contrattuale sul salario in controtendenza rispetto ai ben miseri aumenti di altri comparti. Poche briciole però rispetto agli aumenti del 30% degli Amministratori Delegati: 9,75 milioni per Orcel di Unicredit, 5,8 milioni per Nagel di Mediobanca, 5,7 milioni per Messina di Intesa, 3 milioni per Castagna del Banco Bpm!  

Ma anche molte altre aziende (tra cui Stellantis che continua a ridurre il personale) stanno incamerando lauti profitti che hanno permesso loro di elargire consistenti dividendi già alla fine dell’anno scorso e non meno cospicui saranno quelli distribuiti nel tradizionale mese di maggio annunciati pudicamente dal sito Borse.it: “Il 2024 si profila un anno interessante anche dal punto di vista dei dividendi, con i titoli nostrani che si preparano a distribuire i frutti del loro successo”.

Qualche difficoltà in più le hanno i settori capitalisti più piccoli e deboli pressati dalla concorrenza e dalla loro bassa produttività, ma a sostenere i padroni e i padroncini di ogni risma ci ha pensato il governo che ha sfornato condoni e sanatorie fiscali a ripetizione, ben 12 provvedimenti nell’ultimo anno che costituiscono un chiaro segnale di protezione dell’evasione fiscale.

Tutti questi elementi fanno a pugni con la condizione di povertà di milioni di persone e con la condizione salariale delle lavoratrici e dei lavoratori. La guerra di classe interna condotta dalla borghesia contro la classe lavoratrice mostra tutta la sua crudeltà, una guerra che non produce solo miseria e bassi salari, ingiustizia sociale e distruzione di sanità e spesa sociale, ma anche l’interminabile catena degli omicidi sui luoghi di lavoro: 1041 le denunce all’INPS nel 2023, e già circa 200 nei soli primi due mesi di quest’anno. leggi anche qui/

Lo scandalo dei bassi salari

Uno studio dell’Ufficio Economia dell’Area Politiche per lo sviluppo della CGIL mostra lo spaccato drammatico delle retribuzioni nel nostro paese: 5,7 milioni di dipendenti guadagnano in media meno di 11 mila euro lordi annui, ma ad essi vanno aggiunti altri 2 milioni di lavoratrici/lavoratori con salari medi inferiori ai 17 mila euro annui. Lo studio, dopo aver individuato le cause di questa situazione, discontinuità lavorativa, part time e precarietà contrattuale propone di intervenire contestualmente su tutti i fattori che determinano i bassi salari: “precarietà, discontinuità, part time involontario, basse qualifiche e gravi ritardi nel rinnovo dei Ccnl”.

Se passiamo dal lordo al netto, risulta che, nel 2022, 5,7 milioni di lavoratrici e lavoratori hanno guadagnato l’equivalente mensile di 850 euro, altri 2 milioni di dipendenti arrivano ad appena 1200 euro al mesi.[2]

Il governo Meloni in questi mesi ha costantemente vantato i presunti buoni risultati ottenuti sul piano dell’occupazionale, ma i dati assoluti nascondono una realtà assai negativa in cui si allarga sempre più la dimensione dei contratti a tempo parziale e della precarietà; importante è anche lo spostamento dell’occupazione da quella industriale al terziario. L’anno scorso su 7 milioni di contratti attivati solo il 16% era stabile, l’84% precario sotto varie forme. In proposito si veda l’intervista dell’ex presidente dell’INPS, Tridico, su Jacobin.[3]

Questi dati drammatici mostrano non solo l’ingordigia dei padroni, le politiche dell’austerità dei governi che si sono succeduti e la drammatica sconfitta subita dal movimento dei lavoratori, ma chiamano in causa le organizzazioni sindacali maggioritarie, compresa la stessa CGIL che hanno accettato la politica della concertazione, la subordinazione alle logiche capitaliste fin dal lontano 1992 con lo smantellamento della scala mobile, strumento fondamentale di difesa dei salari. In altri termini le direzioni delle organizzazioni sindacali, deputate alla difesa degli interessi collettivi della classe lavoratrice non hanno saputo svolgere il loro compito, non solo e non tanto per l’attacco padronale o per un “destino cinico e baro”, ma perché si sono piegate alle logiche del capitale.

Buttare via la contingenza e concordare che gli aumenti contrattuali possono recuperare l’inflazione solo secondo l’indice dell’IPCA (Indice dei Prezzi al Consumo Armonizzato per i Paesi dell’Unione Europea, ingl. Harmonised Index of Consumer Prices), addirittura al netto della dinamica dei prezzi dei prodotti energetici importati, significa accettare l’impoverimento programmato dei salari, come infatti è avvenuto in questi ultimi 30 anni. Ulteriori aumenti infatti possono essere conseguiti solo se collegati all’aumento della produttività aziendale (sfruttamento) e/o diversificati verso specifici prodotti collegati (benefit) all’azienda, per non parlare delle risorse indirizzate alla sanità privata complementare.

Non solo si è creato una emergenza salariale, ma è venuta meno la credibilità verso le stesse organizzazioni che hanno accettato e gestito questo sistema contrattuale di penalizzazione delle lavoratrici/tori moltiplicando le spinte all’individualismo e la passivizzazione di larghi settori di lavoratrici/tori.

Le tre confederazioni hanno addirittura faticato molto ad accettare finalmente un istituto minimo di difesa come quello del salario minimo per legge e solo negli ultimi mesi si sono orientati verso la proposta dei 9 euro. Ma perché non sostenere direttamente il disegno di legge dei 10 euro di salario minimo collegato a un meccanismo di scala mobile della sinistra radicale?  


[1] Il crollo della sanità pubblica spinge sempre di più tante persone a ricorrere alla sanità privata con un ulteriore effetto sociale devastante; titola La Stampa; “ Oltre 9 milioni in difficoltà per le spese mediche – il valore dei prestiti per le visite supera il miliardo di euro”.

[2] Precisa ancora lo studio CGIL. “Emerge come nel 2022 il salario medio in Italia si sia attestato a 31,5 mila euro lordi annui, un livello nettamente più basso rispetto a quelli tedesco (45,5 mila) e francese (41,7 mila). A determinare un minore salario medio in Italia concorrono una maggior quota delle professioni non qualificate, l’alta incidenza del part time involontario (57,9%, la più alta di tutta l’Eurozona) e del lavoro a termine (16,9%) con una forte discontinuità lavorativa. Nel 2022 oltre la metà dei rapporti di lavoro cessati ha avuto una durata fino a 90 giorni. In sostanza, benché in Italia si lavori comparativamente di più in termini orari, i salari medi e la loro quota sul Pil sono notevolmente più bassi”.

[3]Sui dati dell’occupazione non si vuole, per convenienza politica, guardare ai movimenti di fondo, di corto e lungo periodo, e soprattutto alla qualità del lavoro che oggi viene creato. Ci sono almeno tre elementi critici che non vengono messi in evidenza: la qualità del lavoro, e quindi la sostituzione di lavoro più povero a lavoro ad alto valore aggiunto; la quantità, che va misurata con il numero di ore lavorate e non con il numero di «teste» al lavoro; il dato demografico che altera la percezione dei tassi di occupazione.

Sì, perché va bene considerare il numero di persone che sono attive e lavorano, ma se non si guarda all’indice per ore lavorate non si colgono due aspetti centrali: il primo è che più persone lavorano per produrre la stessa quantità – da cui il calo di produttività di cui sopra – e poi che questo lavoro in più è fatto di lavoro precario. In termini di indice ore lavorate, fatto 100 il livello nel 2015, siamo a 99,5 nel 2023: era 107 nel 2007, l’anno prima della crisi globale. Questo dato è riscontrato dal numero dei rapporti di lavoro a termine (dati Inps) che sono passati da 2,5 milioni del 2020 a circa 3,6 milioni nel 2023. Di questi 2,6 milioni attengono al settore privato non agricolo, erano 1,8 milioni nel 2020. Questo fenomeno colpisce soprattutto le donne che detengono il record dei contratti part-time con una quota del 45% circa che invece per gli uomini si attesta attorno al 15%”.