Quell’Ottobre ci interroga

Introduzione di Franco Turigliatto al volume "Ottobre 1917" di Ernest Mandel pubblicato nel 2017 da Edizioni LACORI

di Franco Turigliatto

Questo testo di Ernest Mandel sulla Rivoluzione d’Ottobre, scritto una ventina di anni fa, conserva una grande attualità perché condensa in un volumetto agile e chiaro la storia e il significato profondo di quella rivoluzione. È uno strumento essenziale per chiunque voglia conoscere, capire, riflettere criticamente, intervenire nel dibattito politico e storico che il centenario di quell’evento induce su larga scala nei media e nei social network.

L’anniversario della rivoluzione russa riapre, infatti, un vasto dibattito su questo snodo fondamentale della storia, sulla sua legittimità, sul ruolo del partito bolscevico che ha guidato quello scontro di classe, sull’essere stato punto di riferimento nel novecento e ancora ai giorni nostri per tutti coloro che non si sono rassegnati all’ordine esistente (coloniale e/o capitalista) e che hanno cercato di metterlo in discussione e di rovesciarlo.

Gli esponenti della borghesia, gli intellettuali Main stream, tanti opinionisti e giornalisti sono già all’opera per “spiegare” la follia e le nefandezze di quella rivoluzione e ancor più del partito che ne è stato interprete.

Per le classi dominanti che dispongono del potere economico e politico e che hanno costruito strutture statali ed istituzionali che lo configurano e lo difendono materialmente ed ideologicamente, ogni dinamica sociale che rimetta in discussione in parte o del tutto questa loro posizione nella società, costituisce un pericolo mortale per il loro ruolo e i loro privilegi. Per questi la rivoluzione d’ottobre è un vero incubo perché per la prima volta nella storia una classe oppressa e sfruttata ha raggiunto un grado di organizzazione e di coscienza politica così alto da riuscire a prendere il potere. E questa paura nei confronti dei movimenti di massa non vale solo per le classi dominanti più arretrate, ma vale tanto più per la moderna borghesia che pure nel passato è arrivata al potere attraverso delle rivoluzioni o delle guerre, utilizzando la forza dei movimenti popolari contro le vecchie classi aristocratiche.

Per i capitalisti il corso della storia ha raggiunto i suoi obiettivi. Certo, ci sono le contraddizioni della concorrenza capitalista, i conflitti e anche le guerre che questa provoca, e oggi anche il rischio sempre più forte di un disastro ecologico che porti alla deriva l’intero pianeta, ma il problema, in primo luogo, per le élites borghesi e i loro corifei, è evitare che le masse proletarie e diseredate seguano la strada aperta dalla rivoluzione russa.

Il novecento è stato il secolo terribile delle grandi guerre ma anche delle tante rivolte e rivoluzioni e dei più grandi movimenti di massa. In questo nuovo secolo, le guerre ci possono essere, come si può ben vedere, ma l’importante è che non ci siano anche le rivoluzioni.

Il desiderio di “stabilità” e conservazione della società capitalista con le sue ingiustizie, è proprio non solo dei partiti politici della borghesia, ma anche delle organizzazioni che, pur essendo nate storicamente dal movimento dei lavoratori in alternativa al capitalismo, hanno via via scelto la strada della collaborazione di classe, ritagliandosi qualche spazio e privilegio burocratico fino alla loro piena integrazione nel sistema esistente.

La potente congrega capitalista che vive dello sfruttamento delle classi lavoratrici negli ultimi due decenni ha sviluppato, utilizzando le politiche economiche liberiste, un’offensiva violenta contro le loro condizioni di vita, di lavoro, contro i diritti conquistati nelle lotte del novecento. Essa non può che temere, come il diavolo l’acqua santa, le mobilitazioni di massa, l’insubordinazione e l’indignazione popolare, il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori e che queste/i possano cercare una alternativa sociale e politica al sistema esistente, cioè la rivoluzione. Per questo dispiegano ogni energia intellettuale e mediatica per denigrare l’idea stessa di rivoluzione e per cancellarla dall’immaginario collettivo; nello stesso tempo, predispongono ogni sorta di strumenti materiali per poterla schiacciare sul nascere nel caso si producesse.

Infatti, come scriveva uno dei protagonisti della Rivoluzione Russa: “La caratteristica più incontestabile di una rivoluzione è l’intervento diretto delle masse negli avvenimenti storici. Normalmente, lo stato, monarchico o democratico, domina la nazione. La storia è fatta dagli specialisti del mestiere: monarchi, ministri, burocrati, parlamentari, giornalisti. Ma, nei momenti di svolta decisivi quando un vecchio regime diventa intollerabile per le masse, queste ultime spezzano i recinti che le separano dall’arena politica, rovesciano i loro rappresentanti tradizionali e, in tal modo, creano un punto di partenza per un nuovo regime.” [L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa]

La difesa dalle tante falsità e menzogne degli apologeti del capitalismo, ma anche dalle imprecisioni e incomprensioni di intellettuali e storici onesti, del lascito storico e politico di quella rivoluzione, è un compito non solo di verità, ma di ricostruzione di un progetto di trasformazione della realtà esistente.

Per questo l’anniversario del ’17 può e deve essere il momento di una riflessione politica storica, strategica di coloro che si oppongono a un capitalismo, profondamente in crisi, terribilmente ingiusto e violento, che riproduce le guerre e le oppressioni più efferate estendendo ogni giorno i luoghi delle barbarie.

È una riflessione da fare sul lascito politico di quella rivoluzione, ma anche sulla sua involuzione, cioè sulla controrivoluzione interna staliniana (il termidoro), che ne mutò il corso, che vincolò il movimento comunista internazionale agli interessi di una casta burocratica che aveva trasformato il paese dei soviet in una inaccettabile dittatura burocratica. Questa costruzione ha retto per alcuni decenni, ma alla fine è crollata sotto il peso delle sue contraddizioni interne e delle pressioni esterne, portando alla restaurazione del capitalismo nei paesi della vecchia URSS e in quelli che si erano costruiti sul suo modello.

Lo stalinismo è stato una controrivoluzione burocratica, un processo che ha sconfitto la rivoluzione dei lavoratori e dei contadini, che ha distorto e modellato in profondità la società sovietica con l’affermazione di una casta burocratica ipertrofica e dominante sul corpo della società. È stato il contrario di una rivoluzione, una reazione strisciante che ha conosciuto diversi gradi e stadi di sviluppo e per questo più difficilmente percepibile nella sua gravità dalle forze e dai partiti della classe operaia in quegli anni di tormenta mondiale (soprattutto quei partiti messi al bando e perseguitati da regimi reazionari, costretti a contare soprattutto sul rapporto con l’URSS).

Essa ha potuto affermarsi solo con la distruzione fisica di quel partito e dei militanti che avevano condotto la rivoluzione, con una repressione e violenza spaventosa che negli anni trenta ha sconvolto la società. C’è stata anche una violenza meno visibile, ma non meno drammatica: la burocrazia stalinista ha elevato la menzogna e la falsificazione non solo a pratica politica comune, ma a vera istituzione caratterizzante la società stessa. Questa falsificazione e menzogna sono stati contemporaneamente anche gli strumenti della formazione politica di migliaia e migliaia di militanti dei partiti comunisti nel mondo. E una serie di impianti ideologici e politici di origine staliniana ancora permeano e influenzano forze importanti della sinistra in Italia e nel mondo, come è possibile verificare, sia nelle loro ricostruzioni della storia e nelle teorizzazioni, sia nella pratica concreta, che li spinge a rilanciare una concezione campista obsoleta individuando nella Russia reazionaria di Putin un assurdo punto di riferimento.

Ma non solo; per noi riprendere in mano l’esperienza della rivoluzione d’ottobre, come per altro di tutte le rivoluzioni, vuol dire riflettere sulle singole scelte e sugli errori che possono essere stati fatti dai protagonisti, da chi ha diretto le rivoluzioni. Un esercizio critico fondamentale per provare ad elaborare una strategia rivoluzionaria in questo secolo iniziato con le grandi mobilitazioni altermondialiste e dominato oggi dalle politiche liberiste del capitale.

Richiamiamo alcuni punti focali del contributo di Mandel

In primo luogo la demistificazione serrata di alcuni luoghi comuni dominanti (falsi miti) della vulgata borghese, a partire dalla presentazione della rivoluzione come un colpo di stato condotto da una minoranza, il partito bolscevico, guidato da un Lenin e da un gruppo dirigente avido di potere e portatore di ideologie pericolose e antidemocratiche, cause dirette della successiva dittatura stalinista.

In secondo luogo la precisa ricostruzione del contesto internazionale, delle condizioni della guerra, della terribile natura oppressiva del regime zarista, individuando le contraddizioni profonde che attraversavano quella società e quindi la grande dimensione della mobilitazione di massa, soprattutto operaia, ma anche contadina, il rigetto della guerra assassina, la formazione delle strutture di autoorganizzazione della classe proletaria, i soviet, i consigli, la costruzione delle nuove istituzioni di partecipazione e di democrazia.

Interzo luogo l’individuazione delle alternative possibili e reali nella Russia del ’17, in uno dei cosiddetti bivi della storia, la critica a coloro, liberali, socialdemocratici o borghesi tout court che discettano  sul fatto che sarebbe stato necessario frenare il corso degli eventi, delimitare i compiti della trasformazione, costruire gradualmente una società democratica borghese presunta perfetta, quasi che il colpo di stato di Kornilov dell’agosto, per non parlare dello scatenamento successivo della guerra civile dei generali bianchi, non indicasse che in realtà le alternative fossero solo due. O una controrivoluzione reazionaria delle classi dominanti e lo schiacciamento dei lavoratori e dei suoi partiti, o la vittoria della classe operaia, osare l’impossibile, prendere il potere per provare a costruire un’altra società.

Per i bolscevichi la rivoluzione russa era solo un primo passo, la rottura dell’anello più debole della catena capitalista, perché l’obiettivo strategico necessario era lo sviluppo della rivoluzione socialista su scala europea. Per altro vale la pena di ricordare che il progetto della trasformazione socialista del continente era formalmente iscritto nei programmi congressuali delle forze della seconda internazionale prima dello scoppio della guerra.

La critica di Mandel alle posizioni della socialdemocrazia è serrata: coloro che vogliono imporre dei limiti ai processi rivoluzionari e ai movimenti di massa affinché restino all’interno della società capitalista esistente, decidere burocraticamente dall’alto che cosa debbano fare o meno i lavoratori opponendosi alle dinamiche e alle scelte delle strutture autorganizzate che si sono dati (soviet, consigli) , sono spinti quasi inevitabilmente a contrapporsi utilizzando gli strumenti politici dello stato borghese. Finiscono, cioè, per porsi dal lato della controrivoluzione, cercando di spegnere le mobilitazioni, utilizzando gli strumenti repressivi della borghesia (esercito, polizia, corpi franchi) per contenere e/o schiacciare i movimenti di massa portatori di una potenzialità rivoluzionaria. Ed è esattamente quello che hanno fatto i socialdemocratici con la rivoluzione tedesca negli anni successivi alla guerra. Sul piano politico queste erano le scelte che quasi tutti i partiti socialisti avevano già fatto nel ’14: invece di mobilitarsi contro la guerra avevano sostenuto la propria borghesia nell’immane macello mondiale.

In quarto luogo la violenza delle classi dominanti e le risposte che le classi subalterne mettono in atto per difendersi dalla loro offensiva reazionaria. Il tema è particolarmente delicato perché la finalità socialista postula e presuppone esattamente la lotta per porre fine alle guerre, alle oppressioni e alla violenza dell’uomo sull’uomo e sulla donna, la piena libertà e sicurezza di vita per tutte e tutti, in altri termini richiama la dialettica tra fini e mezzi.

Gli ideologi borghesi denunciano la violenza delle rivoluzioni come il male assoluto e lo stravolgimento della convivenza e delle regole civili. In realtà tutte le rivoluzioni nascono per la democrazia e la libertà contro ogni forma di sopruso o dittatura, allargano a dismisura i confini della partecipazione democratica, permettono il protagonismo dei dimenticati, postulano il passaggio ad una società di pace e di giustizia sociale.

L’esperienza storica, non solo quella russa, dimostra che soprattutto nella prima fase della rivoluzione le masse insorte sono molto generose e che la stessa presa del potere in determinate circostanze, per esempio nell’ottobre del ’17, avvenne con pochissime perdite di vite umane. I soviet lasciarono liberi gli ufficiali zaristi sulla parola che non avrebbero preso le armi contro il nuovo governo del popolo. Parola che per altro la maggior parte di essi non rispettò, partecipando invece alla formazione dell’esercito dei bianchi e alla controrivoluzione.

È tuttavia fin troppo comprensibile che secoli di oppressione e di violenza sulle masse popolari da parte delle classi dominanti, possano determinare delle reazioni di odio e di violenza. Si pensi, per esempio, nella rivoluzione francese all’assalto dei contadini ai castelli dell’aristocrazia e alle grandi residenze del clero.

Se poi il processo rivoluzionario è diretto contro dittature violente e sanguinarie, tanto più si può comprendere quali possano essere le spinte ad agire per liberarsi degli esponenti di regime e degli aguzzini della repressione.

In realtà in tutte le rivoluzioni, a partire da quella russa, le masse scese in piazza per le loro rivendicazioni democratiche e sociali, si sono trovate ben presto di fronte alla reazione violenta delle classi dominanti che hanno scatenato contro di loro tutti gli strumenti repressivi e militari a loro disposizione, obbligando le classi lavoratrici a difendersi anche con le armi per preservare la libertà conquistata, il nuovo potere e il progetto di trasformazione della realtà.

La drammatica e dura realtà è che la borghesia e in genere le classi dominanti, di fronte alla maggioranza democratica delle classi lavoratrici, non accettano di uscire dalla storia attraverso un processo pacifico, ma utilizzano ogni strumento politico e militare a loro disposizione per rimanere al potere; non accettano che si realizzi un’alternativa socialista, non accettano politiche radicali di cambiamento, di riforme sociali ed economiche profonde, difendono i loro privilegi e la loro posizione con ogni mezzo materiale, a partire dai corpi repressivi e dagli eserciti, dal sostegno e dall’intervento militare dei governi di altri paesi capitalisti. Non si può dimenticare il Cile del ’73 con il colpo di stato militare voluto ed organizzato dalla borghesia cilena in combutta con l’imperialismo americano. Il diritto delle classi lavoratrici ad autodifendersi non può essere messo in discussione; non solo è necessario, ma è del tutto sacrosanto e chi lo nega non può, in ultima analisi, che collocarsi dall’altra parte della barricata.

La realtà è che il sistema capitalista è strutturalmente e profondamente violento e non solo perché sfrutta i lavoratori, ma perché utilizzala violenza diretta su larga scala. Solo che, data la sua posizione dominante, questa violenza è adeguatamente occultata, o giustificata, o banalizzata, cioè fatta considerare normale, come inevitabile ed anche giusta. Si pensi come sono ormai storicizzate e sterilizzate le terribili guerre e dominazioni coloniali con le loro inenarrabili stragi di intere popolazioni, come sia stata romanzata la conquista di interi territori nel Nord America, cioè il massacro delle popolazioni indiane, come sia stata oggettivata la prima guerra mondiale, un immane macello, scelto e voluto dalle borghesie europee, ognuna per difendere i propri interessi e poi tutte unite contro la rivoluzione russa, per non parlare della seconda guerra mondiale. Per venire in questo nuovo secolo, si pensi che cosa hanno significato in termini di violenza e di vittime, soprattutto civili, gli interventi americani e dei paesi occidentali in tanti paesi del Medio Oriente, ma si pensi anche di quale violenza sono state capaci le classi dominanti locali contro i movimenti e le rivoluzioni delle primavere arabe (purtroppo colpevolmente disconosciute anche da tanta parte delle sinistre europee) con il sostegno non solo delle potenze occidentali, ma anche, nel caso della Siria, dell’intervento della Russia.

Scrive Mandel: “Alla fin fine, al fondo delle condanne astratte pseudo morali della violenza rivoluzionaria si nasconde un pregiudizio di classe nudo e crudo. La violenza tradizionale di chi detiene il potere è “normale”. Di qualsiasi dimensione sia è sempre il ”male minore”. La risposta contestataria del popolo che si solleva è per definizione “peggiore” anche se di dimensioni di gran lunga più ridotte di quelle delle classi possidenti. L’ipocrisia balza agli occhi”.

Qualche volta le classi dominanti, pur sapendo di non potersi affermare nel breve periodo, di fronte alla forza democratica e travolgente del movimento di massa, scelgono la strada del conflitto violento al fine di alterare le condizioni materiali ed economiche stesse su cui il nuovo regime rivoluzionario avrebbe potuto costruire una nuova società. Scelgono di praticare una guerra distruttiva al fine di rendere in ogni caso straordinariamente difficile la ricostruzione del paese da parte delle forze rivoluzionarie; in questo modo, anche se sconfitte, possono pensare che più facilmente nella nuova società si potrà determinare una crisi e quindi rendere possibile un loro nuovo intervento, volto alla restaurazione. Si pensi a quanto è avvenuto in Indocina o al “bloco” americano nei confronti di Cuba, o alla guerra di “bassa intensità” nei confronti del Nicaragua e dell’intero processo rivoluzionario in Centro America negli anni ‘8o.

Ma queste scelte delle classi dominanti hanno anche un’altra funzione, lanciano un messaggio ricattatorio a tutti i popoli e alle classi lavoratrici: non provateci, non sollevatevi, paghereste un prezzo terribile per questo vostro tentativo.

La rivoluzione russa riuscì a reggere e sconfiggere la controrivoluzione degli eserciti bianchi, ma solo al termine di un’estenuante guerra civile, che distrusse gran parte delle basi materiali economiche e in cui scomparve una parte fondamentale di quella classe operaia che era stata il soggetto portante e trainante del processo rivoluzionario. La costruzione di una nuova società subiva i terribili contraccolpi della mancanza di alcuni elementi portanti sia obiettivi che soggettivi, tanto più in un contesto di isolamento internazionale, essendo state sconfitte le rivoluzioni negli altri paesi europei.

Il dramma della guerra civile, del conflitto, la tragica necessità delle classi lavoratrici di usare la violenza per difendere le loro conquiste, il loro potere e il loro futuro, ha però ulteriori ricadute nello sviluppo delle rivoluzioni stesse. Lo scontro militare, con le sue inevitabili regole di centralizzazione e disciplina, tanto più se prolungato, rende più difficile la partecipazione e lo sviluppo democratico, l’articolazione e il funzionamento delle nuove strutture di autogestione della società. E le necessità e le pratiche militari rischiano di essere interiorizzate da chi è costretto a praticarle, ma più in generale nella società; sono strumenti e metodi che rendono ancora più difficile la costruzione di una società di transizione verso il socialismo. Il passaggio dagli anni eroici della resistenza e della lotta a quelli del lavoro quotidiano per la società liberata e libertaria, per lo sviluppo pieno dei diritti, del completo umanesimo, può essere molto complicato anche se questa è la meta da raggiungere.

Bertold Brecht ha concluso la mirabile poesia del 1939 “A coloro che verranno” con questi versi:

“Eppure lo sappiamo:

anche l’odio contro la bassezza

stravolge il viso.

Anche l’ira per l’ingiustizia fa roca fa voce. Oh noi

Che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza,

noi non si poté essere gentili.

Ma voi, quando sarà venuta l’ora

Che all’uomo un aiuto sia all’uomo,

pensate a noi

con indulgenza”

Come dunque passare alla gentilezza favorendone le condizioni anche nella fase più acuta dello scontro di classe? Di questa complessa problematica, che ha una base materiale obiettiva, i rivoluzionari e le classi lavoratrici devono essere ben coscienti ed attenti, così come devono esserlo di fronte ai processi di burocratizzazione presenti nei difficili passaggi di costruzione di una nuova società, proprio al fine di individuare gli strumenti democratici e le iniziative rivolte a contrastarli.

Per queste ragioni una parte fondamentale del libro è dedicata ad analizzare le scelte dei bolscevichi, ad indicare, all’interno di una condivisione di fondo delle loro scelte strategiche fondamentali, quali altre sono state discutibili, o anche sbagliate rendendo più difficile il cammino successivo. Vale la pena di leggere queste pagine perché costituiscono parte essenziale e dialettica del libro; ad esse rimandiamo. Infine Mandel ricorda quali immense energie intellettuali, artistiche e scientifiche abbia dischiuso la rivoluzione di ottobre, quando sia stata grande la ricchezza culturale e lo sviluppo dell’educazione, come sia stata anche una rivoluzione umanista collocata all’interno di un incredibile spirito di classe della classe lavoratrice.

Per non parlare poi delle grandi ed ardite sperimentazioni della e nella vita quotidiana, incluse quelle di una sessualità libera e liberata dalle strutture patriarcali e quelle relative all’emancipazione femminile, portate avanti pur tra mille difficoltà e contraddizioni. Non a caso queste esperienze così importanti per la vita e la libera individualità delle persone, che indicavano il cammino da intraprendere furono poi rapidamente cancellate dall’affermazione della burocrazia stalinista conservatrice.

Al di là delle complesse vicende successive, la rivoluzione russa in questi cento anni ha espresso la speranza e la possibilità per le classi subalterne di diventare protagoniste del loro futuro, di poter cambiare la storia e lo è ancora oggi perché le contraddizioni e il mondo ingiusto che ne ha determinato la sua esplosione nel ’17 sono ancora più che mai presenti e che, se è vero che oggi in tanti parti del mondo le classi lavoratrici hanno subito dure sconfitte e sono state ricacciate indietro, se in molti settori popolari regna la rassegnazione, tuttavia è nella storia stessa dell’umanità e nell’animo di uomini e donne di non accettare per sempre l’ingiustizia e l’oppressione.

Lo spirito di libertà vive nel tempo e il tempo delle rivoluzioni è ancora davanti a noi.

Per questo non si può che condividere la conclusione di Daniel Bensaïd “Nulla potrà far sì che l’evento che ha sconvolto il mondo in dieci giorni sia cancellato per sempre” nel suo saggio “Gli interrogativi dell’Ottobre” in cui riprende quanto scritto da Kant sulla rivoluzione francese nel 1795:

“Un tale fenomeno nella storia dell’umanità non si dimentica più, perché ha rivelato nella natura umana una disposizione, una facoltà di progredire che nessuna politica avrebbe saputo far scaturire, a forza di sottigliezze, dal corso anteriore degli avvenimenti: solo la natura e la libertà presenti nella specie umana quando segue i principi interni del diritto erano in grado di renderla manifesta, anche se in modo indeterminato quanto ai tempi e come evento contingente. Ma, anche se lo scopo perseguito da tale evento non è stato ancora raggiunto oggi, quando pure la rivoluzione o la riforma popolare della costituzione alla fine naufragassero, oppure se, trascorso un certo lasso di tempo, tutto ricadesse nella forma precedente (come prevedono adesso certi politici), questa profezia filosofica non perderebbe niente della sua forza. Poiché questo evento è troppo importante, troppo legato agli interessi dell’umanità e ha un’influenza troppo vasta su tutte le parti del mondo per non dover tornare alla memoria dei popoli, in occasione di circostanze favorevoli, ed essere ricordato al momento di nuovi tentativi di questo genere”