In sciopero contro l’attacco alla scuola pubblica

di Francesco Locantore

La scuola pubblica è ancora una volta sotto attacco, ancora una volta sotto la logica dell’aziendalizzazione e dei tagli al diritto all’istruzione.

Il decreto legge n. 36 del 30 aprile 2022, riprendendo lo spirito della “buona scuola” renziana, introduce una riforma complessiva del sistema di reclutamento e di formazione degli insegnanti, sovradeterminando la contrattazione e la discussione parlamentare, penalizzando ulteriormente i precari, aumentando ulteriormente i carichi di lavoro, dividendo e ricattando la categoria dei docenti, eliminando in prospettiva circa diecimila cattedre nelle scuole pubbliche.

Lunedì 30 maggio è stato indetto uno sciopero da tutti i principali sindacati della scuola, compresa la CISL che aveva boicottato lo sciopero del 10 dicembre per il rinnovo del contratto. E’ fondamentale che da quella data di mobilitazione arrivi un chiaro segnale di partecipazione di massa e di combattività, per fermare il disegno del governo Draghi sull’istruzione e per aprire una nuova stagione di protagonismo del mondo della scuola.

Le misure previste dall’articolo 44 del decreto sono pesantissime e svuotano di senso la contrattazione collettiva, che dovrebbe occuparsi anche del diritto alla formazione in servizio dei lavoratori e delle lavoratrici della scuola.

In primo luogo tutti i processi di formazione iniziale e continua dei docenti saranno coordinati dall’alto da una Scuola di alta formazione del ministero dell’istruzione, in collaborazione con l’Invalsi e l’Indire, attaccando la libertà d’insegnamento e di operare autonomamente le proprie scelte formative e la stessa autonomia delle istituzioni scolastiche nella scelta dei percorsi di formazione più adatti alla propria scuola.

Il sistema di reclutamento diventa un percorso ad ostacoli infinito: oltre alla laurea specialistica, bisognerà sostenere ulteriori esami universitari a carico dell’aspirante docente, per un totale di 60 crediti formativi, con una valutazione finale scritta e orale. Questo solo per essere abilitati e poter partecipare ad un concorso pubblico sempre più selettivo, tanto che gli ultimi hanno visto percentuali altissime di bocciati. Dopo aver vinto il concorso, l’aspirante verrà assunto ma dovrà sostenere l’anno di prova con una ulteriore valutazione finale. Come se non bastasse, dopo il superamento dell’anno di prova, il neo insegnante sarà obbligato a immettersi in un ulteriore percorso formativo obbligatorio di durata triennale, svolgendo almeno 30 ore all’anno aggiuntive non retribuite, con verifiche annuali e una verifica finale.

Per i docenti e le docenti già in ruolo, la formazione triennale, anch’essa svolta in ore aggiuntive non retribuite, sarà facoltativa ma “incentivata”, nel senso che al termine del triennio formativo, solo una parte di coloro che hanno scelto questo percorso (non oltre il 40%) saranno premiati con un bonus una tantum. Una formazione competitiva che mette in gara il corpo docente per accedere agli incentivi, oggi nella forma del bonus, con l’obiettivo dichiarato nello stesso PNRR di condizionare la progressione di carriera degli insegnanti (che oggi si basa solo sull’anzianità di servizio) alla valutazione del loro percorso formativo, operata in sostanza dai dirigenti scolastici. E’ chiaro che i docenti che si formeranno potranno accedere in pianta stabile in quella ristretta fascia di privilegiati che costituiranno il middle management attorno ai dirigenti scolastici, fortemente voluto dalla fondazione Agnelli. La logica insomma è la stessa del concorsone voluto da Luigi Berlinguer nel 1999 e sonoramente bocciato dagli scioperi di massa degli insegnanti.

Il finanziamento di queste misure sarà preso in parte dai fondi del PNRR (l’unica “riforma” dell’istruzione con uno stanziamento previsto dal piano), tagliando la card dei docenti per le spese di formazione e aggiornamento, in pratica una decurtazione netta dello stipendio, e infine soprattutto con le previsioni di risparmi grazie ad un taglio di 9.600 cattedre nei prossimi anni.

Altro che riduzione del numero degli alunni per classe, come pure hanno scritto nello stesso PNRR, ma senza stanziare un euro per questo obiettivo. I parametri per la creazione di nuove classi nelle scuole rimangono quelli definiti dalla Gelmini, che hanno portato oggi al fenomeno delle classi pollaio. Il calo demografico e la conseguente diminuzione delle iscrizioni a scuola verranno utilizzati così, anziché per comporre classi con meno alunni, per tagliare posti di lavoro nelle scuole, impedendo la regolarizzazione di migliaia di precari e precarie e mettendo a rischio i posti dello stesso personale in ruolo.

La linea del governo Draghi e del suo ministro Bianchi sulla scuola è chiara e ormai vecchia: tagliare le classi e i posti di lavoro, aumentare il carico di lavoro del personale in servizio diminuendo gli stipendi e foraggiando il mercato dei crediti formativi, dividere tra loro gli insegnanti e completare la trasformazione degli istituti scolastici in aziende in competizione tra di loro, impegnate nella ricerca di fondi prima ancora che nello svolgimento della loro naturale funzione di garantire il diritto all’istruzione per tutti e tutte.

La scuola è ormai subordinata alle esigenze dei padroni, come dimostra il fatto che si mantiene ostinatamente in piedi il sistema di alternanza scuola lavoro, nonostante le vittime che quel sistema ha dovuto registrare quest’anno tra i giovani che sono stati mandati a lavorare durante il loro percorso scolastico. Ma non basta: serve che anche nelle metodologie e nei contenuti i docenti impartiscano, sotto la direzione di una Scuola di alta formazione, conoscenze e competenze funzionali alle esigenze del profitto privato. Tant’è che questa riforma ha la priorità ed è considerata più urgente rispetto alle altre previste nel PNRR.

Soprattutto è considerata prioritaria rispetto al rinnovo contrattuale del comparto istruzione, già in ritardo di tre anni e su cui le leggi di bilancio non hanno messo risorse neanche lontanamente sufficienti neanche a risarcire della perdita del potere d’acquisto degli stipendi a causa dell’inflazione. A fronte di una richiesta sindacale di aumenti di 350 euro mensili, le risorse stanziate consentono di arrivare poco sopra i 100 euro medi lordi.

Purtroppo il sindacato è stato inerte per anni dopo la battaglia contro la “buona scuola” di Renzi nel 2015, e non è detto che oggi sia attrezzato alla lotta contro il governo Draghi. Durante la pandemia si sono lasciati passare provvedimenti che hanno indebolito la scuola pubblica, le chiusure prolungate, l’idea che si potesse fare scuola a distanza attraverso le videolezioni, l’introduzione dell’educazione civica a costo zero, il mancato rinnovo del contratto, ancora una volta dopo i nove anni di vacanza contrattuale che la categoria ha dovuto subire fino al 2018… Molti lavoratori della scuola sono oggi sfiduciati sull’utilità dello sciopero e soprattutto sulla combattività dei principali sindacati. Lo stesso rinnovo del 2018 è stato misero e se oggi è vero che la rivendicazione è più sostanziosa, è stato già annunciato che i sindacati sarebbero disposti a dividere la cifra di 350 euro di aumenti su due contratti, accontentandosi di poco nel triennio 2019/2021 (quello scaduto) per poi promettere battaglie per il triennio successivo, con la stessa logica perdente e deprimente del 2018.

Gli scioperi della categoria di quest’anno scolastico, il 10 dicembre sulla legge di bilancio (indetto da un ampio cartello ma non dalla Cisl) e il 25 marzo (indetto solo dalla Flc) in solidarietà con il movimento Fridays for future e contro la guerra, per non parlare degli scioperi indetti dai sindacati di base, hanno avuto livelli di adesione al minimo storico e sono stati costruiti senza troppa convinzione e impegno. Pesa certamente l’atteggiamento di subordinazione al governo delle segreterie dei sindacati confederali e della Cgil stessa, che ha rinunciato a costruire una qualsiasi forma di mobilitazione in continuità con lo sciopero generale del 16 dicembre. Anche nella costruzione dello sciopero del 30 maggio, nonostante si sia scelto di non farlo immediatamente dopo la pubblicazione del decreto per costruirlo meglio, non sembra che i sindacati stiano mettendo in campo tutto l’impegno necessario. Le assemblee si continuano a svolgere in molti casi online e su base territoriale, anziché convocarne una in ogni scuola ed in presenza. Spesso infatti, queste assemblee in streaming non consentono neanche una vera partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori della scuola, riducendosi a passerelle di interventi dei segretari territoriali. Insomma, sembra quasi che i sindacati non ci credano fino in fondo, che anzi lavorino per consolidare l’idea che gli scioperi siano inutili… Anche la manifestazione nazionale indetta in sordina all’ultimo momento, che consiste in un presidio stanziale in piazza Santi Apostoli, lontano dalle istituzioni responsabili di questo attacco alla scuola, non è certo un segnale di combattività.

Tuttavia, anzi a maggior ragione bisogna scioperare e lottare anche contro la passività dei gruppi dirigenti dei principali sindacati. La buona riuscita dello sciopero del 30 maggio è essenziale per pensare di poter rialzare la testa e fermare i progetti del governo sulla scuola. E’ necessario ricostruire dal basso un movimento di massa nelle scuole, che coinvolga tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori nello sciopero del 30 maggio e nelle manifestazioni che si terranno in quella data. E’ necessario un movimento che vada oltre, in solidarietà con gli studenti e le studentesse che dall’inizio dell’anno hanno ripreso le mobilitazioni contro l’alternanza scuola-lavoro, in solidarietà con le famiglie dei nostri studenti, magari impegnate su altre vertenze, nella difesa del proprio posto di lavoro, nella difesa del proprio salario contro il carovita incessante, nella difesa del diritto all’istruzione per i propri figli.