La catastrofe afgana e la costruzione del movimento antiguerra

Risoluzione della Direzione nazionale di Sinistra Anticapitalista

1. Dopo 20 anni di guerra, di distruzioni incredibili, dopo più di 100mila morti (una ininterrotta media di 15-20 morti al giorno per due decadi), ma Gino Strada nel suo ultimo articolo parla addirittura di 241 mila morti, dopo centinaia di miliardi buttati in devastanti operazioni militari (quasi 9 miliardi spesi per la sola spedizione italiana), dopo fiumi di inchiostro e innumerevoli vergognose “inchieste giornalistiche” a reti unificate per convincere il mondo che la guerra dell’Occidente era “giusta e necessaria”, dopo un coro di applausi alla presunta “missione di pace” (a cui per un po’ si adeguò anche buona parte della sinistra “radicale” italiana in versione governista), dopo il più straordinario movimento internazionale contro la guerra, fatto naufragare dall’unanime appoggio ai “nostri soldati”: dopo tutto questo si torna al punto di partenza. Nel periodo del governo Prodi 2 non furono infatti molte le correnti politiche della sinistra che rimasero coerenti con la parola d’ordine “No alla guerra, senza se e senza ma” e che provarono a mantenere attiva l’iniziativa del movimento contro la guerra, a partire dall’allora Sinistra Critica, l’antesignana della nostra attuale organizzazione.

Le vittime civili di questa guerra – la stima risale all’aprile 2021 – sono 47.235 tra uomini, donne e bambini, 72 giornalisti e 444 operatori umanitari. Anche 66mila soldati afgani sono stati vittime di questa guerra. Gli Stati Uniti hanno perso 2.442 soldati e 20.666 sono stati feriti. Inoltre, 3.800 contractors, mercenari in forza ad agenzie private, sono stati uccisi. Soldati di 40 paesi hanno preso parte alle forze afgane della NATO. Di questi, 1.144 soldati sono stati uccisi. Il numero di persone che hanno cercato rifugio fuori dal paese è di 2,7 milioni, mentre 4 milioni sono state sfollate internamente ed è una cifra che non tiene conto del disastro umanitario di queste ultime ore.

Il paese, dopo decenni di guerra, è distrutto, la povertà è terribile, milioni di persone sono sfollate o sono in fuga. Questo è il risultato di una delle tante guerre che le potenze imperialiste occidentali hanno fatto in giro per il mondo per “esportare” la democrazia, in realtà per difendere i loro interessi economici e geopolitici. Interventi realizzati per imporre il loro dominio, strettamente neocoloniali, senza nessun progetto, anzi senza nessuna idea e tanto meno volontà di costruzione o ricostruzione di una società civile, come lo stesso Biden ha dovuto riconoscere nella sua recente dichiarazione. Tutti interventi che hanno avuto come solo risultato morte e distruzione, e sviluppo di ogni corrente politica ed ideologica reazionaria, il caos generalizzato che caratterizza alcune parti del mondo e segnatamente il Medio Oriente. E così oggi quei talebani simbolo dell’oppressione e dell’arretratezza, il nemico da combattere, sono oggi tornati pienamente al potere.

Nessun intervento militare esterno ha mai avuto successo, a partire da quello storico inglese, in territorio afghano e così è stato anche questa volta.

La sconfitta dell’Occidente è quindi cocente e il futuro dirà quale ne saranno le conseguenze. Mai n questa tragedia qualcuno, in occidente, ci ha guadagnato molto, parliamo del complesso militare industriale. L’economia di guerra è un elemento forte e di traino di tutte le economie capitaliste e gli interventi militari servono non solo per il controllo geopolitico, ma anche per testare gli armamenti, per utilizzare e consumare le armi al fine di continuarne e svilupparne le produzioni e quindi i profitti con i soldi pubblici degli stati.

2. Che l’Italia abbia partecipato a questa tragedia storica, presentata all’opinione pubblica come la falsa commedia degli “italiani buona gente”, preoccupati della condizione del popolo afgano e dalla miserevole condizione delle donne, è una vergogna che grava sul paese. E’ una colpa che coinvolge in modo equanime le forze del cosiddetto centro sinistra e quelle della destra: se è stato il governo Berlusconi a decidere nel 2001 (ma con un parlamento che al 92% votò a favore) la partecipazione alla guerra, il centro sinistra continuò su questa strada e così tutti i governi che si sono succeduti fino ad oggi; fino al ritiro di qualche mese fa delle truppe italiane, sulla base della decisione americana di lasciare il paese. Tutti coloro che qui da noi hanno sostenuto questo tragico, sanguinoso e inumano gioco e che oggi parlano e straparlano a vanvera, hanno anch’essi sulle spalle morti, distruzioni indicibili e sperpero incommensurabile di risorse (comunque largamente intascate dai mercanti di armi) e dovrebbero assumersi in pieno le loro responsabilità; anzi dovrebbero essere chiamati a rispondere delle scelte che hanno fatto negli ultimi 20 anni.

Molti sono gli stessi che nei giorni scorsi hanno elogiato i meriti di Gino Strada, quando hanno sempre agito in senso del tutto opposto alle sue proposte e al suo operato. Ma la categoria dell’ipocrisia, in un contesto di forti sconfitte del movimento dei lavoratori, è quella che va per la maggiore.

3. Le vicende dell’Afghanistan confermano anche un’altra costante storica: l’occupazione neocoloniale, l’intervento militare diretto di forze straniere, se in una prima fase può avere successo, non è però in grado di costruire un vero esercito locale autonomo, capace di operare indipendentemente dai padroni imperialisti; l’esercito “nazionale” locale risulta, per sua natura, segnato dalla dipendenza, dalla corruzione e naturalmente dalla diffidenza della popolazione. Gli 88 miliardi di dollari spesi per addestrare i 300 mila soldati afgani che si sono arresi senza combattere non sono serviti a nulla perché gli occupanti occidentali non potevano che basarsi sul denaro ed appoggiarsi ai locali signori della guerra insieme ai quali hanno fabbricato una classe dirigente corrotta.

L’altra lezione che dobbiamo ricavare da questa esperienza è il carattere antipopolare e sostanzialmente parassitario degli apparati militari nostrani scaturiti dal “nuovo modello di difesa” coniato alla fine del secolo scorso proprio per scaraventare uomini, mezzi e risorse nei teatri della guerra globale.

Al bilancio delle vittime va aggiunto il bilancio economico: 1 trilione di dollari è il costo sostenuto dagli Usa dall’ottobre 2001. Lo ammette perfino l’house organ di Confindustria: «uno dei più grossi sprechi compiuti dall’Occidente nel Dopoguerra». In seconda posizione il Regno Unito con 30 miliardi spesi, poi la Germania con 19 miliardi di dollari, quindi l’Italia con 8,7 miliardi di euro secondo uno studio dell’Osservatorio sulle spese militari Milex.

Anche il bilancio politico e sociale è terrificante a partire dalla condizione di vita di donne e uomini che hanno avuto come unica colpa quella di vivere in Afghanistan. Secondo la Banca Mondiale il tasso di disoccupazione in Afghanistan è del 25% e il tasso di povertà del 47%. L’invasione non ha sradicato la povertà, non ha intaccato il monopolio dell’oppio e dell’eroina (il paese produce oltre il 90% dell’oppio illegale al mondo), non ha stimolato lo sviluppo di una società civile capace di anticorpi contro il settarismo religioso e la corruzione dei signori della guerra. Eppure Bush, Blair e Berlusconi all’indomani dell’11 settembre vollero chiamare l’invasione con il roboante nome di Enduring freedom, libertà duratura.

I talebani, in realtà, furono, oltre trenta anni fa, non solo sostenuti a fondo dal regime pakistano, ma oggetto di colossali finanziamenti e di forniture militari proprio da parte delle amministrazioni Reagan e Thatcher (ma proseguiti anche con le amministrazioni democratiche), oltre che dal sostegno politico, coronati alla fine dal successo raggiunto con il rovesciamento cruento nel 1992 del governo laico di Najibullah, colpevole di filosovietismo (venne torturato, ucciso e trascinato per le vie della capitale).

Dieci anni dopo nel 2001 gli USA di Bush, dopo una serie di contrasti e di trattative fallite con il governo talebano, con quasi tutto il mondo al loro seguito, decisero allora di smettere di finanziarli e di fare invece loro la guerra, proseguita poi, nei successivi 20 anni da tutti i successivi presidenti, repubblicani e democratici. Oggi, i talebani, quasi senza colpo ferire tornano al potere centrale nella città di Kabul. Molti commentatori hanno richiamato in proposito il Vietnam del 1975. Ma l’accostamento è possibile solo nelle immagini degli aerei che fuggono dalla capitale afgana. In Vietnam il 30 aprile del 1975 si concludeva con una straordinaria vittoria la lunghissima lotta di liberazione del popolo vietnamita contro l’imperialismo, prima quello francese e poi quello americano, portatrice di una reale indipendenza e di un progetto di trasformazione socialista; oggi a Kabul torna al potere una delle tante forze reazionarie, oscurantiste e capitaliste presenti in molte parti del mondo.

4. I movimenti sociali e le forze della sinistra di classe sono chiamati in prima battuta a denunciare tutte le ipocrisie e le falsità delle classi dominanti occidentali e dei loro sordidi interessi imperialisti e alle loro scelte militari (anche perché restano impegnati in altri teatri di guerra), ma sono nello stesso tempo chiamati a un nuovo impegno pacifista, democratico e solidale immediato mentre si consuma la catastrofe umanitaria del popolo afgano.

La lotta contro la guerra è oggi rivolta a imporre misure forti per garantire l’accoglienza degna dei profughi, perché i paesi europei, per primi, che hanno così grandi responsabilità, si facciano carico di gestire i flussi dei profughi che cercheranno di trovare salvezza e di sfuggire al nuovo governo afghano e alla repressione che questo svilupperà.

Sarà necessario trovare le modalità e gli strumenti per poter aiutare i diversi settori della società civile, a partire dalle donne, che saranno oggetto delle politiche reazionarie del governo di Kabul, individuare e sostenere le forze democratiche e sociali che proveranno a resistere e ad opporsi. Lo scenario che si apre non è infatti quello della pace, ma di nuovi conflitti e violenze.

E’ tempo più che mai di rilanciare un nuovo movimento contro la guerra, contro i nuovi interventi, contro le missioni militari italiane che solo poche settimane fa i nostro parlamento ha rifinanziato, con l’opposizione di pochissimi parlamentari. E quindi una nuova campagna contro le spese militari che sottraggono risorse enormi alla spesa sociale, alla sanità, alla scuola.

Perché nel quadro delle mobilitazioni di autunno che già si stanno discutendo, non pensare anche a una assemblea nazionale su questi temi, su queste parole d’ordine, a partire dalla costruzione delle solidarietà?

Ed è importante che un vero movimento antiguerra e sociale, di solidarietà, sappia sfuggire a ogni semplificazione o subordinazione, ma sappia essere sempre a fianco di tutte le popolazioni e le/gli sfruttate/i che lottano per la loro libertà, per i loro diritti civili e sociali e contro i loro governi oppressivi.

Sinistra Anticapitalista è pronta a fare la sua parte dentro il movimento contro la guerra, all’interno dei conflitti sociali, sul piano nazionale ed internazionale con le altre organizzazioni della Quarta Internazionale.