8 giugno: una giornata di lotta e sciopero per la scuola
di Francesco Locantore e Fannì Sacconi
Lunedì 8 giugno è stato indetto uno sciopero dai maggiori sindacati della scuola. Si è arrivati a questa importante data di lotta grazie alle mobilitazioni che sono cresciute nelle ultime settimane tra le/gli insegnanti – le/i precari/e in prima fila – gli studenti e le studentesse e le famiglie che hanno subito la chiusura delle scuole dal 5 marzo scorso.
I precari storici erano da tempo in lotta per ottenere la stabilizzazione immediata di chi ha già lavorato per più di tre anni, contro la prospettiva di un concorso selettivo che umilierebbe coloro che, pur con contratti a termine, hanno garantito il loro servizio anche in questo periodo di emergenza. Fin da subito tutte/i le/i docenti hanno provato a mantenere una relazione con i propri studenti, utilizzando gli strumenti informatici per non perdere un contatto umano e fornendo stimoli didattici per quanto possibile durante questo periodo.
In molte città si sono tenute assemblee autoconvocate in videoconferenza delle lavoratrici e dei lavoratori per confrontarsi sull’aumento dei carichi di lavoro e l’inadeguatezza di una didattica a distanza, nel frattempo resa obbligatoria dal decreto scuola. Ne sono derivate proposte di mobilitazione che hanno portato a diversi presìdi in molte città, come quelli promossi in tutta Italia il 23 maggio dal gruppo “Priorità alla scuola”. In varie scuole a Roma come in altre città sono state approvate mozioni nei collegi dei docenti fortemente critiche con l’operato del governo in questa fase.
La ministra Azzolina, infatti, ha più volte parlato del periodo emergenziale come di una “opportunità” che si presentava a studenti e docenti per sperimentare la “didattica a distanza” (DaD) come fosse la panacea di tutti i mali. È invece emerso subito e con chiarezza quali fossero le problematiche ed i limiti di questa pratica discriminatoria e classista, che scarica totalmente sulle famiglie e in primis sulle donne le responsabilità educative di cui dovrebbe farsi carico la scuola pubblica. Si tratta di una metodologia che lascia indietro i più deboli, coloro che provengono da contesti economici e socio-culturali disagiati, che nella scuola dovrebbero trovare uno strumento di crescita e di emancipazione, in grado di ridurre il divario culturale e sociale. Per non parlare degli studenti con disabilità, la cui inclusione e integrazione dovrebbe essere un obiettivo imprescindibile della scuola.
Ma davvero pensiamo che con qualche lezione in videoconferenza o del materiale audiovisivo inserito in una qualche piattaforma (per di più privata) si possa sostituire la funzione della scuola pubblica statale? A cosa potrebbero servire delle nozioni senza essere calate in una relazione educativa? La scuola dovrebbe rappresentare lo spazio in cui i ragazzi (ancora più dei bambini) si mettono in gioco, si confrontano, si scontrano, entrando in una relazione dialettico-conflittuale con coetanei e adulti, dimensione fondamentale per garantire l’acquisizione di una capacità critica, la formazione e la crescita di un pensiero autonomo in grado di leggere, analizzare, mettere in discussione la realtà esistente. Si possono imparare i valori della democrazia solo agendola. E ciò può avvenire esclusivamente in quella dimensione dialettica e plurale. Quindi, lo impari la ministra Azzolina, la DaD non può essere dipinta come un’opportunità per il futuro, è anzi la fine della relazione educativa. Altra cosa è stato l’impegno spontaneo del corpo docente a mettere in atto delle modalità didattiche di emergenza, con la consapevolezza dei loro limiti e del fatto che non si possano protrarre nel tempo.
La retorica ministeriale sulla DaD, così come le stupidaggini sul plexiglass nelle aule o altre simili amenità, servono a nascondere il fatto che il governo non ha nessun progetto efficace per garantire concretamente il diritto all’istruzione, come non ha garantito il diritto alla salute, entrambi messi a repentaglio da anni di tagli criminali al servizio sanitario nazionale e alla scuola pubblica. Addirittura nel programma di questo governo c’è il progetto di autonomia differenziata, che completa il trasferimento di competenze alle Regioni, cominciato con la riforma del Titolo V della Costituzione, che già ha prodotto privatizzazioni, con danni evidenti alla sanità. La priorità di questo governo è chiaramente quella di garantire il profitto privato, e lo ha ampiamente dimostrato cedendo alle pressioni di Confindustria per una veloce riapertura delle attività produttive, con il rischio di mandare al macello milioni di lavoratori. Nel decreto rilancio sono stati stanziati per l’istruzione solo 1,5 mld di euro in due anni, a fronte di un intervento complessivo di 55 miliardi, fatto in gran parte di regali elargiti ai capitalisti (leggi qui). Un ministro di questo stesso governo si era dimesso a dicembre, quando l’emergenza sanitaria era lontana, perché non era stata soddisfatta la sua richiesta di stanziare tre miliardi per l’istruzione nella legge di bilancio per il 2020. La ministra Azzolina, che in passato si era fatta paladina della lotta contro le classi pollaio, oggi si fa esecutrice di ulteriori tagli delle classi, accorpamenti e soppressioni di intere scuole, proprio quando l’epidemia ha fatto luce su alcuni problemi atavici della scuola pubblica: carenza di organici e di strutture, precarietà dei lavoratori e delle lavoratrici. La soluzione di questi problemi è l’unica strada per riaprire a settembre le scuole in sicurezza per gli studenti e per tutto il personale docente e non docente. L’ideologia meritocratica del Movimento 5 stelle ha inoltre portato a rinviare ulteriormente il concorso straordinario per l’assunzione di 32mila precari/e con tre anni di esperienza, essendo nei fatti impossibile realizzare una prova selettiva in questa fase. Mentre sarebbe stato semplice stabilizzarne più del doppio dal primo settembre, immettendo in ruolo tutte/i coloro che hanno lavorato per tre anni. Questo sarebbe stato un importante passo avanti verso la possibilità per le scuole di funzionare a pieno regime dall’inizio del prossimo anno scolastico, senza dover attendere, come ogni anno, diverse settimane se non mesi per la definizione completa dei consigli di classe.
Come se non bastasse, nei finanziamenti previsti per l’istruzione sono inclusi 150 milioni per le scuole private, come fanno da decenni governi di ogni colore in spregio al dettato costituzionale. L’opposizione di destra, che si è espressa in questi giorni nell’ostruzionismo parlamentare, lungi dal cogliere le posizioni critiche verso il governo emerse in questo periodo nel mondo della scuola, è motivata in realtà dalla richiesta di un più forte intervento finanziario per gli istituti privati, mentre andrebbe cancellato del tutto.
L’Associazione nazionale presidi, espressione di una visione liberista e autoritaria della scuola (gli ultras della buona scuola renziana), non ha perso occasione per prefigurare un futuro distopico, fatto di strapotere dei dirigenti, annientamento dei contratti collettivi di lavoro e degli organi collegiali, normalizzazione della DaD, docenti trasformati in operatori informatici a suon di ore aggiuntive di formazione obbligatoria (rinviamo a questo articolo per approfondimenti).
A fronte di questi pesanti attacchi alla scuola pubblica con la scusa dell’emergenza, le burocrazie sindacali hanno mostrato, nell’istruzione come negli altri comparti, ancora una volta la loro subalternità al PD, garantendo un atteggiamento improntato alla “responsabilità”, per non disturbare il governo amico. Si è evitata qualsiasi polemica e mobilitazione contro l’atteggiamento autoritario di molti dirigenti scolastici e dello stesso ministero, che ha emanato una circolare firmata dal capo dipartimento Bruschi, contenente una serie di molestie burocratiche che hanno ulteriormente appesantito il lavoro dei docenti durante l’emergenza. Le stesse segreterie sindacali hanno fatto diverse aperture sui finanziamenti alle scuole private (chiedendone di più!) e sulla necessità di regolamentare la DaD, con il rischio che questa possa essere considerata una attività normale e integrativa della didattica in presenza nelle scuole, anche oltre l’emergenza. Oggi finalmente, di fronte all’atteggiamento di netta chiusura del ministero, si arriva allo sciopero, grazie anche alle pressioni dal basso. Però occorre dirlo, questo sciopero sembra essere stato convocato tanto per evitare le critiche di non aver fatto niente, come dimostra il fatto che si stia accuratamente evitando di costruire la partecipazione di massa. Non sono infatti state convocate assemblee sindacali, non sono state date chiare istruzioni alle Rsu per coinvolgere tutti i colleghi e le colleghe e far capire l’importanza di questa giornata di lotta.
Il movimento non può delegare la lotta alle burocrazie sindacali. Lo sciopero dell’8 giugno va considerato come una prima data per una ripresa del movimento autorganizzato delle scuole su una piattaforma che vada anche oltre l’emergenza e che rimetta in discussione le politiche scolastiche degli ultimi anni. Chiediamo da subito che si facciano classi di non oltre 15 alunni, in modo da garantire il necessario distanziamento fisico oggi, ma anche una didattica più partecipata e democratica per il futuro. Per fare questo è necessario che si dispongano ingenti finanziamenti per l’edilizia scolastica, cominciando anche a requisire spazi pubblici e privati inutilizzati e per la stabilizzazione di tutti i precari, con un massiccio piano di assunzioni per i prossimi anni. La lotta per tornare a scuola in sicurezza deve aprire una nuova stagione di consapevolezza tra i lavoratori e le lavoratrici, gli studenti/esse e le famiglie per ricacciare indietro la buona scuola e le sue logiche liberiste e autoritarie, in vista del rilancio di una scuola pubblica, democratica, laica e plurale.