Gialloverdi alla resa … dei conti!

Pubblichiamo questo importante articolo di Marco Parodi, che fa il punto sul Documento di Programmazione Economica e Finanziaria presentato recentemente dal governo Lega/M5S. 

L’autore demistifica sistematicamente la retorica del governo, cogliendo l’essenza dell’impianto che le misure contenute nel DeF rivelano: pienamente dentro il quadro dell’austerità di marca UE, liberista, patriarcale, reazionario. 

Un governo contro lavoratori e lavoratrici, disoccupati e disoccupate, tutto intento a conquistarsi le grazie dei padroni. 

Occorre perciò continuare a combatterlo senza tregua. 


di Marco Parodi

Si avvicinano le elezioni europee e i sovranisti del bel paese, Cinque stelle e Lega, ricominciano a inveire contro le istituzioni e le regole dell’Unione europea, sempre secondo il copione populista della difesa del popolo italico contro l’élite europeista. Tutto il contrario della realtà, se si osservano bene i numeri del DEF appena presentato dal Governo.

È necessario smascherare l’infame propaganda di questo presunto governo del cambiamento che, al contrario, non solo prosegue con le politiche dell’austerità imposte dalla Commissione europea, ma addirittura utilizza i pochi margini di flessibilità concessi, ops margini di austerità solo leggermente più temperata rispetto a quanto già previsto, sia per assecondare in modo più forsennato che mai i risparmi fiscali delle imprese, dei padroni, dei ceti medio ricchi e più benestanti, sia per ricattare in modo vergognoso i disoccupati, con la confusione tra welfare e workfare, ovvero tra sostegno alla povertà e intimidazione allo sfruttamento, e pensionati, con la favoletta della abrogazione della legge Fornero ovvero della riduzione dell’età pensionabile solo in cambio di notevoli penalizzazioni.  Questa è l’altra faccia liberista, becera ma nascosta, del populismo e del sovranismo!

È passato parecchio tempo da quando i sovranisti esultavano dal balcone di Palazzo Chigi per la vittoria contro la burocrazia tecnocratica. Già nel mese di dicembre arrivò il voltafaccia in nome di un accordo che prevedeva la marcia indietro sul disavanzo, la riduzione consistente degli stanziamenti per le misure del reddito di cittadinanza e quota 100, ai quali sarebbero state associate inevitabilmente restrizioni e penalizzazioni di ogni genere, un piano di privatizzazioni da 18 miliardi su base annua, l’incremento di oltre 52 miliardi a regime dell’IVA, nonché, udite udite, l’introduzione, nuova di zecca, di una sorta di clausola di salvaguardia sulla spending review, ovvero la riduzione automatica della spesa pubblica al peggioramento del bilancio: alla faccia della rivolta contro il manovratore a distanza di Bruxelles.

Oggi, con la predisposizione del DEF, siamo alla resa totale. La clausola automatica sulla spending review è già scattata e i due miliardi congelati di spesa pubblica sono definitivamente consolidati come minori spese. L’austerità sulla spesa pubblica proseguirà negli anni, tanto che la spesa pubblica primaria passerà dal 45,3% al 44,7% del PIL, di cui quella corrente dal 42,1% al 41,3%; per gli investimenti pubblici, si vuole far passare come uno shock rivoluzionario il passaggio dal 2,1% del PIL nel 2018 al 2,2% nel 2019 e al 2,5% nel 2022, mentre tutte le stime basate sulle serie storiche mostrano che solo una quota superiore al 3% può contribuire alla crescita economica.

Ciò nonostante, l’indebitamento netto cresce al 2,4% del PIL, per effetto di una revisione della crescita dall’1,5% previsto a settembre, all’1% a dicembre e allo 0,2% del DEF. Le politiche di austerità restano quindi il leit motiv della programmazione di bilancio: gli avanzi primari restano sempre ampiamente positivi, le entrate superiori alle spese al netto degli interessi sul debito, diminuendo leggermente nel 2019 per poi aumentare sino al 2% del PIL, come nell’epoca d’oro tecnocratica dei compiti a casa del governo Monti.

Sul piano della disciplina del Patto di stabilità, dopo la riforma del c.d. six pack, accanto alla più nota soglia massima del 3%del rapporto tra indebitamento e PIL, il target delle politiche di bilancio è dato dalla convergenza all’Obiettivo di Medio Termine (OMT), pari per l’Italia al pareggio di bilancio strutturale, ossia al netto della componente del disavanzo legata al ciclo economico. Per il 2019, il Governo, dopo l’ostinato inneggiamento al nuovo miracolo economico, si è dovuto arrendere a riconoscere la fase molto negativa della crescita rispetto al potenziale, in modo da puntare ad una più graduale convergenza all’OMT. Tuttavia, nel DEF la resa dei conti è senza precedenti, poiché il Governo, per la prima volta nella triste storia dell’austerità, aumenta l’OMT, per il triennio 2020-2022, dal pareggio di bilancio all’avanzo di bilancio dello 0,5% sul PIL. Qui, davvero, la mistificazione populista e sovranista ha raggiunto la vetta della farsa tragicomica!

Nel frattempo, quei pochi margini di austerità temperata, giustificati dalla minore crescita economica, vengono utilizzati per ulteriori vantaggi fiscali alle imprese. Dopo i circa 2,5 miliardi (al netto degli aggravi) di sgravi fiscali, già approvati in manovra di bilancio, arrivano puntuali, nel decreto c.d. “crescita”, le ulteriori agevolazioni fiscali, date dal ripristino del superammortamento, dalla deducibilità dell’IMU dalle imposte, nonché dalla riduzione “strutturale” dell’aliquota IRES, dal 24% al 20% a regime, nel caso di utili reinvestiti e senza più nemmeno la condizionalità della crescita dell’occupazione, per un totale di ulteriori 600 milioni di euro.

Ma non finisce qui. Nel DEF è espressamente prevista la volontà del Governo di procedere alla riforma della flat tax al posto dell’IRPEF. La riforma leghista prevedrebbe, su base opzionale, una flat tax al 15% sui redditi fino a 50 mila euro, su base familiare e con deduzioni consistenti per i figli e coniugi a carico, ma con la rinuncia a tutte le deduzioni e detrazioni, comprese quelle per spese sanitarie e mutui, e al “bonus 80 euro” per i lavoratori dipendenti. L’effetto finale è che il beneficio fiscale andrà totalmente a vantaggio dei ceti medio alti non beneficiari del bonus, dei lavoratori autonomi che non erano rientrati nella precedente flat tax, delle famiglie numerose in cui il coniuge risulta fiscalmente a carico. Insomma, una riforma fortemente iniqua e regressiva, impregnata di ideologia liberista, padronale e patriarcale.