Interruzione volontaria di patriarcato. Tutt3 in piazza ad Ancona il 6 maggio!

di Laura Vassalli

Tutt3 in piazza per un aborto libero, sicuro e gratuito 

Il 6 maggio il movimento femminista e transfemminista scenderà di nuovo in piazza, in una manifestazione di carattere nazionale, per rivendicare il diritto ad un aborto libero, sicuro e gratuito. La mobilitazione si svolgerà ad Ancona, nelle Marche, un luogo per niente casuale. Infatti, le Marche, che hanno già visto ampie mobilitazioni femministe nel recente passato, sono una di quelle regioni governate dalle destre, dove l’attacco all’autodeterminazione delle donne e delle soggettività LGBTQ*IA e, in particolare del diritto all’aborto, è più brutale.

La legge 194 e la sua portata storica

L’interruzione volontaria di gravidanza in Italia è disciplinata dalla legge 194 del 22 maggio 1978. Questa legge rappresenta una forte conquista del movimento femminista di quegli anni che si è battuto per anni con forza per la legalizzazione e la depenalizzazione dell’aborto, che prima era considerato insieme alla pillola anticoncezionale, sulla scia del fascista codice Rocco (ancora non del tutto abolito), un delitto “contro la stirpe”.

Grazie a quella legge, centinaia di migliaia di donne poterono ricorrere ad un aborto assistito e nella piena legalità, senza più dover ricorrere a pericolosissimi aborti “clandestini”, praticati da altri o da se stesse, con un evidente maggiore rischio per le donne più povere che non potevano permettersi di pagare un vero medico.

L’approvazione di quella legge aveva, ed ha tuttora, non solo una grande rilevanza sul piano pratico, ma anche sul piano dell’autodeterminazione delle donne, della loro affermazione della libertà di scelta di sostenere o meno una gravidanza e di decidere sul proprio corpo. Ed è per questo che la 194 viene messa in continuazione sotto attacco e già nella stesura stessa della legge, nonostante sia una delle leggi meno restrittive del mondo in tema di aborto, sono previste alcune importanti limitazioni tese proprio a minare l’autodeterminazione delle donne.

L’obiezione di coscienza e altri ostacoli all’interruzione volontaria di gravidanza

Il più grande limite della legge 194/78 è sicuramente la cosiddetta “obiezione di coscienza”,  introdotta nell’articolo  9, che rappresenta un esempio di violenza di genere istituzionalizzata, in quanto si afferma il diritto di una persona (magari un uomo) di decidere sul corpo e sulla vita di una donna, dandogli la possibilità di rifiutarsi di “prendere parte alle procedure […] ed agli interventi per l’interruzione di gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione.”. D’altra parte, nella legge, si chiarisce che l’obiezione di coscienza non può ledere il diritto della donna  ad abortire, ma nei fatti, è garantito solo il diritto del personale medico a decidere sul corpo e sulla vita delle donne, soprattutto se il personale obiettore interferisce nelle procedure, costringendo la donna a cercare personale medico non obiettore o un’altra struttura.

In Italia, poi, l’obiezione di coscienza è un problema di vaste proporzioni che, di fatto, impedisce la piena applicazione della 194 e raggiunge livelli sconvolgenti e sconfortanti. La media dell’obiezione di coscienza si aggira intorno al 70%, con molte regioni che si pongono tra l’80 e il 90% e con molte strutture che arrivano al 100%. 

Un consistente aiuto all’espansione dell’obiezione di coscienza è dovuto, ad esempio, ai tagli alla sanità, che hanno come conseguenza, tra l’altro, la riduzione dei consultori pubblici a cui le donne potrebbero rivolgersi e l’affidamento alle strutture private di cui tantissime sono in mano a enti religiosi antiabortisti.

Agli obiettori di coscienza nelle strutture già carenti di personale e di risorse adeguate, si aggiungono, indebitamente, anche farmacisti che negano la pillola anticoncezionale per la contraccezione d’emergenza (la pillola del giorno dopo o dei cinque giorni dopo, che si assume a seguito di un rapporto non protetto) che non ha nulla a che fare con l’aborto e che, anzi, senza la quale si costringerebbe la donna proprio a dover ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza.

In un clima di stigma sociale per le donne che decidono di ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza, poi, spesso si appella all’obiezione anche personale non medico che non avrebbe né motivo né legittimità nemmeno dal punto di vista dell’art. 9 a non fare il proprio lavoro.

Una rivendicazione importante, che avrebbe il duplice vantaggio di ridurre l’impatto degli “obiettori di coscienza” e di demedicalizzare l’aborto riducendo anche i ricoveri ospedalieri, sarebbe quello di diffondere l’uso dell’aborto farmacologico con la pillola nota come “RU486”.

Ma l’accesso a questo tipo di aborto è tutt’altro che garantito, nonostante anche il parere favorevole “al ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico: fino a 63 giorni pari a 9 settimane compiute di età gestazionale presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale ed autorizzate dalla Regione, nonché consultori, oppure day hospital”, espresso dall’ISS (Istituto Superiore della Sanità) con circolare del 12/08/2020 e trasmesso alle Regioni.

Mezzo consultorio ogni 20 mila abitanti

Per quanto riguarda i consultori, negli anni sempre più svuotati e destrutturati, per legge, dovrebbe essercene almeno uno ogni 20 mila abitanti, ma dalle tabelle dell’ultima relazione (si riferisce ai dati del 2020) che il Ministero annualmente ha l’obbligo di redigere e presentare al Parlamento sull’ “attuazione della legge stessa e i suoi effetti, anche in riferimento al problema della prevenzione”, risulta come di consultori ce ne siano mediamente 0,6 per 20 mila abitanti, ovvero quasi la metà di quelli previsti, con alcuni territori largamente scoperti da questo servizio.

Inoltre, la 194 consente l’accesso nei consultori ad associazioni di volontariato, che le organizzazioni antiabortiste usano per dissuadere le donne ed ostacolarle nella loro scelta di abortire. Queste associazioni, che si definiscono impropriamente “pro life”, invadono e infiltrano i consultori con lo specifico e dichiarato obiettivo di negare il diritto delle donne ad accedere all’interruzione volontaria di gravidanza e vengono incoraggiate attraverso lo smantellamento dei consultori pubblici, se non addirittura con elargizione di fondi pubblici sottratti alla collettività, come hanno denunciato recentemente le femministe piemontesi che hanno portato alla luce come il Consiglio Regionale del Piemonte abbia messo in bilancio 1 milione di euro (erano 460 mila per il 2022) per finanziare il Fondo Vita Nascente.

Colpevolizzazione e criminalizzazione delle donne

Agli ostacoli materiali per l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, si sommano quelle dinamiche tipicamente patriarcali, di colpevolizzazione e criminalizzazione delle donne e delle soggettività LGBTQ*IA.

Nel caso dell’aborto, già nella legge 194 è prevista una sorta di penitenza di invito al ragguaglio e   al pentimento. Tutta la legge, che già nell’art.1 stabilisce che “Lo Stato […] tutela la vita umana dal suo inizio” è tesa al pentimento della donna che vuole abortire e a distoglierla dall’insano gesto. Infatti, si insiste molto sull’aiutare la donna che vuole abortire, ma nel senso di aiutarla a tornare sui suoi passi e portare avanti una gravidanza anche se non desiderata, e impone ai consultori, che hanno il compito di assistere la donna in stato di gravidanza, di contribuire a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione di gravidanza.

Emblematico, da questo punto di vista, tutto l’articolo 5 della 194, ma in particolare la formulazione dell’ “invito” del medico che redige il certificato necessario ad accedere all’IVG, a “soprassedere per sette giorni”, superati i quali “la donna può presentarsi” presso una struttura autorizzata per procedere all’interruzione volontaria di gravidanza. L’invito, nella prassi quotidiana, è diventato un obbligo, per cui una donna deve aspettare una settimana a vuoto prima di poter esercitare il proprio diritto ad abortire.

Siamo più che d’accordo che alcuni di questi ostacoli andrebbero rimossi, e anche con urgenza. È indispensabile sconfiggere il patriarcato e la sua violenza contro le donne e le soggettività LGBTQ*IA, nonché abbattere il capitalismo, che con le sue dinamiche economiche e sociali creano povertà e miseria per la maggior parte delle persone. Fin da subito, aiuterebbe anche il semplice  garantire l’accesso alla contraccezione gratuita, soprattutto per l3 ragazz3, ed attuare l’educazione e l’informazione sessuale senza tabù anche nelle scuole.

Insomma, ci vorrebbe una grande rivoluzione, non solo culturale, per costruire una società in cui nessuna donna si trovi costretta a ricorrere all’aborto a seguito di una violenza sessuale, o a rinunciare alla maternità per ragioni meramente economiche; una società in cui l’autodeterminazione delle donne e delle soggettività LGBTQ*IA non sia costantemente minacciata e attaccata da un sistema patriarcale basato sulla discriminazione e sulla violenza di genere e in cui una donna possa scegliere liberamente sul proprio corpo, incluso se e quando portare avanti oppure interrompere una gravidanza.

Allo stato attuale delle cose, una donna che ricorra all’aborto subisce uno stigma sociale enorme, che si traduce in colpevolizzazione o in vittimizzazione. Lo rappresenta bene l’immagine sul sito del Ministero della salute dedicato all’interruzione volontaria di gravidanza, dove c’è una giovane donna triste, come ad indicare lo stato d’animo “giusto” e socialmente accettabile.

Infine, occorrerebbe cancellare le sanzioni e le pene per le donne che ricorrono all’interruzione di gravidanza al di fuori della legge. Ancora oggi, infatti, sono previste delle pene per chi opera l’interruzione di gravidanza fuori dalle modalità previste dalla 194, non solo per chi pratica l’aborto clandestino, ma anche per la donna stessa. Ma se una donna non si avvale dell’aborto assistito, i motivi sono per lo più imputabili a chi deve garantire il diritto all’aborto, più che alla donna stessa, vista la corsa a ostacoli che deve affrontare, come nelle Marche, dove succede l’assurdità di invitare le donne a spostarsi in altre regioni per ricorrere all’IGV. Inoltre, questo sistema sanzionatorio comporta che in caso di complicanze (assai probabili), la donna sia scoraggiata a richiedere cure mediche per paura di ritorsioni legali. Figuriamoci quanto si può complicare la situazione per le donne rese “clandestine” esse stesse dalle leggi razziste anti-migranti di questo e dei precedenti governi.

Combattiamo il governo antifemminista e antiabortista di Giorgia Meloni

Il governo Meloni, che si era apprestato a dichiarare che non avrebbe toccato la legge 194, ma che ha schierato al Ministero “della famiglia” l’antiabortista Roccella, sta portando avanti le sue politiche familiste, xenofobe e patriarcali, sia a livello nazionale che nelle regioni dove le destre governano, tra cui le Marche, dove si svolgeranno la mobilitazione femminista.

Mentre si costringono le donne che non vogliono avere una gravidanza a portarla avanti, si impedisce, a quelle che lo vorrebbero, di diventare madri o di renderglielo un inferno, per la mancanza di asili nido e strutture da una parte e, dall’altra, per un mondo del lavoro imperniato sulla precarietà, sui bassi salari e sull’erosione dei diritti, e che questo governo vuole ancora più precario, con lavoratori, e soprattutto lavoratrici, sempre più ricattabili. Abbiamo tristemente assistito ai vaneggiamenti con affermazioni razziste e insensate su un inesistente pericolo di “sostituzione etnica”, alle nuove misure filopadronali sul lavoro provocatoriamente presentate il 1° maggio e alla dichiarazione di voler tagliare le tasse alle donne con un sistema di forte premiazione per quelle che fanno più figli. Quest’ultima misura sarebbe l’aiuto del governo alle donne, ma come al solito, si vogliono ricacciare le donne dentro casa e, semmai, si avvantaggiano gli uomini, dal momento che il lavoro delle donne è spesso in nero, più precario di quello degli uomini e spesso nella no tax area per i bassissimi salari. 

Oltre la 194

Per affermare il diritto all’aborto libero, sicuro e gratuito occorre andare oltre la rivendicazione della piena applicazione della 194/78 e rivendicare più diritti, a cominciare dall’abolizione dell’articolo 9 sull’obiezione di coscienza e della “settimana di riflessione” che segue l’ottenimento del certificato per l’IVG; la cancellazione delle sanzioni e delle pene per le donne che ricorrono all’aborto fuori dal Servizio Sanitario Nazionale; l’accesso gratuito alla contraccezione; l’educazione sessuale nelle scuole; il ricorso in tutte le strutture alla pillola RU486; la costruzione di nuovi consultori e la riqualificazione di quelli esistenti, a partire dal liberarli dalle associazioni antiabortiste; la formazione del personale addetto ai consultori e all’interruzione volontaria di gravidanza in un’ottica accogliente, non giudicante e femminista.

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