Covid-19: come combattere la pandemia? Alcune note su un confronto fra Asia e Europa

di Pierre Rousset

Paragonare la storia della pandemia di Covid-19 in Asia e in Europa (o fra paesi asiatici ed europei) può aiutare a discutere sulle scelte e sui mezzi delle politiche sanitarie. La risposta a certe domande può essere d’un evidenza sconcertante o avverarsi ben più complessa.

La storia di qualsiasi epidemia (e a maggior ragione di qualsiasi pandemia) combina ambiti diversi: biologico ed ecologico, medico e scientifico, politico, sociale o culturale… E perciò mette pericolosamente a prova i sistemi sanitari (in senso lato), la solidarietà (intergenerazionale, sociale e internazionale), gli Stati.

I governi europei hanno avuto l’opportunità di prepararsi ad affrontare la pandemia e non l’hanno approfittata. Non solo l’avviso cinese non è stato preso in considerazione ma l’esperienza precoce dell’Asia orientale non è stata studiata. Eppure avrebbe permesso di anticipare gli eventi e di elaborare una politica sanitaria adeguata.

Secondo un ranking dell’università John Hopkins, quattro dei cinque paesi che hanno registrato meno morti per centomila abitanti sono asiatici: Taiwan, il Vietnam, la Papuasia-Nuova Guinea e la Tailandia. Il tasso di decessi per centomila abitanti raggiunto a gennaio del 2021 è di 113,46 in Francia contro lo 0,03 di Taiwan!

L’impreparazione europea

Contrariamente ai luoghi comuni, l’Europa “avanzata” ma più “puramente” capitalista, si è rivelata meno preparata ad affrontare le epidemie dei paesi asiatici, dove persistono (anche se si stanno affievolendo) strutture sia comunitarie che burocratiche (lontane eredità delle rivoluzioni) che danno vita a politiche pubbliche sanitarie. L’indice di preparazione sanitaria nei confronti delle pandemie classifica la Tailandia al sesto posto mondiale e la Francia all’undicesimo.

Forte dei progressi sanitari (miglioramento delle condizioni di vita, antibiotici, vaccini), il mondo occidentale ha proclamato la “fine delle epidemie”, d’ora in avanti riservate ai paesi “sottosviluppati”. I sistemi sanitari si sono concentrati sulla cura individuale, che rende di più, a scapito della prevenzione, della salute globale. Invece, pur se l’Asia viene anch’essa colpita dalle malattie del nuovo mondo capitalistico (diffusione massiccia del diabete e del cancro, ecc.), le malattie infettive contagiose vi sono sempre presenti e non vengono affrontate solo come patologie individuali.

Il paradosso è che, con l’aiuto di un eccesso di fiducia e delle controriforme neoliberiste, l’Occidente capitalista ha liquidato le proprie capacità anti epidemiche (e i mezzi che le accompagnano) nel momento in cui i rischi epidemici aumentavano. La mondializzazione capitalista accelera considerevolmente la circolazione delle merci e delle persone. Può modificare la natura delle malattie: i quattro virus del dengue avevano la propria area geografica, il loro contatto ha creato una nuova forma di dengue, quello emorragico, che si è propagato negli anni cinquanta in Asia (Tailandia e Filippine) e il riscaldamento climatico ha favorito il suo estendersi. I disturbi causati da virus trasmessi dalle zanzare, dalle zecche e da altri succhiatori di sangue (arbovirus) si succedono: zika, chikungunya, febbre gialla.

Gli sconvolgimenti ecologici, fra cui la deforestazione, modificano i rapporti fra il mondo animale e la vita umana, così come l’allevamento industriale (l’influenza H1N1 è nata in Massico non lontano da allevamenti porcini). Le gigantesche megalopoli costituiscono un ambiente privilegiato per la circolazione dei virus. L’industria alimentare impone i suoi dettami e le patologie cosiddette “civilizzate” si diffondono (diabete, ipertensione). La popolazione invecchia e le comorbilità sono la base del SARS-Cov-2. Quest’ultimo era meno mortale del coronavirus del 2003 ma ha fatto il giro del mondo e, alla fine, ha prodotto molte più morti. Il Covid-19 è una malattia della globalizzazione capitalista.

Non esistono ricette universali per affrontare una malattia infettiva. Una politica sanitaria adeguata dipende soprattutto dalle strutture sociali specifiche di ciascun paese o regione. L’efficacia delle scelte compiute dalle autorità si misura fra paesi vicini e confrontabili. Ciononostante, esistono delle semplici considerazioni da cui bisogna partire.

Il prezzo del ritardo

Di fronte ad una grave epidemia emergente, qualsiasi ritardo nella reazione delle autorità si paga carissimo. Questa regola, un’evidenza nota, si è vista drammaticamente confermata in Cina fra la fine del 2019 e l’inizio del 2020. Una volta che il Covid-19 vi si è installato, il suo rapido diffondersi sul terreno internazionale è stato inevitabile (tanto più che la Cina si trova al centro degli scambi internazionali). La domanda era allora: lo stesso errore si sarebbe commesso in altri paesi? Molti paesi asiatici hanno reagito in fretta, ma in generale questa tendenza non si è affermata in Europa che, nei fatti, è diventata un trampolino a partire dal quale l’epidemia è diventata pandemia.

L’esempio di Taiwan dimostra in positivo ciò che una reazione rapida possa permettere. Questo paese era particolarmente esposto: centinaia di migliaia di taiwanesi lavorano in Cina e una moltitudine di turisti cinesi visita l’isola tutto l’anno. Un primo caso di Covid-19 era stato rilevato il 21 gennaio. Il governo ha attivato immediatamente il piano di controllo delle malattie elaborato sulla base dell’esperienza dell’epidemia SARS del 2003, mettendo in marcia un centinaio di misure. Non c’è mai stato lockdown della popolazione. Un anno dopo, il paese conta solo 8 morti (Taiwan ha appena registrato il suo primo decesso da maggio 2020) e il numero dei casi positivi si situa intorno ai 912.

Altro esempio, il Vietnam, anch’esso in prima linea. Come a Taiwan, il governo ha reagito rapidamente. Nella prima ondata dell’epidemia, non si è dovuto piangere nessun morto. Dopo la seconda ondata, si sono registrati 35 decessi dovuti alla pandemia in seguito a trasmissioni comunitarie locali.

Il prezzo dell’eurocentrismo e dello stolto nazionalismo culturale

Non si sapevano molte cose sul SARS-Cov-2 a gennaio del 2020 -ed è sorprendente il fatto che più cose si imparano su di esso, più nascono nuove domande. Tuttavia, se ne sapeva abbastanza per agire in fretta. Si pubblicavano molti articoli sulle riviste scientifiche di riferimento e, in Francia, l’allarme sanitario era stato dato. L’esperienza asiatica, al tempo stesso precoce e variata, era ricca di lezioni. Ma gli ambienti politici europei poche volte hanno l’abitudine di imparare dall’Asia. Alle metropoli dei defunti imperi coloniali non piace disfarsi della loro arroganza e del cieco eurocentrismo. Perché dunque sentirsi chiamati in causa da una cosa che accade in un lontano “laggiù”?

Il rifiuto di imparare dall’Asia ha trascinato con sé il relativo carico di sottintesi e di luoghi comuni razzisti, come se gli asiatici (specificamente dell’Estremo Oriente) si comportassero come robot obbedienti, senza preoccuparsi molto della libertà. Tuttavia, la ribellione popolare alle autorità si manifesta clamorosamente in Cina (e lo testimoniano gli edifici amministrativi dati alle fiamme). I giovani sudcoreani rivendicano anch’essi il diritto a divertirsi. Alcuni giapponesi si salutano senza toccarsi ma è anche gente a cui piace molto frequentare assiduamente bar e ristoranti tradizionali (luoghi, come si sa, altamente a rischio di contagio), dove la promiscuità è più elevata di qua.

In Francia ci si credeva più furbi -quante volte Jerome Salomon, ministro della Sanità, l’ha lasciato intendere nelle sue conferenze stampa di febbraio-marzo. Si facevano le cose “a modo nostro”, presuntamente meglio. Ancora, in Francia “abbiamo” ridacchiato stupidamente sulla leggerezza degli italiani colpiti in pieno dalla pandemia poco prima di noi1. Lusingare l’ego nazionalista è una ricetta soventemente utilizzata per distogliere l’attenzione dai veri problemi e dalle vere responsabilità…

Il prezzo della menzogna

Il governo vietnamita aveva mentito durante l’epidemia del 2003 e gli era costato caro. Ma ha imparato la lezione: nel 2020 ha detto la verità, cosa che costituisce uno dei fattori che spiegano il successo della sua politica sanitaria durante la prima ondata di Covid-19. Il governo cinese ha mentito, ma il governo di Taiwan ha detto la verità. Le autorità francesi hanno mentito più di una volta per nascondere le proprie responsabilità rispetto allo stato di penuria materiale che prevaleva allora. In Vietnam, le mascherine chirurgiche erano in vendita liberamente in tutte le farmacie. La Francia era incapace di produrle. I vietnamiti erano increduli vedendo la vecchia potenza coloniale così deindustrializzata, diventata ormai un imperialismo dipendente.

Dato che non c’erano mascherine, né gel o dispositivi di protezione individuale, le autorità politiche e sanitarie dicevano che il Covid-19 non era così pericoloso e che le mascherine non servivano a niente (o erano dannose). La menzogna era diventata una politica. Ne paghiamo ancora oggi il prezzo. Non solo la parola delle autorità è stata screditata ma si è aperta la porta al negazionismo sanitario più pericoloso. Sarebbe stato più sano e più semplice dire la verità: le mascherine e le soluzioni idroalcoliche sono importanti ma non ne abbiamo. E quindi bisogna farne a meno per qualche tempo.

E non ci si deve aspettare che le autorità politiche o sanitarie ammettano d’aver mentito. Sono cominciati dei procedimenti giudiziari contro di loro per aver messo in pericolo la vita dei cittadini. Ma si difendono dicendo che non sapevano se le mascherine erano efficaci contro questo coronavirus: si propagava per contatto o per via aerea? Bisognerebbe dire che le mascherine sono utili nei due casi, perché evitano che ci si tocchi il naso o la bocca (cosa che facciamo spontaneamente). Bisognerebbe dire anche che le mascherine sono una misura standard nei casi di contaminazione epidemica per via respiratoria. Soprattutto, alcuni paesi hanno effettivamente reagito, con diverse modalità, a partire da gennaio (è stato anche il caso della Corea del Sud, dopo un breve ritardo nell’attivazione delle misure di prevenzione, o della popolazione di Hong Kong, che ha indossato le mascherine d’un giorno all’altro senza che le autorità lo raccomandassero).

I colpevoli invocano oggi le direttive tardive dell’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS). I nostri governanti sanno perfettamente che questo organismo è sottomesso alle pressioni degli Stati membri e non ha libertà di parola. Hanno messo sotto controllo l’Organizzazione che negli anni settanta aveva, ai loro occhi, dimostrato di possedere troppa indipendenza (che era anche la garanzia della sua efficienza). Essa è oggi sottoposta alla duplice pressione dei governi (esercitata soprattutto dalla Cina nel gennaio 2020) e dei finanziatori privati. Oltretutto, di fronte ad una carenza mondiale di mascherine, essa pensava (con ragione) che queste dovessero essere riservate al personale sanitario. In tempi di penuria a volte bisogna fare delle scelte, ma in Francia abbiamo vissuto una vera campagna anti-mascherine che ha lasciato delle tracce profonde.

Ritorni d’esperienze

Opponendo le “democrazie liberali” ai “regimi autoritari” (la Cina, il Vietnam) o le “tradizioni asiatiche” alle preoccupazioni “occidentali” per le libertà individuali, molti opinionisti francesi hanno giocato a un gioco pericoloso, lasciando credere che nella lotta contro una pandemia così pericolosa come il Covid-19, l’ordine dittatoriale sarebbe più efficace dell’ordine “democratico”.

Cina. L’ordine dittatoriale in Cina ha significato che coloro che hanno lanciato l’allarme sono stati brutalmente repressi e che i primi focolai epidemici scoperti non sono stati stroncati sul nascere. Sorpreso così da un’epidemia divenuta in poco tempo incontrollabile, Pechino ha imposto dei lockdown d’un estrema violenza nei centri urbani più colpiti, che non sono stati assolutamente un modello! Nonostante tutto, l’esperienza cinese merita di essere studiata. Xi Jinping ha considerevolmente rafforzato la direzione unica del PCC e la propria dittatura personale, ma la società cinese è complessa e non si può ridurre semplicemente a un ordine politico. Il potere deve anche sviluppare dei meccanismi che assicurino una certa adesione popolare (il nazionalismo da grande potenza ne è uno). L’esperienza della pandemia non è uniforme in questo paese-continente. Nelle zone non colpite dalla pandemia, delle strutture locali legate al PCC (che sorvegliano in tempi normali la popolazione) hanno instaurato dei controlli per evitare l’arrivo di persone potenzialmente infettive. La memoria degli errori criminali, delle sofferenze inflitte e delle menzogne non è scomparsa, ma si mescola al sollievo delle vittorie acquisite ed alla speranza che lo Stato sia capace di circoscrivere il pericolo dei nuovi contagi provocati dal ritorno al paese dei residenti cinesi o dall’estero. Molti problemi restano così in sospeso.

Hong Kong. Durante la prima ondata a gennaio-febbraio 2020, la risposta della popolazione di Hong Kong è stata rimarchevole. Il territorio era in contatto diretto con uno dei focolai epidemici cinesi più virulenti. Forte dell’esperienza della SARS del 2003, la popolazione si è spontaneamente dotata di mascherine, mentre le autorità, influenzate da Pechino, propugnavano ancora la temporizzazione. Una forma di auto-organizzazione spontanea. Il personale sanitario ha scioperato cinque giorni di fila per esigere la chiusura delle frontiere e l’ottenimento dei mezzi sufficienti, senza i quali gli ospedali sarebbero stati incapaci di affrontare la situazione; questa mobilitazione è stata possibile per la creazione a dicembre, in questo settore, di un sindacato militante nato dal movimento del 2019.

Questo è sorto in occasione di una vera e propria sollevazione cittadina per difendere i diritti giuridici e civici di cui beneficia la popolazione in virtù degli accordi presi al momento del passaggio alla Cina della vecchia colonia britannica. Pechino aveva in effetti deciso di imporre la sua giurisdizione diretta su questa “Regione amministrativa speciale”. La lotta contro l’epidemia è stata integrata ad una lotta d’insieme, con dei risultati sanitari molto positivi.

Poi il clima generale è cambiato. Non solo il Covid-19 è diventato un fenomeno duraturo, con il pericolo permanente di nuovi focolai alimentati dal ritorno dei residenti a casa loro (di qui le politiche di quarantena), ma la battaglia per difendere l’autonomia del territorio è stata persa. La stanchezza si è fatta sentire a seguito di questa sconfitta e del notevole inasprimento della repressione. Alla fine di gennaio del 2021 si sono censiti, dall’inizio dell’epidemia, 10.435 casi di contagio e 181 decessi legati al coronavirus (il territorio conta circa sette milioni e mezzo di abitanti).

Corea del sud. La Corea del Sud è stata, a febbraio del 2020, uno dei pasi più esposti alla pandemia, dopo il ritorno clandestino da Wuhan dei membri della Chiesa Shincheonji di Gesù. Il governo ha mobilitato e riorientato l’apparato industriale per produrre ciò che era necessario alla lotta contro l’epidemia (niente a che vedere con le “mascherine patriottiche” di Macron, destinate a soccorrere l’industria tessile francese…). Ha sviluppato enormi mezzi per “testare e tracciare” le catene di contagio e “isolare” le persone contagiate. In un primo tempo, quest’ultima misura ha portato a dei drammi, i nomi dei malati a volte sono stati svelati, sommettendoli così allo stigma dei loro vicini. Poi le cose sono state parzialmente rettificate (le equipe mediche garantivano meglio l’anonimato e i dati venivano stoccati indipendentemente dallo Stato) ma il governo fa appello oggi alla delazione per denunciare le persone che non rispettano le misure di protezione, addirittura con dei premi. Insomma, una china veramente pericolosa.

Ciononostante, l’esperienza sudcoreana dimostra fino a che punto il “testare, tracciare, isolare” sia uno degli elementi-chiave di una politica sanitaria nei confronti del Covi-19. Senza mettere in marcia i lockdown, la curva dei contagi si è stabilizzata intorno agli 8.000-9.000 casi. Il paese (più di 50 milioni di abitanti) registrava il 30 gennaio 2021 solo 1.425 decessi.

Nella regione de l’ Île-de-France, solo recentemente i gruppi del Covisam hanno iniziato ad agire in modo efficace. Finora, gli alberghi sono rimasti disperatamente vuoti e l’organizzazione delle condizioni di quarantena a casa è stata molto casuale, perché assolutamente ignorata nel quadro di una politica di prevenzione, malgrado le promesse mai mantenute di Macron di una visita a domicilio per ciascun portatore di virus. Se le autorità francesi avessero voluto imparare dalla Corea del Sud, avrebbero potuto anticipare ben prima l’applicazione di una politica di screening (reclamata dalla maggioranza dei ricercatori).

Vietnam. Il successo vietnamita è dovuto al modo in cui il suo governo ha potuto mobilitare la popolazione dopo essersi guadagnato il suo consenso dicendo la verità sulla situazione e utilizzando le reti sociali per allertarla – specialmente diffondendo un video musicale visto 65 milioni di volte. Lo screening è stato applicato, le frontiere sono state chiuse, una rigida politica di quarantena si è stabilita, riguardante il ritorno dei concittadini e l’arrivo degli esperti, mobilitando a tal fine hotel, caserme e ospedali (circa 40.000 persone sono state coinvolte).

Regimi politici e “fabbrica sociale”

Esiste un rapporto semplice ed automatico fra regime politico ed efficacia sanitaria rispetto ad un’epidemia? La risposta non è affatto evidente.

L’egemonia neoliberista è una regola quasi universale. Il neoliberalismo domina la politica del regime in Sri Lanka, ma il sistema sanitario pubblico e gratuito di questo paese non è ancora stato smantellato ed è entrato in azione efficacemente contro il Covid-19. Un regime federale è positivo o negativo? La risposta può essere solo: “dipende”. Angela Merkel ha fatto adottare delle misure più rapidamente e in modo più efficace che in Francia durante la prima ondata epidemica con l’accordo dei Länder; non è stato più così in autunno e si è avuta una nuova esplosione del contagio (alcuni ministri dei Länder lo riconoscono). Con Trump, degli Stati governati dal partito Democratico si sono opposti alla sua follia devastante; con Biden, degli Stati repubblicani si rifiutano di applicare la nuova politica sanitaria sviluppata a livello federale.

In cambio, siamo tentati di rispondere che il sistema francese di iper-centralizzazione nella persona del presidente sia in assoluto negativo. E’ un sistema opaco, mentre la trasparenza è un fattore fondamentale, sul lungo periodo, per il consenso della popolazione. I meccanismi stessi del sistema lo sottolineano: la politica sanitaria viene decisa dal Consiglio della Difesa, le cui riunioni si svolgono sotto il segreto militare!

Più si scava e più sembra che si debbano fare i conti con la società reale, nella sua globalità e non attenersi a definizioni che sovente si riferiscono solo alle strutture statali della dominazione. Un raffronto fra la Tailandia e la Francia (due paesi paragonabili per numero di abitanti) è assai istruttivo. In linea di massima, il costo dell’epidemia avrebbe dovuto essere molto più elevato nel regno thai che nella “democrazia occidentale” francese: laggiù si vive sotto un regime militare ed il monarca è un lunatico tremendo! La realtà, invece, è rovesciata.

In Tailandia, le autorità sanitarie hanno di fatto bypassato le autorità politiche (militari) e monarchiche per mobilitare le reti di volontari preesistenti nei villaggi e nei centri urbani, cosa che precisamente non è stata fatta in Francia, dove le lezioni della lotta contro l’AIDS non sono state tenute in conto.

La solidarietà, fattore d’efficacia sanitaria e di giustizia sociale

I governi hanno generalmente iniziato a proteggere i loro cittadini, come è successo in Tailandia o a Singapore, e a volte si sono resi conto che escludendo gli immigranti, si permetteva alla pandemia di perdurare. Evidentemente, per includere gli immigranti nei dispositivi sanitari, è necessario garantire agli e alle irregolari che non siano sanzionate e/o espulse…

A Hong Kong, invece, delle famiglie cinesi hanno semplicemente gettato per la strada i domestici filippini o indonesiani per paura del contagio. Il razzismo alimenta tale ostracismo.

In forma generale, la pandemia mette a prova le varie solidarietà sociali, intergenerazionali o internazionali. La ricerca di capri espiatori (stranieri, persone anziane, ecc.) accontenta ed organizza più d’uno. Questa ricerca è favorita in Occidente dall’individualismo neoliberista, una componente dell’ideologia dominante, distruttrice di solidarietà (ma contrastata da correnti di resistenza solidale). In che misura è meno dominante in Asia orientale? La lotta per la solidarietà si combatte su tutti i fronti, compreso quello culturale.

L’arrivo dei vaccini (e speriamo anche delle terapie) e la loro penuria organizzata dalla logica capitalista del profitto, mostrano assai bene l’attualità scottante della solidarietà, in rottura radicale con l’ordine dominante.

1 I britannici dicevano lo stesso dei francesi.

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