Black Friday. Il cliente non ha sempre ragione, il padrone mai
Black Friday, giornata nera per chi lavora nella grande distribuzione e per i quali quel giorno annuncia l’inizio del periodo più brutto dell’anno / Eliana Como /
Venerdì 27 novembre, nel pieno di una pandemia mondiale, è stato il Black Friday. Letteralmente, venerdì nero. Il Black Friday è una ricorrenza di origine americana, si svolge il venerdì successivo al giorno del ringraziamento, quasi come fosse una ricorrenza religiosa. Fu ideato dai grandi magazzini Macy nel 1924, per dare il via allo shopping natalizio una volta finito il ThanksGivingday. Pare che il termine derivi dagli ingorghi stradali causati dalla corsa allo shopping, perché in quel periodo le macchine erano quasi tutte nere. Ma forse c’è un’altra spiegazione, che si riferisce alle cifre degli utili sui bilanci, tradizionalmente scritte in nero, a differenza delle perdite che sono in rosso. In realtà, di nero, in quel giorno, ci sono soprattutto le condizioni di chi lavora nei settori travolti da questa corsa allo shopping compulsivo, in particolare il mondo dello shopping online e della logistica, ma anche quello più tradizionale della grande distribuzione commerciale (GDO), sul quale mi soffermo qui.
Il fatto stesso che nemmeno nel mezzo di una pandemia mondiale si sia ritenuto di dover sospendere la tradizione del venerdì santificato allo shopping e al profitto, la dice lunga sull’attenzione che l’intero settore della GDO riceve in questo periodo. Scene di assembramento dei locali commerciali ne abbiamo già viste, purtroppo, anche prima del Black Friday. Come l’assalto ai Lidl per le scarpe da ginnastica gialle e blu. Scene surreali, in violazione di ogni buon senso, prima ancora che del rispetto delle norme sanitarie, a prescindere da quale sia il colore delle regioni. E il problema oggi è soprattutto in prospettiva, con l’avvicinarsi del Natale, di cui questo Black Friday rischia di essere una sorta di prova generale.
Facciamo un passo indietro. Quando scoppiò l’epidemia, nei primissimi giorni di marzo, nella GDO persino le mascherine erano un lusso e ci furono persino casi di commessi e commesse riprese o addirittura sanzionate perché pretendevano di indossarle, mentre alcuni direttori di supermercato ritenevano che spaventassero i clienti. Poi, via via, in colpevole ritardo, arrivarono le mascherine obbligatorie, il gel disinfettante, i guanti, il plexiglass alle casse e soprattutto gli ingressi contingentati. Il ritardo in realtà fu proprio criminale, perché in quei primi giorni, soprattutto in Lombardia, all’annuncio delle chiusure, i supermercati furono letteralmente presi d’assalto, con scene apocalittiche, al limite dell’assurdo.
Il rispetto delle norme e l’accesso ai DPI, in alcune realtà, ha continuato comunque a essere problematico, soprattutto in quelle più piccole e non sindacalizzate. D’altra parte, a marzo, le mascherine non arrivavano nemmeno al personale sanitario e delle RSA, che stava direttamente a contatto con i malati di covid. Non potrò mai dimenticare, quando, a un certo punto, a marzo, il sindaco di Bergamo fu costretto a fare appello alla Protezione Civile in televisione per far arrivare le mascherine all’ospedale Papa Giovanni XXIII, che allora era l’epicentro di una vera e propria catastrofe umanitaria. Se le mascherine mancavano in ospedale, potete immaginare quale poteva essere la situazione in un qualsiasi supermercato…
In queste settimane, la situazione è ancora diversa. Le regole bene o male ci sono. Ma anche nelle zone rosse (che di rosso in realtà hanno ben poco e via via ridiventano arancioni), i controlli sono sempre meno e le restrizioni vengono di fatto vissute “con meno apprensione”, diciamo così. A partire dagli accessi. Tant’è che non si vedono più le file per entrare nei supermercati, come a marzo.
Eppure, in questi mesi, se una cosa si doveva imparare è proprio che servono più controlli, non meno, perché, ahinoi, non possiamo contare su una diffusa educazione civica al rispetto delle norme. Se c’è, d’altra parte, chi può togliersi la mascherina persino in Parlamento, come se niente fosse, figuriamoci cosa accade in un supermercato.
In queste settimane, più volte i lavoratori e le lavoratrici della GDO sono stati costretti a denunciare cosa accade all’interno dei negozi ancora aperti e nei supermercati. Scene di ordinaria follia, dal continuo “signora, mi scusi, deve indossare la mascherina” a clienti che ti starnutiscono addosso o che pagano dopo aver contato i soldi leccandoli con le dita. Fino a scene di vero e proprio bullismo da parte di clienti maleducati e insofferenti a ogni regola, pronti ad attaccare briga con chi prova a farle rispettare. Cioè molto spesso proprio con chi lavora, perlopiù abbandonato, se non sanzionato, dalle stesse direzioni, a cui spetterebbe invece l’onere di controllare cosa accade nei reparti.
Così, chi lavora, gli stessi che dicono buongiorno e buonasera centinaia di volte al giorno, sono ora costretti anche a fare i conti con lo stress di dover fare i controllori, subendo spesso la maleducazione e l’ostracismo dei clienti, che NO, non hanno sempre ragione.
Attenzione però, la maleducazione diffusa e purtroppo la cultura negazionista di tanti sono un dato di fatto. Però il problema è a monte. Cioè nelle normative e soprattutto nei controlli, tanto più ora che, dopo aver santificato questo Black Friday si corre spediti come un treno verso le sciagurate riaperture per il Natale. Per non parlare delle responsabilità delle imprese, a cui di fatto è lasciata la libera interpretazione dei protocolli, l’onere di controllare il rispetto delle norme e anche il tracciamento di eventuali casi positivi e la relativa sanificazione dei locali.
Sentite cosa è accaduto in un Penny Market in Piemonte, fatto denunciato dal sindacato. La moglie di un dipendente manifesta sintomi di covid, fa il tampone e risulta positiva. Il marito, che lavora nel supermercato, nel rispetto della legge e del buon senso, per non diffondere ulteriormente il virus, comunica immediatamente all’azienda l’accaduto e inizia l’isolamento in attesa del tampone. Penny Market ignora l’accaduto, non lo comunica ai colleghi, che pure hanno lavoratori con lui a stretto contatto per giorni e non applica nessuna delle misure previste per il contenimento. Il punto vendita non viene chiuso, quindi non si capisce come e quando siano state fatte le dovute sanificazioni. Nessuno dei colleghi viene posto in isolamento. E per di più la direzione continua a spostare i dipendenti, così denuncia il sindacato, da un punto vendita all’altro, con il rischio di diffondere il virus anche in altre zone.
Di casi come questo ne trovate a decine in una pagina Facebook molto frequentata, gestita interamente da lavoratrici e lavoratori del settore: @Chiudere i centri commerciali le domeniche i giorni festivi. Nata qualche anno fa, proprio per protestare contro le aperture domenicali e festive, è diventata nel corso di quest’anno un vero e proprio sportello online di denuncia di continui fatti di mancato rispetto delle norme sanitarie, con tanto di immagini di assembramento inequivocabili. La pagina, che ha recentemente subito delle limitazioni da parte di Facebook (evidentemente dà molto fastidio alle grandi catene della GDO), raccoglie ogni settimana decine di messaggi di denuncia da parte di lavoratori e lavoratrici che, nella maggior parte dei casi, chiedono di restare anonimi, a causa evidentemente delle condizioni di forte precarietà del sistema e di strutturale ricatto, anche determinato dal diffusissimo uso del part time involontario.
Ne trovate a decine di questi messaggi. Eccone qualcuno.
“Ciao, vorrei rimanere nell’anonimato. Lavoro all’iper Carrefour di Pavia, abbiamo positivi. Che io so, sono 6. Più altri che ci tengono nascosti. Non sono state isolate le persone che sono state a contatto con loro. In più tra pochi giorni la nostra grande azienda ha deciso di fare l’inventario. Verranno persone apposta per contare. Tutte persone da fuori, ovviamente, senza nessun controllo”.
“Salve, vorrei restare anonima. Anche da noi a Mondo Convenienza la stessa storia. Inizio pandemia, manager positivo, ci hanno nascosto tutto, fin quando non hanno fatto il lockdown. Solo allora sono spuntati fuori altri colleghi positivi, come funghi. È una vergogna che hanno chiuso i centri commerciali, ma grandi negozi come noi no. Il fine settimana è pieno di gente. Il direttore fa entrare gente di continuo, fregandosene altamente degli assembramenti”.
“Buongiorno, vorrei rimanere anonima per non rischiare ritorsioni. Sono una dipendente Esselunga, anche da noi ci sono casi di positività gestiti senza mettere in quarantena nessuno, senza sanificare i locali… siamo in balia di gente che pensa solo al profitto”.
“Ciao, preferisco rimanere anonimo. Anche nel negozio dove lavoro io ci sono casi di covid che l’azienda preferisce insabbiare. È una vergogna, noi siamo stati abbandonati, pensate che io lavoro pure senza plexiglass in cassa, perché rotto e mai riparato. Tante volte ho chiesto di sistemarlo, ma è ancora lì in un angolo”.
“Buongiorno, per ovvie ragioni vorrei rimanere anonima. Anche nel Bennet dove lavoro io, provincia di Pavia, ci sono 4 casi accertati di covid ma per noi nessun interesse. Solo turni in più per sopperire alla mancanza di chi è a casa con il covid. Siamo allo stremo. In più per noi, inizia il periodo più brutto dell’anno”.
Ne trovate a decine. Fermatevi però su questa frase: per noi inizia il periodo più brutto dell’anno.
Ecco, dopo questo fottutissimo Black Friday, fermatevi. Andate su questa pagina, leggete questi messaggi. Leggeteli, rileggeteli, rileggeteli un’altra volta. Lo dico certamente a chi frequenta i centri commerciali senza alcun rispetto di chi ci lavora (e per inciso senza alcun rispetto nemmeno della propria salute).
Ma soprattutto lo dico alle istituzioni. Non abbiamo bisogno di salvare il Natale. Non abbiamo salvato nemmeno il 25 aprile e il 1 maggio se è per questo. Abbiamo bisogno di salvare le persone, di tutelare la salute pubblica, di salvaguardare chi lavora. Anche perché, parliamoci chiaro, non ve ne frega niente di salvare il Natale. Vi interessa soltanto salvare lo shopping natalizio e il giro d’affari che c’è dietro.
E lo dico anche al sindacato, non soltanto alle istituzioni. Venerdì, in risposta al Black Friday, la Cgil ha fatto il suo Red Friday, sulla piattaforma online. Una sorta di dibattito pubblico. Bene, per carità. Ma abbiamo bisogno di ben altro. Abbiamo bisogno di mobilitare tutto il mondo del lavoro, a tutela di questo settore e non soltanto. La salute viene prima di qualsiasi interesse economico. Se non vogliamo finire in una altrettanto certa terza ondata (certa quanto lo è stata la seconda) dobbiamo pretendere che quest’anno il Natale sia senza piste da sci e shopping compulsivo. È il regalo più grande che ci possono fare. A tutti noi e a chi lavora nella GDO.
Al sindacato chiedo anche un’altra cosa. Questi lavoratori e lavoratrici non si sono mai fermati, da marzo, quando, in alcuni territori, anche soltanto uscire di casa era un rischio. Questi stessi lavoratori e lavoratrici “essenziali” hanno un contratto nazionale scaduto da quasi un anno, dopo proroghe, sospensioni, frammentazione dei tavoli di trattativa tra Federdistribuzione, Confcommercio, cooperative etc etc. E soprattutto hanno avuto negli ultimi sei anni aumenti da fame. In queste settimane hanno scioperato i metalmeccanici, gli addetti alle pulizie, sciopereranno i lavoratori del settore pubblico, prima hanno scioperato quelli dell’industria alimentare, che infatti, nonostante le difficoltà sono riusciti a rinnovare il loro contratto nazionale. Quando arriva finalmente il turno della GDO? Ricordiamoci che le imprese del settore, in particolare quelle della distribuzione alimentare, hanno aumentato esponenzialmente i loro profitti in questi mesi.
Ecco, quindi, a me va bene pure il Red Friday, ma soltanto se ad esso seguono iniziative reali e urgenti di mobilitazione del settore.
Chiudo, mandando la mia solidarietà a quei lavoratori e lavoratrici del settore che, dopo essere stati mandati al massacro per consentire che la distribuzione alimentare andasse avanti in piena pandemia e non dovesse mai fermarsi, sono poi stati messi in un angolo e dichiarati esubero. È il caso di tanti lavoratori e lavoratrici di Auchan, ora acquistato dal gruppo Conad. Come quelli dello storico ipermercato di corso Romania a Torino, il primo Auchan aperto in Italia 31 anni fa. Hanno manifestato qualche giorno fa, con Filcams Cgil, Uiltucs e Cub contro i 100 esuberi dichiarati da Conad: “154 salvati, 106 annegati”. Evidentemente per i nuovi proprietari, chi lavora, anche chi in piena pandemia è stato costretto a essere essenziale, ora vale meno delle merci sugli scaffali. Tenete duro, siamo con voi.