La partita dei contratti nazionali di lavoro

di Eliana Como

Quando in primavera è esplosa la crisi sanitaria in Italia, soprattutto nelle regioni più industrializzate del nord, le pressioni degli imprenditori per non fermare l’economia sono state feroci. Il profitto non doveva fermarsi, anche se questo comportava mandare al massacro i lavoratori e le lavoratrici, mettendo a rischio le salute di interi territori. Prima che il governo finalmente decretasse il lockdown delle attività produttive, il 22 marzo, il virus ha potuto continuare a diffondersi, anche a causa di questa dannata scelta. Nella provincia più colpita dal Covid, Bergamo, dove vivo, che è anche una delle zone più densamente industrializzate e manifatturiere d’Italia e d’Europa, sono morte 6100 persone in 2 mesi, circa il 700% in più del normale. 

Quegli stessi padroni, in larga parte metalmeccanici, che, in quei mesi, in modo scellerato e irresponsabile, hanno anteposto il loro interesse alla nostra salute, ora chiedono il conto sul piano economico e salariale. Conto che la gran parte dei lavoratori e delle lavoratrici ha già pagato, tra cassa integrazione (che copre mediamente solo poco più della metà del salario) e centinaia di migliaia di licenziamenti dei precari. 

La Confindustria ha apertamente dichiarato guerra al sindacato, attraverso il suo neo eletto presidente Bonomi, proveniente proprio dalla Confindustria della Lombardia, cioè quella che ha avuto le maggiori responsabilità sulle forzate aperture delle fabbriche in pieno Covid. 

Il nuovo «falco» degli industriali ha attaccato in modo esplicito i contratti nazionali, che in Italia sono storicamente il principale strumento di definizione dei salari, oltre che dei diritti, dell’orario e delle condizioni di lavoro.

La Confindustria parte avvantaggiata, visto che in questi anni i contratti nazionali sono andati via via indebolendosi e già oggi hanno perso gran parte di quella forza che storicamente avevano, a causa dei continui cedimenti da parte delle organizzazioni sindacali confederali ma anche della sempre maggiore precarizzazione del mondo del lavoro e della sua frammentazione in appalti e subappalti. 

Nel 2018, a seguito di un disastroso rinnovo contrattuale dei metalmeccanici (la categoria che nel passato era stata invece traino della contrattazione), la Confindustria ha incassato l’approvazione di un modello contrattuale (il «Patto per la Fabbrica») che di fatto ingabbia il salario, legandone l’aumento all’andamento dell’inflazione (peraltro depurata dai costi energetici, quindi più bassa di quella che realmente grava sulle tasche dei lavoratori). Di fatto, con questo meccanismo si tengono i salari fermi (o poco più), mentre si sostituiscono gli aumenti in denaro con il welfare aziendale (polizze sanitarie e pensionistiche, ma anche buoni spesa o benzina), che alle imprese costa meno e non ha effetti sulle future pensioni dei lavoratori. L’eventuale redistribuzione della ricchezza viene così limitata alle poche imprese in cui il sindacato riesce a contrattare direttamente in azienda (mediamente sono però solo il 20% del totale) e comunque in modo variabile e perlopiù legato alla produttività. 

I sindacati di alcuni settori, nonostante questo modello, sono riusciti in questi due anni a ottenere qualcosa di più dai loro contratti nazionali, seppure all’interno di una dinamica di forte moderazione salariale e perlopiù in cambio di diritti sugli aspetti normativi. Chi ha subito per intero il modello contrattuale sono i metalmeccanici che in 4 anni hanno visto i loro salari aumentare di soli 40 euro al mese, persino meno degli adeguamenti previsti per le pensioni. 

Ora però i nodi vengono al pettine per tutti i lavoratori e le lavoratrici, con Confindustria che reclama il rispetto del «Patto per la Fabbrica» sui salari. Il tutto mentre mette in discussione la natura stessa del rapporto di lavoro e la relazione tra salario e orario di lavoro, approfittando anche della diffusione a causa del Covid dello smartworking (in emergenza, quindi senza regole) e della pericolosa destrutturazione della prestazione di lavoro che esso rischia di determinare. 

Questa partita, legata al salario e ai contratti nazionali, è oggi al centro della vicenda sindacale. Anche perché, in questo momento, interessa circa 10 milioni di lavoratori e lavoratrici che aspettano il rinnovo del proprio contratto nazionale, alcuni con ritardi di anni. Nel settore privato: i metalmeccanici, il commercio, la logistica, le attività socio-assistenziali, i multiservizi (perlopiù le attività in appalto di pulizie e servizi alle imprese), le telecomunicazioni, le assicurazioni, l’industria del legno, quella tessile, le ferrovie etc. A questi, si aggiungono tutti i lavoratori e le lavoratrici del pubblico: enti centrali, sanità, scuola, università e ricerca, ministeri, pubblica amministrazione etc. 

I lavoratori del settore della gomma-plastica hanno invece appena firmato il loro contratto, con un aumento però molto basso, poco superiore all’inflazione e saltando per intero il 2020 per il quale non hanno avuto niente.

Recentemente sono stati firmati anche i contratti dell’industria alimentare e della sanità privata (quest’ultimo dopo un ritardo di ben 12 anni), boicottati però subito dopo da molti imprenditori dei due settori che hanno tolto la loro adesione da quei contratti per sceglierne altri più «convenienti» (nonostante il sindacato lo chieda da tempo, non c’è una legge che imponga alle aziende di applicare un contratto nazionale invece di un altro e, da tempo, sono sempre più numerosi i contratti firmati da «sindacati pirata» per far risparmiare  le imprese). 

Insomma, la posta in gioco è alta e riguarda non soltanto il salario e i diritti di 10 milioni di lavoratori e lavoratrici, ma il ruolo stesso del contratto nazionale. Peraltro in una situazione molto complicata, a causa della crisi economica ma anche per le difficoltà di mobilitazione e della stessa attività sindacale a causa dalle norme anti Covid (persino fare le assemblee nei luoghi di lavoro è diventato difficile). Il tutto mentre sempre più imprese disdettano anche la contrattazione aziendale. 

Alcune categorie hanno già dichiarato iniziative di mobilitazione, ma il punto di scontro maggiore in questo momento è quello dei metalmeccanici. Da pochi giorni Federmeccanica (l’associazione dei padroni metalmeccanici) ha fatto saltare la trattativa, in corso da quasi un anno e ferma per mesi a causa del Covid. Lo scontro esplicito è sul salario. Da un lato, i padroni che non vogliono dare aumenti in denaro ma solo welfare aziendale, spostando la contrattazione a livello di singola fabbrica. Dall’altro i tre principali sindacati che, per ora unitariamente, chiedono finalmente aumenti veri, per una categoria che da cinque anni ha salari praticamente fermi. 

Lo scontro non è solo di merito, ma anche ideologico, soprattutto da parte delle imprese, che si sentono ben rappresentate da Confindustria e dal suo falco «Bonomi». 

I sindacati hanno proclamato lo stato di agitazione (blocco dello straordinario) e lo sciopero di 4 ore il 5 novembre, da aumentare a 8 dove ci siano le condizioni. Non sarà facile creare un clima di lotta, ma finalmente le tute blu tornano a mobilitarsi. 

Mi auguro che queste iniziative siano solo l’inizio, perché il punto vero sarà dare continuità sul lungo periodo a una vertenza sulla quale si gioca un vero e proprio scontro di classe. Consapevoli anche che i tre sindacati non hanno la stessa capacità di tenuta e che la stessa Fiom (quello più capace di mobilitare i lavoratori) sconta errori davvero grandi negli ultimi anni, a partire dall’accettazione del precedente sciagurato contratto che, di fatto, ha aperto la strada al modello salariale che ora i padroni pretendono. 

Se la vertenza dei metalmeccanici diventerà una lotta in grado di risvegliare il movimento sindacale in Italia lo vedremo. La condizione è difficile, illudersi non serve a molto. Lavorare per far crescere un clima di rabbia e rivendicazione ora è l’unica cosa da fare. Ricordando che a marzo, quando le imprese non volevano fermare la produzione per il Covid e il governo non interveniva, sono stati gli scioperi spontanei a determinare la chiusura di tante fabbriche e a portare poi la stessa Fiom a alzare il livello conflittualità. 

Quello che soprattutto servirebbe ora è una iniziativa complessiva di tutto il sindacato confederale, per mettere insieme le varie vertenze contrattuali, unire le singole iniziative di lotta e creare un clima di mobilitazione generale di tutto il mondo del lavoro, come reazione al pesante attacco di Confindustria. 
A oggi questo non c’è e il sindacato, a partire dalla Cgil, ha di fatto scelto la strada della moderazione e della concertazione, sperando di ottenere qualche briciola dal governo, attraverso la riduzione delle tasse sugli aumenti salariali. Cosa decisamente sbagliata, primo perché è lo stesso governo che si è inchinato alla Confindustria quando, per non fermare la produzione, non ha disposto la «zona rossa» nelle aree più a rischio per il Covid. Secondo, perché, questo farebbe pagare alla collettività e allo stato sociale quella redistribuzione della ricchezza che i padroni non vogliono fare. Se c’è una cosa che il Covid dovrebbe aver insegnato è che lo stato sociale, a partire dalla sanità pubblica, non si tocca.

I contratti e il salario pretendiamolo dai padroni. A partire dalle lotte dei metalmeccanici, che, nonostante le difficoltà, rappresentano una possibilità di rialzare la testa dopo tanti anni. Speriamo non vada di nuovo sprecata. 

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