Il marxismo rivoluzionario e il dibattito sul potere

di Néstor Kohan (a proposito della prossima riedizione di Mario Roberto Santucho, Poder burgués y poder revolucionario. Trad. di Titti Pierini ) Pubblichiamo ampi stralci dell'articolo di Néstor Kohan, autore di Toni Negri e gli equivoci di Impero. La versione integrale dell'articolo in Italiano si trova sul sito Movimento Operaio.

Riappare un fantasma, ancora senza corpo

roby0509L’attualità del pensiero politico di Mario Roberto Santucho [1936-1976], colpisce, sorprende, disorienta. Nell’Argentina del XXI secolo, trent’anni dopo il suo assassinio ad opera della dittatura militare (che ne fece sparire il cadavere) insieme a 30.000 compagni e compagne, il fantasma di Santucho riappare ovunque. Che cosa sta accadendo? Perché attrae l’attenzione?

Attualmente un’infinità di libri e di pellicole cinematografiche (tra cui spicca l’impareggiabile Gaviotas Blindadas [“Gabbiani blindati”] – storia del PRT-ERP) cercano di ripensare e di discutere la strategia politica della rivolta guevarista del PRT-ERP e soprattutto il pensiero politico del suo massimo dirigente.

[…]

In questo quadro d’epoca e con questo orizzonte di fondo, tornare a pubblicare Poder burgués y poder revolucionario (“Potere borghese e potere rivoluzionario”) scritto da Santucho nel 1974, costituisce una decisione più che azzeccata.

Riscattare il pensiero politico di Robi Santucho implica oggi l’attualizzazione di una tradizione schiacciata e dimenticata, tornando a mettere in discussione la centralità del progetto di potere nel campo popolare e rivoluzionario. Il grande tema assente dall’agenda dei movimenti sociali nel corso dell’ultimo trentennio.

La ribellione del 2001, le mode e l’assenza di una strategia di potere

Il progetto e la strategia di potere ha costituito – e continua a costituire – il nostro grande deficit, ancora pendente. Nella stessa ribellione popolare del 2001(il punto storico di maggiore rivolta sociale collettiva dopo la dittatura militare), il problema e la strategia di potere furono assenti nelle file di quanti di noi pretendevano di cambiare la società. Contribuirono a questo sia l’evidente vuoto di una strategia di lotta di lungo periodo da parte delle diverse varianti di una sinistra istituzionale con aspirazioni elettoral-parlamentaristiche sia le narrazioni postmoderne e autonomistiche di alcune frange di piccola borghesia universitaria innamorata di se stessa (mentre sospira per il Maggio francese) che immaginava con non poca ingenuità che l’assemblea di vicinato del Parque centenario fosse qualcosa di analogo (e addirittura in grado di superarlo “orizzontalmente”…) al soviet di San Pietroburgo all’epoca di Lenin e Trotskij o ai consigli operai della FIAT di Torino ai tempi di Gramsci.

Questo spirito “autonomo” [ovviamente nel senso di influenzato dalla “autonomia operaia”], che emerse nel 2001 con tanto di grancassa (con il plauso, sia detto di passata, dei quotidiani Clarín e La Nación, che gli dedicarono vari supplementi culturali inneggianti a Toni Negri, Paolo Virno e John Holloway, tra tanti altri), fece molto danno, deviando sane energie popolari e genuine buone intenzioni giovanili verso vicoli ciechi. Fantasticando e idealizzando, senza conoscere a fondo, lo zapatismo (quello dei turisti progressisti), l’autonomia creola non si è mai preoccupata di chiedersi, ad esempio, come mai le comunità originarie del Chiapas, dovendosi identificare politicamente, avessero scelto il nome storico di Emiliano Zapata anziché autobattezzarsi con qualche vezzoso e attraente nome di ONG altermondialista europea.

La ribellione popolare del 2001 e la sua famosa parola d’ordine “Que se vayan todos [Se ne vadano tutti]” condensarono una notevole crisi di rappresentanza politica, mentre mettevano in evidenza il simulacro di autentica democrazia esistente in Argentina dopo l’ordinata ritirata dei militari genocidi sconfitti alle Malvine. Pur con varie decine di giovani eroici assassinati per strada e un’energia popolare generosa e sommamente valorosa, la ribellione popolare mancò purtroppo di un progetto rivoluzionario di potere… o forse il calzaturificio nel quartiere, la microimprenditoria e la saletta di primo soccorso – costruiti con enormi sforzi – erano e sono sufficienti a demolire lo Stato capitalista e le sue istituzioni? Il risorgere del Partito giustizialista dalle proprie ceneri e l’egemonia kierchnerista di un decennio hanno data per cancellata rapidamente quella discussione.

Non è casuale che molti di quegli autonomi, arroganti e superbi, del 2001, in apparenza “radicali” e con atteggiamenti furiosamente anticapitalisti (a parole, solo nella retorica) all’epoca decretassero allegramente: “il Che e Lenin sono vecchi” e “il marxismo non serve più”, mentre oggi… sono obbedienti funzionari governativi. Niente di più istituzionale dell’autonomia che, quando vuole sedurre e innamorare, utilizza idiomi, atteggiamenti e lessico anarchici e libertari ma, all’atto di concretizzare, finisce sempre irretita nelle appiccicose ragnatele del riformismo istituzionale di turno. Non è forse finito il povero Toni Negri, tanto “comunista e radicale” nel suo linguaggio di Impero e così timorato nei suoi corollari politici, a intervistare e a far da consigliere di tutti i presidenti progressisti del Cono Sud?

E se l’autonomia di Negri, Virno e loro derivati ha fatto promesse e defraudato giovani energie a destra e a manca, che cosa non si potrebbe dire del postmodernismo e del postmarxismo di Ernesto Laclau? Triste il ruolo di consigliere presidenziale! Laclau ha sostituito Jorge Abelardo Ramos con Cristina Kierckner, grazie alla mediazione dell’Accademia britannica e al suo altezzoso prestigio, ma conserva immutato il ruolo di consigliere del principe. Ed Eliseo Verón, consigliere semiologico dei grandi monopoli dell’incomunicazione? E Dieterich, dove se ne andrà a consigliare agli operai ad abbracciarsi con qualunque militare, convinto che chiunque nel mondo indossi un’uniforme sia sempre antimperialista e socialista come Hugo Chávez? E Žižek, quando abbandonerà la messa in scena e i suoi trucchi di prestigiatore e illusionista teatrale per suggerire al movimento popolare qualche percorso strategico preciso, quale che sia, grazie al quale avanzare verso il socialismo?

Mentre questi astri della farandola intellettuale – postmodernismo, autonomia, post-marxismo, post-strutturalismo, multiculturalismo, ecc. – hanno esaurito i loro inoffensivi cinque minuti di fama (cercando poi di riciclarsi con nomi più attraenti come “autogestione”, “nuova sinistra”, “cooperativismo”, ecc.), la prospettiva del marxismo latinoamericano continua a disturbare, importunare, molestare, mettendo il dito sulla piaga. Niente di più odioso e insopportabile del Che e di Santucho ( e del maestro di entrambi, Lenin) per il mondo degli imprenditori, dei banchieri, delle spie nordamericane e dei loro apparati repressivi e di massiccia sorveglianza. Le mode sfilano e passano, fugaci ed effimere come tutto il resto delle merci da shopping in questo crudele, impietoso e accelerato tardo-capitalismo , mentre il marxismo rivoluzionario è ancora lì ed affila con molta pazienza il coltello e la falce. La borghesia lo sa. Noi anche.

L’epoca del Che e di Santucho e la nostra

Di fronte al fallimento politico e teorico delle illusioni postmoderne e di altre analoghe metafisiche,[1] torna a brillare la stella insorgente di Guevara e Santucho. Ovviamente, saremmo ciechi se non cogliessimo che l’epoca in cui agirono e pensarono Guevara e Santucho era molto diversa dalla nostra. Tra il mondo politico, economico, sociale e culturale del Che e di Robi e il nostro esistono continuità ed anche non poche discontinuità.

Quando vissero Guevara e Santucho il pianeta aveva una struttura geostrategica bipolare. Anche se lo scontro strategico era tra il socialismo e la rivoluzione socialista di liberazione nazionale del Terzo Mondo (ad esempio: Vietnam e Cuba), esistevano due grandi superpotenze: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, entrambe con un analogo potenziale nucleare, anche se non arrivò mai ad essere uguale. L’Unione Sovietica, pur burocratizzata e scommettendo strategicamente sulla cosiddetta “transizione pacifica” al socialismo (esperimento che si cercò infruttuosamente di portare avanti in Cile tra il 1970-1973), poteva giocare il ruolo di riserva, somministrando materiale bellico ad altri paesi in lotta e in prima linea di scontro (come nel caso del Vietnam, di Cuba o dell’Angola).

In quegli anni si viveva il tentativo di avviare la transizione dal capitalismo al socialismo su scala planetaria (almeno un terzo della popolazione mondiale cercava di uscire dal capitalismo, indipendentemente dal fatto che si scontrava con la burocratizzazione di numerosi processi rivoluzionari).

[…]

La nostra epoca mantiene alcune chiare continuità e altre che non lo sono. Il mondo attuale non è più bipolare. Il potere militare strategico degli Stati Uniti non ha di fronte nessuna potenza che possa affrontarlo apertamente sul terreno militare. Senza l’Unione Sovietica, non esiste attualmente alcuna “riserva strategica” (burocratica o meno) che possa opporsi seriamente sul piano geostrategico agli USA e alla NATO. Quando nel 1999 gli USA e la NATO bombardarono l’ambasciata cinese in Yugoslavia (utilizzando carte della CIA), il gigante asiatico rimase completamente pietrificato (probabilmente pensando ai suoi affari). Militarmente non poteva affrontarli.

Al tempo nostro, l’asimmetria tecnologica tra l’imperialismo euro-nordamericano e le forze rivoluzionarie del Terzo Mondo allarga ogni giorno la sua breccia. Per questo l’imperialismo si muove nel modo più aggressivo che mai, cercando di attenuare la propria crisi economica e sociale interna con una sorta di “keynesismo militare” e uno Stato sempre più poliziesco e repressivo. Il Maccartismo, già presente negli anni Cinquanta e risorto negli anni Ottanta del Novecento oggi si moltiplica in modo esponenziale, sotto la maschera del “multiculturalismo plurale” e le sue “guerre umanitarie”. Mentre nelle Accademie universitarie le filosofie e le discipline sociali plaudono al presunto “diritto alla diversità” trasformandolo in nuova metafisica, nella vita di ogni giorno assistiamo a maggior vigilanza, controllo e totalitarismo su scala mondiale.

I cambiamenti non si verificano soltanto sul piano della tecnologia bellica, e dei dispositivi di vigilanza informatica e di controllo comunicativo. È Impossibile nascondere un certo cambiamento della sensibilità culturale delle soggettività popolari. La frammentazione sociale (che è reale e che non neghiamo, anche se il postmodernismo la interiorizza assumendola come propria e la eleva a programma facendo di necessità virtù, omettendo l’inganno naturalista, passando da ciò che È a ciò che DEVE ESSERE) crea maggiore difficoltà per l’egemonia socialista e la prospettiva del potere rivoluzionario, cercando di delegittimare la violenza popolare, plebea e anticapitalista.

Queste “macro” trasformazioni (geostrategiche e tecnologiche) si aggiungono, nel caso specifico della Nostra America, mutamenti politici nella rivoluzione cubana, stella indiscussa del movimento rivoluzionario ai tempi del Che e di Santucho (quando si scrisse il Poder burgués y poder revolucionario). Per questo oggi il movimento rivoluzionario latinoamericano e del terzo Mondo manca di “fari” o di “Stati guida”. Si affievolisce la possibilità di contare su aiuti esterni alle nostre lotte, anche se al tempo stesso si amplia la libertà di movimento per le forze antimperialiste e anticapitaliste. Per questo aumentano le difficoltà e al tempo stesso le sfide per costruire una nuova articolazione e un nuovo coordinamento internazionale della rivolta antisistema.

La differenza d’epoca, che non si può nascondere se ci si attiene a un minimo di criterio di realtà e non si sia illusoriamente affascinati dal proprio stesso discorso, si verifica in una fase del capitalismo imperialista che approfondisce al tempo stesso la miseria popolare, il supersfruttamento della classe operaia, la dipendenza neocoloniale e le guerre di rapina e saccheggio per le risorse naturali del Terzo Mondo.

Siamo ben lungi da un mondo armonioso, stabile e in pace. Oggi c’è più violenza che non negli anni Sessanta e Settanta; il problema è che questa violenza predominante è istituzionale, statale, multinazionale, imperialista. Manca una maggior risposta popolare che possa affrontarla dopo tanti genocidi che hanno cercato di disciplinare la disobbedienza di quelli che stanno in basso. In ogni modo, la resistenza non è sparita. Giorno per giorno, continua il tentativo del popolo iracheno di buttar fuori le truppe statunitensi che lo umiliano e ne sfruttano il petrolio. Il popolo palestinese non ha cessato di battersi contro i carri armati israeliani. I giovani dei popoli basco, catalano e della Galizia sperimentano mille forme, istituzionali e clandestine, per disobbedire e farla finita con l’ignominia della dominazione neofranchista dello Stato spagnolo (presentata come “repubblicanesimo”, anche se con picaňa e varie altre torture). In Colombia, il movimento popolare, organizzato a partire dal terreno sociale ed elettorale per arrivare ad eserciti rivoluzionari regolari bolivariani su grande scala, ha ogni giorno più forza nella sua lotta contro le basi militari nordamericane, il paramilitarismo e il narcotraffico. In Messico, la resistenza indigena, così diversa dall’immaginario hippy dei turisti progressisti che vanno a vederla con un libro postmoderno sottobraccio mentre cercano di costringerla nel letto di Procuste dei loro schemi scolastici, non è riuscita ad essere annullata dallo stato narcopoliziesco al servizio delle grandi imprese. In Brasile, mentre tutti pronosticavano eterna sottomissione alle grandi imprese che vogliono restare in Amazonia, milioni di persone scendono in piazza e cercano di modificare tutto questo (il papa argentino arriva allora in fretta a calmare le acque, anche se certamente non ci riuscirà). E in Venezuela il bolivarismo, con non poche contraddizioni, ha messo in moto tutta una serie di meccanismi di integrazione regionale sfidando la struttura dell’OEA (marionetta degli Stati Uniti), mentre su scala continentale riprende il dibattito su che cosa significa il socialismo del XXI secolo (cooperativismo con credito petrolifero statale? Economia mista sotto l’elegante formula dell’“autogestione” che chiede solo “un goccetto di petrolio” per ogni impresa, oppure una pianificazione socialista a livello nazionale e regionale, espropriando le borghesie, comprendendovi non solo quella “squallida” [cioè delle opposizioni di destra] ma anche quella che si maschera ingannevolmente da “bolivariana”? Il dibattito continua ad essere aperto anche dopo la morte di quel ribelle sviscerato che era Hugo Chávez che, pur senza contare su nessuna superpotenza militare alle sue spalle, ha saputo sfidare il padrone del mondo, testa a testa e con grande coraggio politico).

In sintesi, la rivolta sociale e l’indisciplina contro il capitale, contro l’oppressione nazionale e contro l’imperialismo non sono scomparse, si sono moltiplicate nel XXI secolo.

In questo contesto di resistenza e contestazione generalizzata, le contraddizioni economiche, sociali ed ambientali si sono acutizzate ben più che ai tempi del Che e di Santucho. L’attuale crisi capitalistica è notevolmente più acuta di quella del 1929 e di quella del 1974; ora è diventata sistemica e di civiltà. Non solo sul piano economico, delle borse valori e delle montagne russe del saggio di profitto, ma su quello dell’intera esistenza sociale di una civiltà capitalista planetaria che diventa giorno per giorno infrequentabile.

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Nel clima d’epoca, che puzza troppo di decomposizione, si verificano nuove guerre e interventi militari in cui l’imperialismo resta impantanato (Afghanistan, Irak, Colombia, ecc.), rendendo più aggressivo il sistema di dominazione che genera programmi di sorveglianza massiccia e di controllo dell’esistenza personale e privata inimmaginabile persino nei romanzi più cupi e pessimisti di un tempo (come 1984 di Orwell e altri simili), aprendo al tempo stesso la possibilità di uno scontro generalizzato tra le forze rivoluzionarie e quelle capitalistiche.

In questo nuovo quadro, i movimenti sociali del mondo gridano all’unisono e in forma disperata, dai rispettivi Fori sociali: “Un altro mondo è possibile!”. Bene, ma quale? Il marxismo radicale e rivoluzionario di Guevara e di Santucho non hanno equivoci: è e deve essere il socialismo non solo come progetto politico internazionalista ma anche come nuova cultura e nuova alternativa di civiltà su scala planetaria. E un socialismo che non arriverà mai in modo automatico o evolutivo, “senza che nessuno ne soffra ed essendo amici ed amiche di tutto il mondo”, ma a partire dalle contraddizioni di classe, dalle guerre di liberazione e dalle rivoluzioni antimperialiste e anticapitaliste.

Santucho e il potere: il toro preso per le corna e il sale sulla coda della tigre

Pur prendendo nota di questi innegabili mutamenti d’epoca (visto che il nervo intimo del marxismo guarda all’analisi concreta della situazione concreta, non a ripetere parole d’ordine e schemi scissi dall’analisi del contesto), le tesi del libro di Santucho costituiscono un invito particolarmente stimolante.

La sua opera, Poder burgués y poder revolucionario, non si può trasformare in feticcio. Non è un saggio che fa da spartiacque nella storia del marxismo mondiale. Non ha mai avuto questa pretesa, come segnala lo stesso autore. Ma è certo il punto di partenza più maturo di una tendenza politica che è riuscita, nientemeno, a mettere in scacco e in crisi la stabilità, la dominazione e l’egemonia borghese in Argentina (stabilità della dominazione che i padroni assoluti di tutto chiamano, in modo ipocrita e cinico, “pace”). Questo testo emblematico contiene la riflessione di una corrente che aspirò non a modificare un po’ la nostra società ma a cambiarla dalle radici, con una radicalità politica (non solo discorsiva, come nel caso dell’autonomia postmoderna) che non si era mai vista nell’Argentina del XX secolo, né di certo nelle eroiche ribellioni – brutalmente massacrate a sangue e fuoco – della Patagonia Ribelle.

Quali sarebbero, allora, i grandi apporti e retaggi del Che e di Robi Santucho che oggi, in questa nuova fase storica, ci invitano a ripensare la ribellione popolare e le forme di dominazione capitalistica che cercano di neutralizzarla? Crediamo di non sbagliare individuando la tesi secondo cui senza strategia di potere non c’è rivoluzione possibile né trasformazione sociale di fondo.

Questo il nocciolo ardente del guevarismo che (tuttavia, per il momento) è assente nel movimento popolare argentino dal 1983 fino ad oggi.

Poder burgués y poder revolucionario appare qualcosa di più che un insieme di suggerimenti e può essere utile oggi per la sua chiara intenzione di rimettere la problematica del potere e della strategia rivoluzionaria al centro dell’agenda politica delle forze (diverse ed eterogenee) che aspirano a cambiare la società. Vi si condensa una ricerca nitida di un percorso diverso dal bipartitismo tradizionale argentino, riciclato con i nomi più vari, coniugando al tempo stesso la politica di unità nella lotta senza abbandonare la critica e il dibattito all’interno del campo popolare (li si inscrive la sua polemica contro il populismo, in particolare dei Montoneros, e del riformismo del Partito Comunista, correnti ideologiche che si sono protratte, riciclate e trasformate con altre denominazioni e altre organizzazioni negli ultimi trent’anni di regime parlamentare fino al giorno d’oggi).

Nel libro Santucho ci offre una visione specificamente politica della storia argentina ponendo soprattutto l’accento nell’analisi dell’alternanza ciclica tra il parlamentarismo (repubblica parlamentare come forma di dittatura borghese, sulla base de Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte di Marx) e il bonapartismo militare. In questo quadro colloca l’Esercito come il principale partito politico della borghesia argentina (non come un gruppo di violenti amanti della polvere da sparo, ma come un partito politico). Evidentemente negli ultimi trent’anni, con l’eccezione delle rivolte “carapintadas” [militari con i volti dipinti in nero] capeggiate dai grandi commedianti (mascherati da “antimperialisti”) Rico y Seineldin, gli Eserciti repressori hanno cambiato i loro ruoli dopo il genocidio del 1976 e i principali partiti della borghesia sono stati dalla parte della repubblica parlamentare, non del bonapartismo militare.

Ma l’analisi di Santucho non si limita al piano militare, come potrebbe far pensare una lettura ingenua (o disinformata). Nel suo testo appaiono esplicitamente richiamate, nome e cognome, le diverse forme della “egemonia della borghesia”,[2] sottolineando ad esempio il ruolo de “la stampa, la radio e la TV”, vale a dire dei grandi mezzi di comunicazione di massa come strumenti della dominazione ideologica.

L’intera sua analisi si inserisce nel quadro regionale e globale, segnalando la crisi del capitalismo argentino connesso al sistema mondiale. Qui Santucho fa suo il metodo dialettico dei Grundrisse di Karl Marx, secondo il quale occorre partire dalla totalità concreta del mercato mondiale per capire lo specifico sviluppo di una formazione economico-sociale dipendente, in questo caso l’Argentina, una tesi metodologica che già il PRT-ERP aveva richiamato nella sua polemica con Carlos Olmedo delle FAR nel 1970-1971. La posizione del PRT, che prolungava l’analisi del Che nel suo “Messaggio ai popoli del Mondo tramite la Tricontinentale”, proponeva una visione globale sul conflitto con l‘imperialismo. La lotta nazionale, paese per paese, era inevitabile, ma al tempo stesso parte di una battaglia più grande, di carattere antimperialista e internazionale. Così il PRT rispondeva a Olmedo – va chiarito che Santucho manteneva una grande stima personale nei suoi confronti, secondo quanto confida in una lettera spedita dal carcere alla sua prima compagna Ana Villareal, poi assassinata a Trelew – che il marxismo non è solo uno strumento metodologico, ma anche un’ideologia politica e una concezione del mondo. In quanto metodo, ideologia politica e concezione del mondo ha come meta la rivoluzione mondiale, quindi, deva analizzare il capitalismo come un sistema a una scala che va oltre la ristrettezza riduzionista del discorso nazional-populista.

Il saggio politico di Santucho ha come asse l’analisi del potere e dei rapporti di forza, comprendendovi le egemonie ideologico-politiche. Uno studio su quel che è “in alto” (la crisi del capitalismo argentino iniziata nel 1952 e della sua dipendenza dal grande capitale multinazionale, la sostituzione dei classici partiti della borghesia con il bonapartismo militare, quando entra in crisi la repubblica parlamentare) e un’analisi di qual che avviene “in basso” (polemica con il riformismo e il populismo, scorciatoie sbagliate che alla fine sottopongono il movimento popolare all’ingranaggio della lotta interborghese; emergere e crescere in maniera esponenziale della rivolta popolare in tutte le sue forme, legali e clandestine, a partire dal cordobazo del 1969).

Poder burgués y poder revolucionario tenta e si sforza di riflettere sulla famosa teoria di Lenin (arricchita anche da Gramsci e da altri classici del marxismo) sul doppio potere, ma non attraverso uno schema generico di scuola, quasi si trattasse di un tradizionale corso accademico di filosofia politica, ma assumendo come “base empirica” le specifiche condizioni storiche dell’Argentina dopo il cordobazo.

Lì compare dunque la sua tesi sul doppio potere e la strategia di potere popolare nel nostro paese, la costruzione dl potere locale a partire da zone liberate a confronto con le forze statali di repressione (qualcosa di ben diverso dal presunto “potere autonomo” di una panetteria o di una bottega di calzolaio in un quartiere come imprenditoria di sopravvivenza – con sussidio statale – per i settori ultra-pauperizzati della classe operaia disoccupata magicamente convertiti nei “nuovi soviet o consigli comunitari” che si presume “prefigurino il futuro comunismo”, come molti anni dopo propose, in modo ambiguo e illusorio, l’autonomia operaia).

La riflessione di Mario Roberto Santucho sul potere operaio e popolare comprende le forme di gestione (il testo analizza specificamente come esempi concreti a partire da vaste zone rurali in territori liberati dalla rivolta politico-militare fino a commissioni di vicinato urbano in una città o sindacati antiburocratici in villaggi di piantagioni di canna da zucchero) in scontro con l’impianto politico-istituzionale borghese, ma sempre inserite nella strategia di scontro armato con il potere dei capitalisti. La teorizzazione del potere popolare effettuata da Santucho contiene tutte le determinazioni abitualmente ripetute dall’autonomia (gestione tramite la partecipazione popolare, democrazia dal basso, ecc.), ma ne aggiunge altre che sono assenti nei racconti dell’autonomia e dei postmoderni, dal momento che non aggira mai la strategia di scontro con lo Stato capitalista e con le sue istituzioni. È questo il quid della questione, il nocciolo della pesca, “il tango essenziale” per riprendere la bella frase che amava scrivere David Viñas. La presenza di un’assenza (vale a dire: la strategia rivoluzionaria di potere) di cui l’autonomia, nelle sue svariate forme riciclate, dalla più grezza alle più raffinate, non si preoccupa. Il potere popolare per Santucho è un gradino verso lo scontro generalizzato con il potere dello Stato borghese, mai una scorciatoia “prefigurante” per eludere lo scontro e schivare (in maniera immaginaria) la violenza capitalista.

Il grande presupposto su cui basa la sua analisi non parte da elucubrazioni generiche e metafisiche estratte dai raffinati riferimenti filosofici del post-strutturalismo francese… ma da esperienze concrete e ben terrene di rivoluzioni storiche.

Per pensare il potere, il metodo della dialettica materialista è storico, non metafisico. Partiamo dalla storia, non dalle metafisiche “post”, le cui superlative ipostasi assumono regolarmente un nome diverso (ogni pensatore, a propria volta, si sente unico pastore del popolo eletto, la setta accademica che lo segue), ma l’operazione teorica presupposta è la stessa. Può chiamarsi Ideologia (nel tardo Althusser), Potere (in Foucault); Discorso (in Laclau); Differenza (in Darrida); Potere-potenza costituente (in Negri); Interpretazione (in Vattimo, prima della sua autocritica recente); Desiderio (in Deleuze e Guattari), ecc. ecc. Sempre scritto con le maiuscole…

Al momento di riflettere sul potere popolare, Santucho, seguendo i suggerimenti del Che e di Lenin, non elabora una nuova metafisica, isolando e ipostatizzando alcun segmento dei rapporti sociali eretto a primo motore dell’universo politico. No, al contrario, egli assume una prospettiva più modesta ma più concreta. Analizza processi storici, esperienze concrete in cui “coloro che stanno sotto” hanno cercato in vari modi di affrontare “quelli che stanno sopra”: Santucho richiama esplicitamente i processi rivoluzionari di Russia, Spagna, Cina e Vietnam, non presi come blocco omogeneo e uniforme – trasformato in schema universale – ma, al contrario, sottolineando le differenze specifiche e concrete di ciascuna situazione rivoluzionaria. Ad esempio, sostiene, in Russia il processo di doppio potere che apre una situazione rivoluzionaria durò appena nove mesi, fu relativamente breve. In compenso, nella rivoluzione e nella guerra civile spagnola si estese per oltre otto anni. Nel primo vinse il campo rivoluzionario, nell’altro la controrivoluzione.

Analizzando in concreto l’esperienza argentina, Santucho sostiene che, in concordanza con lo sviluppo disuguale che formò il capitalismo argentino in ciascuna delle regioni del paese, esiste uno sviluppo diseguale nelle forme del potere locale – forma specifica del doppio potere teorizzato da Lenin – a partire da successive sollevazioni (il cordobazo, il viborazo e altre grandi rivolte popolari dell’epoca da lui esaminata). che non si verificano tutte insieme, né omogeneamente, né allo stesso livello. Un’analisi piuttosto raffinata e per nulla schematica, attenta alla specificità regionale del capitalismo argentino e delle sue resistenze.

Un marxismo non decorativo

Robi Santucho non fu una figura dell’Accademia o del marketing. E di sicuro non esistono molte sue foto. Raccontano i suoi compagni e le sue compagne che parlava in tono piuttosto basso ed era molto umile (certamente l’antitesi del “porteño”, presunto saccente, altezzoso, vanitoso e petulante). Trascorse gli anni più significativi della sua vita adulta nella clandestinità e nell’anonimato. Non lavorò per se stesso ma per una causa infinitamente più grande del suo proprio ombelico. Pur essendo di professione ragioniere pubblico non gli interessò fare “carriera politica”, cosa che sarebbe stata molto facile per lui. Mettendo in pratica un altro modo di vivere, puntò tutto, inclusa la sua vita e quella delle persone a lui care, per la felicità degli altri, perché gli umili potessero avere una vita dignitosa, perché i miliardari non godessero dell’oscena impunità che ostentano ora, perché la classe lavoratrice dirigesse, alla fine, questo paese che è a volta tanto, ma tanto, crudele con i suoi stessi figli.

Le sue riflessioni politiche, completamente estranee al barocchismo accademico e alle imposture – che si presumono raffinate – di un discorso che, al fondo, non ha due idee genuine da comunicare e che non molesta né dà fastidio a nessuno, rappresentano un diverso modo di pensare la società e il mondo di quelli che stanno in basso, in senso inverso alla storia dei vincitori, a partire dalla ribellione contro le istituzioni fondamentali dei miliardari e degli imprenditori capitalisti. Questi mediocri che ancora sono i padroni del mondo… Per ora.

Barrio de Once, luglio 2013

Note

[1]Abbiamo cercato di dimostrare in forma ben più ampia l’insuccesso delle metafisiche “post” nel libro N. Kohan, Nuestro Marx, Misión Conciencia, Caracas, 2011 (Parte Prima, pp. 47-92).

[2]Mario Roberto Santucho, Poder burgués y poder revolucionario, in Daniel de Santis (a cura di), PRT-ERP. Documentos, Editorial Universitaria de Buenos Aires, Buenos Aires, 2000, t. 2, p. 276.