Meloni, Giorgetti, Borghi: manovra “leggera”, manovre “pesanti”

Nel mirino, guarda caso, sempre le pensioni (Fabrizio Burattini)

Sono passati giusto due mesi da quando il ministro Giancarlo Giorgetti ha presentato in parlamento la bozza di legge finanziaria per il prossimo anno e, in tutto questo tempo, ancora, a poco più di una settimana dalla fine dell’anno, i litigi all’interno della coalizione di destra sembrano non placarsi.

L’impegno preso dalla stessa Meloni di far passare la legge di bilancio in prima lettura al senato entro il 15 dicembre è clamorosamente saltato. La legge non è ancora arrivata alla discussione in aula alla camera e poi dovrà affrontare il dibattito al senato. Dunque, la data “tagliola” del 31 dicembre (quando potrebbe scattare il cosiddetto “esercizio provvisorio”) si avvicina inesorabilmente. Le ultime due volte in cui il paese ha dovuto provare l’esperienza dell’esercizio provvisorio (con la spesa pubblica in “dodicesimi”, in base al bilancio dell’anno precedente) furono nel 1986 (governo Craxi) e nel 1988 (governo Goria)

Le baruffe tra i partiti ci sono sempre state, con le diverse formazioni che tentano di far passare commi e dettagli volti a favorire le loro basi sociale ed elettorali. Ma quest’anno abbiamo anche le “baruffe” all’interno dei partiti, con la Lega che si è spinta ad attaccare pubblicamente e pesantemente il “suo” ministro delle Finanze (Giorgetti).

C’erano state le abituali proteste confindustriali, con i padroni che lamentavano la scarsa attenzione (cioè gli scarsi finanziamenti) che il progetto di legge dedicava alle “imprese” e alla “crescita”. Così, qualche giorno fa il governo aveva presentato un “maxi emendamento”. Formalmente non costituiva una novità: quasi ogni anno i diversi governi che si sono succeduti, verso la fine del dibattito parlamentare, hanno presentato un emendamento onnicomprensivo al fine di rendere coerenti le modifiche apportate in parlamento e anche per semplificare, in base ai regolamenti parlamentari, l’iter di approvazione.  

Ma stavolta, il “maxi emendamento” non era “rituale” come quelli degli anni scorsi. Aumentava le dimensioni della manovra di 3,5 miliardi di euro (da 18,7 a 22,2), con la equilibristica ricerca della copertura per quello sforamento. E questa copertura ha scatenato il caos tra i partiti della destra e nei partiti della destra.

Perché le “coperture” si basavano in particolare su un ulteriore peggioramento delle regole con le quali le lavoratrici e i lavoratori possono sperare di andare in pensione. Ricordiamo che, in base alla “riforma Fornero” del 2011, l’eta “pensionabile” in Italia si colloca formalmente a 67 anni, e, per chi ha i requisiti per avere la “pensione anticipata”, occorre avere versato contributi previdenziali per 42 anni e 10 mesi (41 anni e 10 mesi per le donne). Ma concretamente le cosiddette “finestre” (cioè i periodi dell’anno in cui è possibile cessare dal lavoro) possono far aumentare quell’età di svariati mesi (nel comparto scuola anche di un anno).

Ebbene, il maxi emendamento di Giorgetti e di Meloni, al fine di “reperire” 2 dei miliardi necessari per le nuove spese (per tacitare i mugugni della Confindustria) portava il limite dei 42 anni e 10 mesi gradualmente a 43 e 9 mesi da qui al 2035, modificando le regole sulle “finestre”. E non solo. Il governo, sempre per trovare soldi da elargire agli industriali, intendeva anche dimezzare il valore previdenziale dei periodi di studio che i lavoratori (in particolare quelli con un titolo universitario) possono “riscattare”, peraltro pagando parecchie migliaia di euro. Secondo i calcoli della Cgil, “Chi ha riscattato un periodo di studi potrà arrivare addirittura a 46 anni e 3 mesi di contribuzione prima di andare in pensione”.

Un “maxi emendamento” così, per la Lega che ha fatto del “superamento della riforma Fornero” un punto centrale del suo programma demagogico, non poteva essere “digeribile”. E dunque il leghista d’assalto Claudio Borghi, su incarico di Salvini, ha aperto le ostilità contro le proposte della premier e di Giorgetti (suo collega di partito).

Così Meloni e Giorgetti sono dovuti tornare sui loro passi, azzerare le modifiche previdenziali proposte e, di conseguenza, i contributi alle imprese (agevolazioni fiscali a pioggia e sovvenzioni per coprire gli aumenti dei prezzi delle materie prime).

Ma così i padroni hanno ripreso a frignare (secondo loro si toglierebbero soldi alle imprese per agevolare i pensionamenti, mentre era accaduto esattamente il contrario). E Giorgia Meloni ha perciò chiesto di ripristinare nella manovra i regali agli industriali, reimponendo la necessità di trovare le coperture. E, nel tira e molla nel corso dei “vertici” tra i leader della destra, sembra che a fare le spese di tutto ciò, guarda caso, saranno sempre le pensioni.

Ma, al contrario di altri paesi (come la Francia) queste misure antipopolari rischiano di passare senza alcuna significativa opposizione né politica né sociale o sindacale, o, peggio ancora, delegando l’opposizione alla demagogia leghista.