Askatasuna, un esperimento che si è voluto spezzare
Bene comune Lo sgombero di Askatasuna ha messo ancora una volta Torino al centro, come laboratorio di repressione [Alessandra Algostino da il manifesto]
«Nessuno spazio per la violenza» (Piantedosi) o nessuno spazio per la democrazia?
Lo sgombero di Askatasuna ha messo ancora una volta Torino al centro, come laboratorio di repressione. Quello che è andato in scena ieri è l’accanimento contro una realtà che si vuole mettere a tacere per il suo essere radicalmente alternativa.
Perseguito da anni e fortemente voluto dal governo di Giorgia Meloni, lo sgombero del centro sociale torinese di corso Regina Margherita 47 concretizza la volontà di criminalizzare il dissenso e la protesta, a partire dalle mobilitazioni per la Palestina. E colpisce una consolidata attività di promozione culturale e di autorganizzazione sociale nel quartiere (dalla palestra popolare alla collaborazione con le scuole ai dibattiti e concerti).
Sullo stabile c’era un percorso, già deliberato e in atto come bene comune, un’alternativa concreta, coraggiosa proposta per tutelare insieme l’indipendenza di un progetto politico e sociale dal basso e le esigenze della democrazia come istituzione formale, coniugando forme nuove con il riconoscimento e la valorizzazione del conflitto come elementi essenziali della democrazia. È finito, tagliate luce e acqua e alzati i muri a chiudere le porte. Il Comune, a prima mattina, ha recesso il patto di collaborazione sul bene comune, recependo, da fonti della prefettura, la presenza di persone nell’edificio in contrasto con quanto stabilito nel patto. Il filo si è spezzato: da un lato, come da accordi presi, lo stabile doveva essere mantenuto vuoto nei piani alti dagli occupanti; dall’altro, la comunicazione di recesso da parte del Comune è stata troppo sollecita. È una esperienza, di dialogo in luogo di repressione, che meritava – merita – di essere difesa.
La sicurezza declinata come partecipazione e come sociale una volta di più ha ceduto il passo alla sua accezione come repressione della divergenza. L’ordine pubblico, assunto come mero riflesso di un principio di autorità, mostra di essere l’asse portante dello stato autoritario in stadio avanzato di costruzione: in suo nome un quartiere è stato militarizzato, le scuole chiuse, la libertà di circolazione interdetta, i diritti dei cittadini calpestati. È emblematico come il diritto all’istruzione, cardine di emancipazione, sia stato sacrificato, senza remore, all’esibizione dello Stato come forza di polizia.
La militarizzazione delle strade intorno all’Askatasuna riproduce plasticamente la militarizzazione della democrazia, dove la vocazione autoritaria delle destre (e del neoliberismo) si salda con il clima bellico del riarmo e della normalizzazione della guerra.
Una democrazia immunizzata dal conflitto è una autocrazia. Gli spazi sociali autogestiti, come i cortei, gli scioperi e le proteste, sono indice della vitalità della democrazia, non soggetti e azioni da squalificare e colpire con il diritto penale. Per inciso, si ragiona di mobilitazioni che non possono certo essere ridotte né ad Askatasuna né, evidentemente, a episodi come «l’attacco alla Stampa»: entrambi utilizzati come pretesti per screditare e delegittimare un movimento, quello per Gaza, che ha squarciato il velo della passività, e intimidire chi intenda farlo in futuro. La criminalizzazione di Askatasuna (pervicacemente dipinta, nonostante contraria pronuncia giudiziaria, come associazione a delinquere) condensa l’intento di impedire l’apertura di crepe nell’orizzonte diseguale, bellico e autoritario imperante.
I mattoni che chiudono l’ingresso dell’Askatasuna chiudono un altro pezzo di spazio democratico, per tutti. Obbedienza o repressione è la scelta per il futuro? Un’altra è la nostra scelta: esercitare il diritto a stare nello spazio pubblico, facendo sentire la voce, dissentendo, costruendo alternative.
