Tre anni di Meloni, un modello per l’estrema destra internazionale

di Fabrizio Burattini

Il prossimo 22 ottobre saranno tre anni esatti dall’insediamento di Giorgia Meloni a palazzo Chigi, la sede della presidenza del consiglio dei ministri italiano. La sua nomina fu il frutto del prevedibile ma comunque disastroso risultato elettorale del settembre 2022, quando la coalizione della destra (della quale Fratelli d’Italia risultava di gran lunga il primo partito) vinse grazie ad un significativo tasso di astensione (36%) ma soprattutto grazie ad una legge antiproporzionale fatta approvare dai precedenti governi di centrosinistra e alla profonda divisione tra le altre forze politiche che andarono a costituire in parlamento il variegato fronte dell’opposizione. La destra con i suoi 12 milioni di voti (su un corpo elettorale di circa 46 milioni), con una percentuale inferiore al 44% dei voti espressi, dunque con solo il 26% dei consensi rispetto all’elettorato, elesse quasi il 60% dei deputati e dei senatori. Come dicemmo allora in un articolo di commento “la vittoria di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia ha un valore simbolico inedito nella storia della Repubblica: l’Italia finisce nelle mani di una coalizione egemonizzata dagli eredi di Mussolini, di Almirante e di Rauti”.

Naturalmente non vanno trascurati tutti gli altri fattori che pesarono sul risultato e nello spianare la strada al successo del partito diretto erede del fascismo: le trasformazioni culturali e istituzionali già impresse al paese dai governi Berlusconi, la progressiva scomparsa di una sinistra minimamente capace di rappresentare un’alternativa per le classi popolari, le forzature istituzionali impresse alla politica dai governi della sinistra e da quelli “tecnici”, le scelte pesantemente “social-liberali” di questi stessi governi, la pervicace acquiescenza a queste scelte da parte dei sindacati maggioritari, il fallimento delle illusioni create nel paese dalla demagogia del Movimento 5 Stelle. 

Resta che la vittoria di Giorgia Meloni appare molto più solida e “progettuale” di quello che fu il successo di Silvio Berlusconi di quasi trenta anni prima, che fu continuamente segnato dalla commistione tra gli obiettivi politici della destra e gli interessi personali ed aziendali del premier. A differenza di Berlusconi, Giorgia Meloni si presenta e, in certa misura, è una “politica pura”, nata (1977) e cresciuta negli ambienti loschi dell’estrema destra romana, attivista della gioventù neofascista fin dall’età di 15 anni e da allora sempre impegnata in attività politiche e con cariche istituzionali crescenti, da consigliera di un municipio della capitale, fino a deputata, ministra e, ora, presidente del consiglio. Ha avuto spazio nella cronaca la sua risposta ad un intervista quando si creò, poco dopo la sua nomina, un momento di polemica tra lei e Berlusconi. Lei rispose seccamente “io non sono ricattabile”, con ciò volendo affermare che lei, al contrario dell’anziano leader di Forza Italia, non aveva altri interessi da nascondere, se non quelli politici.

E occorre dire che non ha mai voluto nascondere neanche le sue radici politiche fasciste. Di fronte alle inefficaci insistenze dell’opposizione e di certi media nel farle dichiarare di “essere antifascista”, lei è riuscita costantemente a dribblare la questione. E le sue prese di distanza dal fascismo storico sono sempre state tatticamente circoscritte ad alcune questioni relativamente secondarie. E’ riuscita persino a consolidare un rapporto con la comunità ebraica, in particolare con quella romana, un tempo uno dei bastioni della sinistra, facendone eleggere nelle sue liste per il senato la portavoce, Ester Mieli, nipote di un deportato ad Auschwitz. Questo nonostante le numerose inchieste giornalistiche che hanno rivelato come la base e la nomenklatura di Fratelli d’Italia continuino a coltivare il mito mussoliniano, l’ideologia fascista e persino l’odio antiebraico.

Il bilancio vantato e quello reale

Il bilancio di questi tre anni di governo è segnato dalle condizioni economiche del paese e dalla congiuntura tendenzialmente depressiva, con le restrizioni di bilancio che l’Italia conosce da anni a causa del suo abissale debito pubblico (3.053 miliardi di euro, cifre di luglio 2025, pari a quasi il 140% del Prodotto interno lordo). La politica del governo, soprattutto grazie al taglio delle tasse (in particolare a favore della sua base sociale insediata nella piccola imprenditoria, nel commercio e nelle professioni liberali) ha peraltro causato nel corso dei tre anni un incremento del debito di quasi 300 miliardi.

Nonostante questo, il governo riesce a vantare un significativo abbassamento dello spread tra il tasso di interesse per i titoli di stato italiani e quello per i titoli tedeschi, passato tra il 2022 ed oggi da 244 a 86. Naturalmente ad abbassare il differenziale ha fortemente contribuito la crisi economica che da qualche tempo travaglia la Germania e, dunque, l’incremento dell’interesse per i suoi titoli di stato, ma è comunque certo che il rendimento dei Buoni del tesoro italiani è passato in tre anni dal 4,79% al 3,57%, cosa che indica il fatto che i “mercati” hanno significativamente aumentato la loro fiducia nell’economia italiana, perché in mano ad un governo ritenuto “più affidabile” da parte dei “mercati”, cosa che peraltro si è anche tradotta in un seppur lieve miglioramento del rating definito dai principali istituti di valutazione finanziaria e che Giorgia Meloni ha presentato come “la conferma che la strada intrapresa dal governo è quella giusta”.

Il PIL a prezzi costanti, nel corso dei tre anni di governo Meloni è stato sostanzialmente piatto, con una crescita tra il quarto trimestre del 2022 e il secondo del 2025 di poco meno dell’1,5%. Nonostante questo, il governo vanta un trend di crescita del tasso di occupazione che quest’estate avrebbe raggiunto il 62,80% (nel 2013 era il 54,70%). 

Questi risultati, peraltro molto modesti, pur se in un quadro mondiale depressivo e segnato dal rallentamento del commercio internazionale, sono largamente “drogati” grazie ai 194 miliardi elargiti dall’Unione europea (nell’ambito del programma post-Covid Next Generation UE), in parte a fondo perduto (71,8 miliardi) e in parte come prestiti agevolati (122,6 miliardi). Si tratta di cifre enormi che stanno piovendo sulle imprese italiane, evidentemente sostenendo (si dice per almeno un punto percentuale) il PIL e l’occupazione.

Nonostante i proclami della destra sui pericoli di “sostituzione etnica” resta irrisolto il decremento demografico. La popolazione italiana è passata in 10 anni dai 60,2 milioni del 2016 ai 59,0 di quest’anno. Il decremento sarebbe ancora più vistoso se non ci fosse stato l’importante afflusso di residenti stranieri verificatosi in questi ultimi anni, che sono passati da circa 500.000 nei primi anni 90 agli oltre 5 milioni di oggi, di cui 4,3 milioni iscritti all’Istituto di Previdenza sociale (3,8 milioni di lavoratori, poco più di 300.000 pensionati e circa 250.000 percettori di prestazioni a sostegno del reddito: cassa integrazione, indennità di invalidità o di disoccupazione). Oltre al fortissimo decremento delle nascite (per il 2025 si prevedono non più di 340.000 nascite, l’8% in meno rispetto al 2024) non va trascurato che ogni anno circa 100.000 giovani (in genere detentori di titolo di studio universitario) emigrano verso altri paesi della UE o extra UE.

E la situazione delle classi popolari è facilmente fotografata dai prezzi al consumo che nel corso degli ultimi 5 anni (2021-2025) sono cresciuti di circa il 17% a fronte di salari medi che sono cresciuti solo del 9,6%, dunque con una perdita di 8 punti di potere d’acquisto, pari alla perdita di un’intera mensilità salariale. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ha ripetutamente messo in evidenza come l’Italia sia uno dei pochi paesi del G20 ad avere oggi salari inferiori a quelli del 2008. 

La povertà (in particolare in alcune aree del paese) costituisce una vera e propria emergenza cronica. Tra il 2022 e il 2024 le famiglie in povertà assoluta passano dall’8,3% all’8,5% del totale delle famiglie residenti (pari a circa 2 milioni e 234 mila famiglie; erano “solo” il 6,2% nel 2014) e gli individui in povertà assoluta passano dal 9,7% al 9,8% (oltre 5,7 milioni di persone). Il fenomeno è in via di incremento e di aggravamento, sia per l’inflazione che impoverisce le famiglie che si trovavano immediatamente al di sopra del livello di povertà sia per l’eliminazione del Reddito di cittadinanza nel 2023 che ha lasciato molte famiglie già povere senza alcun sostegno al reddito. Secondo l’Istituto di statistica il tasso di popolazione a rischio di povertà è del 23,1% nel 2024.

La povertà assoluta colpisce in particolare i minori, più numerosi nelle famiglie povere: i minori di 18 anni in povertà assoluta sono pari al 14% del totale (1,3 milioni). E colpisce anche una fetta consistente della popolazione lavoratrice occupata (i working poor): le famiglie con persona di riferimento occupata in stato di povertà assoluta passano tra il 2022 e il 2023 dall’8,3% al 9,1%. L’opposizione in tutte le sue componenti ha posto la necessità dell’istituzione di una legge per il “salario minimo” (riuscendo anche a modificare l’impostazione di alcuni sindacati, come CGIL e UIL, precedentemente contrari), ma il governo è riuscito ad affossare ogni proposta in tal senso.

L’Italia resta, da molti anni, la seconda potenza manifatturiera del continente europeo, ma la sua industria resta pesantemente caratterizzata da una bassa produttività del lavoro (nel 2024, 65 euro per ora lavorata: in Francia 75,12). Anche questo dato contribuisce a ridimensionare, se non ad annullare i dati trionfalistici del governo attorno alla crescita occupazionale e alla sua qualità. Nel 2023, ad esempio, le ore lavorate sono cresciute del 2,7%, mentre il valore aggiunto è cresciuto solo dello 0,2%, indicando che buona parte degli imprenditori, soprattutto i piccoli e i piccolissimi, preferiscono assumere dipendenti a basso salario piuttosto che fare investimenti innovativi. Non a caso la Commissione europea nei suoi report colloca l’Italia solo al quattordicesimo posto nella classifica dei paesi della UE più innovativi nel 2025.

La piccola crescita dell’occupazione, di cui il governo della destra si vanta, però mostra i segni della sua fragilità. Infatti crescono gli occupati nella fascia di età over 50 e diminuiscono quelli più giovani, a dimostrazione delle conseguenze occupazionali dell’allungamento dell’età pensionabile, decretato nel 2011 dal governo “tecnico” di Mario Monti e mai modificato dai governi successivi. Gli anziani si mantengono più a lungo al lavoro, intasando le statistiche degli occupati, a discapito di più significativi fenomeni di ringiovanimento e di rotazione della forza lavoro.

La deindustrializzazione della seconda manifattura d’Europa

Il fenomeno della cosiddetta “deindustrializzazione” è iniziato in Italia (come in gran parte del mondo occidentale) fin dagli anni ’70 e si è accelerato negli anni ’90, con una progressiva riduzione del peso del settore manifatturiero a favore dei servizi. Ma il governo Meloni, in questi ultimi anni, con la sua politica economica e per cercare di fare cassa allo scopo di mantenere in equilibrio i conti pubblici, ha agevolato un ulteriore processo di dismissione di imprese “strategiche”, con la cessione da parte dello stato di imprese un tempo essenziali per lo sviluppo economico del paese. E queste dismissioni hanno avuto importanti ricadute sull’occupazione. 

Le acciaierie di Taranto (ex Italsider, ex ILVA, ora “Acciaierie d’Italia Spa”) si dibattono, dopo la loro privatizzazione negli anni 80, in una gravissima crisi pluridecennale ambientale e occupazionale. Ora il governo progetta sostanzialmente di regalarle alla finanziaria statunitense “Bedrock Industries”, che chiede che la cessione sia accompagnata da un finanziamento pubblico di 700 milioni a fondo perduto per procedere alla “decarbonizzazione” degli impianti. La Bedrock inoltre prevede un travolgente taglio occupazionale di 7.000 operai sui 10.000 attualmente impegnati.

Giusto un anno fa il governo ha ceduto la rete fissa della TIM (ex Telecom Italia) ad un consorzio guidato dal fondo americano KKR, con la conseguente riduzione dei dipendenti della Tim da 37.000 a 17.300. Già nel 2022 la compagnia aerea nazionale Alitalia (ora ITA) è stata privatizzata e qualche mese fa il governo Meloni ha deciso la sua progressiva cessione totale alla Lufthansa, con l’impegno per quest’ultima di non riassorbire i 2.000 lavoratori attualmente in cassa integrazione. Il marchio petrolifero IP (Italiana Petroli), un tempo parte del gruppo ENI, è in via di essere ceduto al gruppo azero Socar per 3 miliardi, nell’ambito della “diversificazione delle fonti energetiche” successive alla guerra russa in Ucraina.

Gli impianti produttivi ex Fiat (ora Stellantis) sono da anni in via di dismissione e la crisi del mercato dell’auto non ha fatto che accelerare questa tendenza. La fabbrica ex Fiat IVECO (veicoli industriali) è già stata ceduta in parte all’indiana Tata Motors e (per quel che riguarda il settore legato ai veicoli ad uso militare) ad una partnership tra la Leonardo e la tedesca Rheinmetall. In tutto mettendo a rischio oltre 10.000 ulteriori posti di lavoro. Il governo inoltre prevede di riconvertire l’automotive italiana in produzione bellica, mediante l’erogazione di nuovi contributi pubblici a Stellantis. Nonostante ciò, l’azienda ha continuato a distribuire dividendi agli azionisti, grazie alla delocalizzazione produttiva, alla compressione dei salari, ai generosi contributi pubblici e allo spostamento degli utili nei “paradisi fiscali”.

La crescita delle disuguaglianze

Nel settore bancario, risalta la vicenda del Monte dei Paschi di Siena (MPS), una delle banche più antiche, un tempo sostanzialmente in mano pubblica (per oltre il 60% del capitale) e in dissesto da lungo tempo, “risanata” qualche anno fa grazie all’elargizione di 5,4 miliardi prelevati dal bilancio pubblico. Ora che la banca è tornata “appetibile” il governo vuole svendere il residuo 11% di azioni rimaste in mano statale. Nel frattempo MPS ha acquisito la principale “banca d’affari” del paese (Mediobanca) facendo guadagnare ai suoi principali azionisti (le famiglie Del Vecchio e Caltagirone e il fondo americano BlackRock) oltre 1,5 miliardi di utile, su cui nulla verrà pagato al fisco in quanto tutti residenti nei paradisi fiscali.

Nel 2024 le banche italiane hanno registrato un nuovo massimo in termini di utile netto, pari a 46,5 miliardi di euro, con una crescita di 5,7 miliardi (+14%) rispetto al 2023. La somma degli utili realizzati dalle banche nel triennio Meloni (2022–2024) raggiunge la cifra di 112 miliardi, evidentemente anche grazie agli alti tassi d’interesse decisi dalla BCE. Nelle manovre finanziarie degli scorsi anni il governo aveva ripetutamente proclamato di voler fare un prelievo fiscale (peraltro modestissimo, non più di 2 miliardi) da questi utili straordinariamente alti. Ma l’opposizione dei banchieri, “autorevolmente” affidata nella compagine di governo al partito di Forza Italia, ha rapidamente indotto l’esecutivo a rinunciare. Il ministro delle Finanze Giancarlo Giorgetti (Lega) sembra voler ritentare la cosa anche quest’anno ma sembra che le difficoltà resteranno quelle degli scorsi anni.

Le leggi per consolidare il consenso

Quanto all’attività legislativa del governo, questa è stata particolarmente limitata. Nonostante le pressioni della UE e la politica comunitaria di “protezione della concorrenza”, il governo Meloni ha scelto la strada della “protezione dalla concorrenza” e ha continuamente rinnovato le concessioni monopolistiche e le rendite di alcune corporazioni da cui la destra trae un importante sostegno elettorale (stabilimenti balneari, taxi, notai, ecc.). 

Ha inoltre scelto già dalla sua prima manovra finanziaria, alla fine del 2022, rinnovandola e ampliandola nelle manovre degli anni successivi, di praticare una politica fiscale sfacciatamente di favore nei confronti di alcune categorie di percettori di reddito. Così, mentre i lavoratori dipendenti e i pensionati continuano ad essere tassati in base ad aliquote progressive (23% per redditi fino a 28.000 euro, 35% per redditi fino a 50.000 euro, 43% per redditi superiori a 50.000 euro), i liberi professionisti e le piccole imprese individuali sono soggette alla cosiddetta “flat Tax” al 15% (che si riduce al 5% per 5 anni per i “nuovi imprenditori”). Con il risultato che, a parità di reddito, un lavoratore dipendente può arrivare a pagare il triplo di tasse di un libero professionista. E’ del tutto evidente il vantaggio elettorale che la destra ha acquisito con questa operazione, tanto più in Italia, dove il peso del “lavoro autonomo” e delle piccole imprese è ben al di sopra della media dei paesi sviluppati.

Giorgia Meloni e il governo, in perfetta continuità con Berlusconi, ha perseverato della politica di indulgenza verso la colossale evasione fiscale italiana (attorno ai 100 miliardi di euro all’anno) e all’altrettanto importante elusione fiscale (nel 2024 i contribuenti in debito con il fisco erano circa 23 milioni, con debiti pari alla colossale cifra di quasi 1.300 miliardi di euro). Questa politica si è espressa attraverso operazioni demagogiche e propagandistiche, come le dichiarazioni della premier nel 2023 a Catania (in Sicilia, regione nella quale l’evasione raggiunge livelli record e nella quale la mafia ancora impera) dove ha paragonato la lotta all’evasione al “pizzo di stato”, cioè ai “contributi” che la criminalità organizzata con la violenza estorce ai cittadini. Ma si è espressa anche e soprattutto attraverso numerosi e ripetuti condoni (una ventina di misure nel corso dei tre anni di governo) che hanno azzerato o ridotto a cifre irrisorie i debiti verso il fisco dei contribuenti evasori o morosi.

Quindi, a fronte della penalizzazione di tutti i cittadini a reddito fisso (dipendenti e pensionati), in Italia continuano a crescere le disuguaglianze. La ricchezza immobiliare e finanziaria italiana, esplosa negli ultimi anni, ammonta a 11.700 miliardi (cinque volte il PIL) e colloca il paese all’ottavo posto nel ranking globale per ricchezza finanziaria. Nel paese si contano 517.000 milionari, cioè persone che detengono un patrimonio di almeno un milione di dollari in ricchezza finanziaria, meno dell’1% della popolazione. Gli individui che detengono un patrimonio superiore ai 100 milioni di dollari di ricchezza finanziaria in Italia sono 2.600. Anche questa redditività delle attività finanziarie e il fatto che queste siano poco tassate innesca una “spirale di rendita” che distoglie gli investimenti dall’economia produttiva.

Il governo, con altre operazioni demagogiche e propagandistiche, punta inoltre ad allettare importanti settori dell’imprenditoria e della finanza ad organizzarsi per speculare su aree del mondo vittime di guerre e devastazioni. Nel gennaio 2024, Giorgia Meloni ha organizzato a Roma un “vertice Italia-Africa” a cui hanno partecipato rappresentanti di 45 stati africani, nel quale la premier ha illustrato le ipotesi di “partenariato” previste dal cosiddetto Piano Mattei. Ma non solo. Nel luglio di quest’anno, ha organizzato, sempre a Roma, la “Conferenza sulla Ripresa dell’Ucraina”, in collaborazione con il governo di Kiev, prospettando importanti investimenti nella ricostruzione del paese devastato dall’invasione russa. Nei prossimi giorni, possiamo starne certi, il governo opererà per far partecipare le industrie italiane alla “ricostruzione di Gaza”, se reggerà il fragile accordo stipulato tra Netanyahu e Hamas.

Razzismo, securitarismo e stravolgimento della Costituzione

L’attività del governo, dunque, si è esplicitata più sul piano politico che su quello prettamente legislativo. Perché, ad esempio, anche le numerose e importanti iniziative al fine dichiarato di “impedire l’immigrazione clandestina” non hanno prodotto grandi risultati concreti, se non quello di rafforzare l’immagine di un governo “forte con i deboli”, un’immagine utile a salvaguardare il sostegno politico ed elettorale di ampi settori dell’elettorato infettati dal razzismo. Una raffica di decreti del 2023 è stata utile a questo fine, come quello che ha intralciato pesantemente l’attività delle navi delle ONG impegnate nel soccorso dei migranti naufraghi nel Mediterraneo, quello varato dopo la strage di Cutro (con i suoi oltre 100 affogati) o quello che ha allungato fino a 18 mesi il limite massimo di permanenza nell’inferno dei “Centri per il rimpatrio” (CPR).

Una storia a sé riguarda il protocollo d’intesa con il governo albanese del febbraio 2024, che ha portato alla costruzione di due CPR in territorio albanese, costruzione costosissima e finora sostanzialmente inutilizzata.

Utile alla propaganda razzista del governo e alla sua iniziativa contro l’indipendenza della magistratura è stata anche tutta la vicenda che ha visto il contrasto tra la volontà del governo di fissare a suo piacimento i paesi da considerare “sicuri” per il rimpatrio dei richiedenti asilo e le iniziative in senso contrario di numerosi giudici italiani (e della magistratura europea).

In politica economica, oltre alle scelte di condono a favore degli evasori, il governo ha adottato importanti misure di agevolazione per le imprese, come la istituzione un’unica zona economica speciale (ZES) che comprende tutto il Sud del paese (con le relative facilitazioni fiscali e normative, sia contrattuali sia ambientali, per le aziende che operano nel Mezzogiorno). A vantaggio dei datori di lavoro è stata anche decisa la proroga della riduzione del cosiddetto “cuneo fiscale”, che ha sì fatto entrare qualche decina di euro in più nelle buste paga dei lavoratori dipendenti a spese del bilancio pubblico, ma con l’esplicito scopo di ridurre la pressione salariale e sindacale per il rinnovo dei contratti collettivi e per l’aumento dei salari. 

Peraltro è anche stata allargata la possibilità per le imprese di utilizzare aziende subappaltanti e la possibilità di utilizzare, anche in assenza di validi motivi, i contratti di lavoro a tempo determinato.

Importanti e inquietanti iniziative legislative sono state adottate sul piano repressivo. Il governo aveva esordito già nel 2022, solo una settimana dopo il suo insediamento, adottando il cosiddetto “decreto Rave” che penalizzava con pesanti multe e con la prigione i raduni “non autorizzati” di più di 50 giovani. Ma la legge più significativa su questo piano è quella adottata nell’aprile scorso con decreto, dunque scavalcando il voto del parlamento, nonostante la larga maggioranza che il governo ha in entrambe le camere. Si tratta del cosiddetto “decreto sicurezza”, con cui si introducono nuovi reati in materia di ordine pubblico (blocco stradale, occupazione di edifici, revoca della cittadinanza per stranieri che abbiano ottenuto la cittadinanza italiana e che siano stati condannati anche per reati lievi, carcere obbligatorio anche per donne con figli minori di un anno, libero uso delle armi anche da fuoco da parte della polizia, maggiore repressione di ogni protesta nelle carceri, ecc.). Questo decreto riesce a peggiorare in senso repressivo il codice penale ereditato dall’Italia repubblicana dal regime fascista.

I propositi del governo, però, vanno ben al di là. Un anno fa, il parlamento ha approvato la legge sulla cosiddetta “autonomia differenziata”, fortemente voluta dalla Lega di Matteo Salvini, per cercare di azzerare ogni forma di solidarietà fiscale tra le varie zone più ricche o più povere del paese e per dare maggiori e quasi illimitati poteri ai vertici delle regioni più ricche. Questa legge, varata con il sostegno dell’intera maggioranza di destra nel giugno 2024, è stata positivamente anche se parzialmente depotenziata da una sentenza delle Corte costituzionale del dicembre 2024, ma continua a rappresentare un’importante forzatura dell’assetto costituzionale adottato nel 1948 dalla Repubblica italiana. 

Un’ulteriore legge di riforma costituzionale (questa voluta in particolare da Forza Italia) è stata recentemente adottata dalla maggioranza governativa in materia di giustizia, separando le carriere dei giudici da quelle dei pubblici ministeri e modificando pesantemente il sistema di autogoverno della magistratura, con l’esplicito intento di subordinarla al potere di governo e quindi di colpire la separazione dei poteri anch’essa prevista dalla Costituzione, già pesantemente compromessa dall’abuso della decretazione d’urgenza (il governo Meloni in 3 anni ha adottato ben 91 decreti legge). Un abuso che sta svuotando il ruolo del parlamento subordinandolo all’esecutivo. Questa riforma della magistratura, in base alle norme costituzionali, verrà sottoposta nella prossima primavera ad un referendum popolare confermativo. Ma i sondaggi, ad oggi, fanno prevedere un risultato favorevole alla destra.

Ma il punto principale del programma di riforma della Costituzione prospettato dalla destra è costituito dalla “riforma sul premierato”, un completo ridisegno del funzionamento istituzionale del paese. Questa proposta è stata definita da Giorgia Meloni “l’inizio della Terza repubblica” (la “seconda” sarebbe stata quella governata da Berlusconi), la “madre di tutte le riforme”. Si tratta di un’ipotesi di gravissima e pesante manomissione dell’architettura istituzionale adottata dall’Italia dopo il ventennio fascista, un colpo che Giorgia Meloni intende infliggere alla struttura istituzionale parlamentare del nostro paese, senza nessuna motivazione se non la fissazione ideologica dei postfascisti italiani verso l’accentramento dei poteri. 

La proposta viene presentata come un rimedio all’instabilità governativa che ha caratterizzato il paese nella seconda metà del secolo scorso. Ma oggi, in particolare in questa legislatura, quella instabilità non esiste più. Tanto è vero che a tutti gli osservatori l’Italia di Giorgia Meloni sembra un modello di stabilità, in un’Europa nella quale molti paesi sono in preda a crisi profonde, primo fra tutti la Francia di Macron.

Il governo Meloni, infatti, si avvia ad essere il più longevo della storia del paese. Dunque, la riforma del premierato non ha nulla a che vedere con la cosiddetta “governabilità”, ma, nelle intenzioni della premier e degli altri promotori vuole politicamente e simbolicamente segnare il superamento definitivo delle radici antifasciste e democratiche della Costituzione del 1948, e punta a creare in un elettorato qualunquista molto più largo l’illusione di un rinnovamento che prometta di portare il paese fuori dalle difficoltà degli ultimi decenni.

L’astruso meccanismo istituzionale individuato dagli estensori del progetto azzera nei fatti il ruolo dei parlamentari e delle camere, ridotte a pure sedi di ratifica di quanto deciso dal governo e dal loro o dalla loro premier. Sarebbe, anche formalmente la “dittatura della maggioranza”, di una maggioranza che peraltro in base alle nuove norme elettorali potrà disporre di almeno il 55% dei parlamentari anche con solo il 30% dei consensi, per di più del solo elettorato che si esprime, in un contesto nel quale l’astensionismo è in continua crescita. Il potere esecutivo (cioè il governo) si renderebbe indipendente dal parlamento, perché l’elezione diretta del premier lo fa diventare il potere centrale, pesantemente prevalente su tutti gli altri organi istituzionali (presidente della Repubblica e parlamento), strutturalmente depotenziati. Si tratterebbe di una “democrazia” analoga a quella di numerosi “amici” di Giorgia Meloni, e in particolare dell’ungherese Viktor Orban.

Questa riforma è ancora in discussione in parlamento, e probabilmente il governo (a meno che si presentino imprevedibili “finestre” di opportunità) sceglierà di farla maturare nel tempo, forse facendone slittare la definitiva approvazione alla prossima legislatura, quella che sarà eletta nell’autunno 2027. Questo perché è del tutto prevedibile che la riforma sarà sottoposta a referendum confermativo e i referendum confermativi sulle riforme costituzionali spesso si sono trasformati in una clamorosa sconfessione dei governi, basti ricordare il 60% di No che travolse il governo Renzi nel 2016. Ma questa volta la prova sarà particolarmente insidiosa anche per le opposizioni, perché per impedire la riforma occorre “difendere” una Costituzione che, grazie alle ripetute manomissioni, non è più quella basata sul “compromesso sociale” antifascista del 1948. E anche perché comunque quella Costituzione ha penosamente mostrato in questi decenni il suo carattere declamatorio, tradendo nella pratica tutti quegli impegni di eguaglianza e di giustizia promessi nel testo.

L’affidabilità internazionale…

Tra i successi di Giorgia Meloni non si deve trascurare la sua capacità di inserirsi con efficacia nella politica dell’Unione europea, anche se questa sua scelta contraddice clamorosamente le sue prese di posizione demagogiche contro i “tecnocrati di Bruxelles” adottate quando era ancora all’opposizione. E occorre dire che, dopo alcuni iniziali scetticismi, anche la commissione europea e la sua stessa presidente Von Der Leyen hanno largamente aperto le porte alla collaborazione con la premier italiana. Questa collaborazione si è tradotta nel contributo che il governo italiano ha dato in sede comunitaria, in materia di immigrazione, alla revisione del Regolamento di Dublino, alle nuove regole per il diritto di asilo e alle regole per i rimpatri, in materia di ambiente, alla riscrittura del Green Deal europeo, in materia economica, all’attenuazione di alcune norme del Patto di stabilità e crescita. E questa collaborazione ha portato la destra italiana di governo a differenziarsi nel voto sulla nuova commissione, con Fratelli d’Italia e Forza Italia che hanno votato a favore di Ursula Von Der Leyen (mentre la Lega ha votato contro insieme al resto dell’estrema destra europea). In cambio, Fratelli d’Italia ha ottenuto la nomina del suo Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo. Facendo il bilancio delle politiche riguardo all’Europa di altri leader della destra (ad esempio Matteo Salvini), Giorgia Meloni ha capito che un’impostazione frontalmente “sovranista” e antieuropea non paga molto. Perciò ha attuato e continua ad attuare una politica di progressivo inserimento nelle istituzioni della UE, per il momento con innegabili risultati.

In politica estera permangono ancora alcune divergenze tra i partiti della coalizione di destra, con Fratelli d’Italia e Forza Italia più chiaramente atlantisti rispetto all’Ucraina, ma l’attivismo di Trump sembra fare l’unanimità e Giorgia Meloni è certamente quella meglio piazzata per approfittare dell’ascesa al potere dell’estrema destra americana.

Dato che il governo italiano, tra i principali paesi occidentali, è stato il primo ad essere caduto nelle mani dell’estrema destra, occorre riconoscere che Giorgia Meloni è riuscita a normalizzare la presenza di un’estrema destra fascista (o perlomeno postfascista) alla guida della terza economia europea, diventando un punto di riferimento internazionale per tutti i partiti di destra. Abilmente è riuscita a circondarsi di un’aura di rispettabilità, a dotarsi di un’immagine istituzionale e “moderata”, ad affermarsi come un soggetto fondamentale nell’affrontare le principali sfide della UE, non solo sull’Ucraina, ma anche su altri temi. E’ riuscita ad istituire ed esibire un rapporto esplicitamente cordiale e simbolicamente significativo con la presidente della commissione, arrivando persino ad organizzare con lei una visita congiunta all’isola di Lampedusa, principale meta degli sbarchi di migranti provenienti dal Nord Africa, proprio per indicare una sintonia e una collaborazione sul delicato tema dell’immigrazione, tema sul quale il complesso della politica europea sembra spostarsi sulle posizioni xenofobe e razziste della destra italiana. Nel contempo, è riuscita a combinare tutto questo con un’esibita sintonia con l’amministrazione Trump, che in qualche modo la contraccambia presentandola come un’interlocutrice privilegiata.

Nonostante le largamente inefficaci critiche che la Lega di Matteo Salvini e del generale neofascista Roberto Vannacci fa da destra a Giorgia Meloni, occorre dire che quest’ultima, con il suo pragmatismo è riuscita a conquistare sempre più al suo governo e alla sua politica il consenso del padronato, anche di quello più potente, un tempo perplesso di fronte al “sovranismo” dell’estrema destra. E occorre anche aggiungere che il suo “modello” offre un contributo alla “scalata” verso il potere di altri partiti di estrema destra a livello internazionale, perché induce settori sempre più ampi delle classi dominanti a dire: “beh, vedete, in fin dei conti non c’è da avere paura di loro, anzi, come dimostra Giorgia Meloni, possono fare un lavoro utile per noi”.

… e aggressività reazionaria verso chi non è d’accordo

In contrasto con questa immagine istituzionale, in ambito nazionale, la premier usa sempre più toni aggressivi e sprezzanti nei confronti dell’opposizione (ha recentemente definito la timida solidarietà dell’opposizione istituzionale nei confronti della Palestina come “complicità con Hamas”) e di chi osa criticarla. Nonostante fino a poche settimane fa si trattasse di un personaggio totalmente sconosciuto in Italia, ha immediatamente utilizzato l’assassinio di Charlie Kirk per attaccare la sinistra sia quella ultramoderata sia quella estrema, arrivando ad organizzare nel parlamento italiano una grottesca commemorazione dell’attivista reazionario filotrumpiano.

L’impostazione reazionaria della destra continua a presiedere la sua azione all’interno del paese. Del “decreto sicurezza” abbiamo già detto. Altre misure sono state prese contro le famiglie “arcobaleno”, cioè quelle non binarie, impedendo la regolarizzazione dei figli adottati o procreati in maniera eterodossa, ha fatto di tutto per imporre un forte controllo sui media, in particolare sulle televisioni.

La tattica di Giorgia Meloni è quella di utilizzare e di cercare di approfondire al massimo la crisi di credibilità di tutta l’opposizione in tutte le sue sfumature, dal vacuo centrismo di Matteo Renzi all’impotente residua demagogia dei 5 Stelle alla traballante impostazione tardolaburista del PD di Elly Schlein. Tutta l’opposizione continua a pagare il prezzo della sua lunga e disastrosa stagione di governo (tra governi “politici” diretti dal PD o dai 5 Stelle e governi “tecnici” sostenuti dal PD la cosa si è protratta dal 2011 al 2022), delle sue politiche antisociali, delle sue perverse riforme istituzionali, del suo assecondare le spinte razziste e securitarie, del suo accompagnamento alla definitiva polverizzazione di quella che un tempo era la compattezza della classe lavoratrice.

Questo si traduce in una progressiva ma inesorabile diminuzione degli elettori attivi (nelle ultime elezioni regionali il dato si è attestato sempre attorno al 50%, se non al di sotto), diminuzione che penalizza in misura significativamente maggiore l’opposizione piuttosto che le forze della destra di governo. Un interessante approfondimento basato sulla percentuale di voti che non si esprime solo sulla lista ma anche nelle preferenze per un qualche candidato mostra che questa percentuale è molto più bassa nel voto di destra (soprattutto per Fratelli d’Italia) mentre è molto alta (a volte per il PD sfiora o supera il 70%) per quelle di opposizione. Questo fenomeno indica la persistente capacità della destra di “parlare” anche all’opinione pubblica, a quella meno organizzata e meno legata ai partiti, mentre l’opposizione riesce poco ad attrarre il voto dell’elettorato non schierato.

Questo basta a descrivere l’impotenza dell’opposizione politica e istituzionale, con la crisi e il declino del Movimento 5 Stelle, mantenuto miracolosamente in vita, dopo la morte di Gianroberto Casaleggio e il “tradimento” di Beppe Grillo, dalla leadership di Giuseppe Conte. Il PD è attualmente costretto a fare buon viso alla gestione “movimentista” di Elly Schlein ma continua ad essere totalmente infestato da una nomenklatura di amministratori nostalgici di Matteo Renzi. Tutto ciò ha agevolato una qualche crescita dell’ala sinistra dell’opposizione, quella “rosso-verde” dell’AVS di Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, ma è un’ala che continua a vivacchiare nella totale subalternità agli altri.

Quanto alla “sinistra radicale” verrebbe il desiderio di non parlarne per stendere un “velo pietoso” sulla sua “esistenza in vita”. Ma occorre dire che lo straordinario movimento che si è sviluppato nelle settimane scorse per condannare il genocidio perpetrato a Gaza da Netanyahu e da suo governo e le complicità di tanti governi (tra i quali quello italiano) sta permettendo una nuova dislocazione delle forze in campo, mettendo significativamente ai margini quel che resta del Partito della Rifondazione comunista (PRC) e spingendo in primo piano le ali più dichiaratamente “campiste” della sinistra radicale italiana (il sindacato USB e l’organizzazione politica Potere al Popolo), che, con il loro attivismo politico e sociale e anche grazie ad alcune scelte tattiche che si sono rivelate lungimiranti, hanno assunto un ruolo di primo piano in quel movimento.

Le manifestazioni che hanno potentemente attraversato l’Italia (al pari di altri paesi) nel corso dell’azione della Global Sumud Flotilla mostrano le persistenti potenzialità tuttora presenti nel paese. Una fredda valutazione politica constata che nel paese non sono in campo soggetti politici e sociali in grado di orientare queste potenzialità, se non nel vicolo cieco di un pericoloso campismo. Comunque, la nuova mobilitazione di massa e le nuove disponibilità alla militanza politica creano nuovi spazi di lavoro politico affinché un’opzione coerentemente internazionalista possa contendere l’egemonia dei campisti nella sinistra radicale.

Nel frattempo, Giorgia Meloni, con il suo pragmatismo tattico, con la combinazione di arroganza verbale e moderazione insinuante, attende che l’”effetto Trump” si estenda nel mondo, che altri paesi europei (Francia? Gran Bretagna? Germania?) cadano nelle mani di altri camerati di estrema destra ed offre loro un modello di azione.