Quei 35 giorni di Mirafiori
Nell’autunno del 1980 la Fiat andò allo scontro frontale con gli operai. Iniziò una vertenza durissima che la multinazionale torinese sarebbe riuscita a vincere solo con la complicità attiva delle burocrazie di Cgil, Cisl e Uil. La sconfitta alla Fiat aprì una serie di arretramenti che ancora non si interrompe [Fabrizio Burattini]
Tutto era iniziato il 9 ottobre del 1979, quando la Fiat aveva licenziato 61 dipendenti, per una ragione prettamente politica: Cesare Romiti, allora da tre anni amministratore delegato della multinazionale dell’auto, intendeva eliminare i lavoratori più combattivi per ristabilire il comando aziendale, scosso nell’ultimo decennio dalle lotte operaie. I tre sindacati Cgil, Cisl, Uil e lo stesso Pci (preavvisati dalla direzione Fiat) decisero di lasciar fare e di consentire che nel dibattito pubblico le lotte operaie venissero associate al terrorismo.
Ma l’operazione non fu esclusivamente di ordine e di potere aziendale. Un anno dopo, esattamente 45 anni fa, l’11 settembre 1980, dopo una “trattativa” tra azienda e sindacati dell’esito già scritto, la Fiat annunciò il licenziamento di 14.469 dipendenti. Lo scopo di Romiti era quello di procedere ad una ristrutturazione profonda dell’azienda attraverso una radicale diminuzione della forza lavoro e un drastico aumento della produttività. Era per fare questo in “tranquillità” che un anno prima si era sbarazzato di 61 avanguardie operaie. Ma non aveva fatto i conti sul fatto che le avanguardie all’interno degli stabilimenti erano ben più di 61. Così, in quel settembre 1980 iniziano i 35 giorni ai cancelli.

Perché la reazione dei lavoratori fu immediata. Scioperi, cortei, manifestazioni, assemblee si moltiplicarono. I brevi scioperi di protesta proclamati dalla FLM (la Federazione lavoratori metalmeccanici che riuniva in una sola sigla Fiom-CGIL, Fim-CISL e Uilm-UIL) vennero prolungati dai lavoratori, con decisioni assunte all’unanimità nei reparti. Cortei improvvisati percorsero le vie attorno agli stabilimenti, s’incrociavano e si univano con quelli che uscivano dai reparti o che provenivano da altri stabilimenti del torinese, e si dirigevano verso il centro della città.
Gli operai del primo turno di Mirafiori proclamarono 8 ore di sciopero, sciopero che nei giorni successivi si prolungò “ad oltranza”, e che poi si tradusse nel blocco di tutti gli stabilimenti del gruppo, a partire da quello di Mirafiori. Ai cancelli di quella enorme fabbrica venne appeso uno stendardo con il ritratto di Marx dipinto dall’operaio Pietro Perotti.
Dopo una settimana di mobilitazioni, il 28 settembre cadde il governo Cossiga. Romiti sospese i licenziamenti ma, in cambio, mise in cassa integrazione a zero ore 23.000 operai, e dagli elenchi dei predestinati alla cassa integrazione si intuì che non si trattava solo di “esuberi”, ma della volontà di eliminare un’intera generazione operaia, quella dei consigli dei delegati, quella che aveva guidato il controllo operaio in fabbrica. Così, il “consiglione” di fabbrica di Mirafiori approvò una mozione che decretò il presidio di tutti i cancelli delle fabbriche e chiese ai sindacati di proclamare uno sciopero generale.
Dopo un mese di lotte e di blocco dei cancelli, un gruppo di quadri e impiegati della FIAT, guidato dal caporeparto Luigi Arisio, indisse una “assemblea dei quadri intermedi” dell’azienda per il 14 ottobre al teatro Nuovo. La platea di quell’assemblea (il teatro aveva una capienza di circa 1.000 posti), rafforzata da qualche migliaio di altre persone radunate all’esterno, dette così vita, nella tarda mattinata, alla “marcia dei capi”. Il Gazzettino regionale parlò di 20.000 persone, la Stampa nell’edizione della sera di 25.000. Nell’edizione del mattino si corresse: “erano 30.000”, mentre per Repubblica erano “40.000”.
Sarà la cifra che verrà scritta nei “libri di storia”, mentre il fatto che i capetti fatti affluire a Torino a spese della Fiat non fossero più di 10.000 (la stessa questura parlò di 12.000) resta solo nella memoria dei testimoni operai. Ad accreditare la dimensione del corteo reazionario e antioperaio contribuì lo stesso Luciano Lama, che parlò anche lui di “40.000”. Inoltre, i sindacati, nonostante le pressioni e le richieste formali delle assemblee e dei picchetti, si rifiutarono di indire una contromanifestazione per rispondere alla manovra aziendale e ai capetti.
In realtà, si trattava di una clamorosa messa in scena. Era tutto già preparato. All’indomani della marcia antisindacale, Cgil, Cisl e Uil si accordarono con la Fiat, che ottenne tutto quanto richiesto: 23.000 operai in cassa integrazione a zero ore. I sindacati ottennero in cambio la promessa del loro reintegro dopo la “ristrutturazione”. Nessuno di loro rientrerà mai più. Anzi, nel corso degli anni successivi, per la disperazione dello spiazzamento politico, sindacale e morale, si suicidarono più di 200 dei 23.000 cassintegrati (il cui coordinamento autorganizzato era guidato dal mio amico e compagno Raffaello Renzacci).
Il 15 ottobre, nella sala del cinema Smeraldo, si svolse l’assemblea del “consiglione” alla presenza di tutto il gotha delle organizzazioni sindacali (in primo luogo Luciano Lama, Pierre Carniti e Giorgio Benvenuto, segretari generali delle confederazioni, ma anche altri nomi noti: Bruno Trentin, Sergio Garavini, Fausto Bertinotti, Franco Marini). I delegati contestarono pesantemente la presentazione positiva dell’”ipotesi di accordo” fatta dai vertici sindacali. I burocrati con argomentazioni visibilmente false cercarono di rassicurare la platea, promettendo il prossimo rientro dei cassintegrati. L’altro mio amico e compagno Rocco Papandrea venne incaricato di fare la controrelazione per contrastare radicalmente gli argomenti dei vertici. Alla fine, la stragrande maggioranza dei delegati votò contro l’accordo, ma i dirigenti sindacali proclamarono “non valida” la seduta del Consiglio.
All’indomani, il 16 ottobre, trentasettesimo giorno del blocco dei cancelli, già dalle prime ore del mattino, mentre i quotidiani titolavano su di una presunta “approvazione dell’accordo”, in realtà mai avvenuta, file di camion si allineavano fuori di Mirafiori pronti a caricare le migliaia di auto pronte per la consegna ma bloccate all’interno dai presidi ai cancelli. Si riunirono le assemblee, reparto per reparto e turno per turno.
Io ero già da qualche tempo a Torino per dare una mano alle compagne e ai compagni operai impegnati nei picchetti, così, dopo aver assistito al consiglio dello Smeraldo, fui presente anche all’assemblea del mattino alle Meccaniche di Mirafiori, dove, sotto una pioggia torrenziale e una grande massa scura di ombrelli, centinaia di operai votarono, a larghissima maggioranza, contro l’accordo. E ascoltai, tra le urla e i fischi dei presenti, Pierre Carniti, il dirigente della Cisl che aveva tenuto l’assemblea, che proclamava, senza imbarazzo: “Approvato a grande maggioranza”.
Al secondo turno, le assemblee, consapevoli della gestione truffaldina di quelle del primo turno, furono ancor più burrascose, ma l’esito sarà analogo, con la stragrande maggioranza contro e con la proclamazione della “approvazione”. Dai cancelli si mossero alcuni cortei spontanei, e si verificarono brevi scontri con la polizia, ma in serata Cgil, Cisl e Uil annunciarono formalmente: “l’accordo è stato approvato”.
Con quella finzione beffarda della democrazia, con quella drammatica farsa crepuscolare, il sindacato, spudoratamente complice del padrone, forse inconsapevolmente ma con protervo “decisionismo”, mise la parola fine al “sindacato dei consigli” che aveva animato le lotte del decennio precedente e dichiarò ufficialmente il ritorno del comando padronale sui luoghi di lavoro.
Perché, iniziato con il licenziamento di 61 operai, proseguito con la cassa integrazione senza ritorno di altri 23.000, la storia non finì lì: dei 102.000 dipendenti della Fiat (cifre 1979), nel 1984 ne restavano 55.000. E negli anni successivi le diminuzioni continuarono, fino ai 40.000 dipendenti odierni di Stellantis-Italia (grandissima parte dei quali in cassa integrazione a zero ore o a rotazione).
Quel disastroso accordo, con la catena di dissennate scelte sindacali che ne era alla fonte, rifletteva, sul piano sindacale la “politica dei sacrifici”, la “scelta dell’austerità” proclamata nel quadro del suo “compromesso storico” dal PCI di Enrico Berlinguer, un dirigente che, chissà perché, oggi è venerato all’interno di una “sinistra radicale” fasulla, come se l’ulteriore degrado degli epigoni (D’Alema, Veltroni, Renzi…) potesse assolvere il primo dalle sue terribili responsabilità.
Quell’immagine rimarrà per sempre a futura memoria delle responsabilità di quella sconfitta imposta ai lavoratori, e che produsse una lunga serie di peggioramenti delle condizioni di lavoro e di vita che la classe operaia italiana ancora oggi paga.
Non a caso, nei giorni successivi, il ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, della “sinistra democristiana” scriverà che quegli avvenimenti alla Fiat erano stati “l’unico fatto politico vero degli ultimi dieci anni, che ha cambiato tutto il sistema delle relazioni industriali, ha messo KO il sindacato, ha ribaltato i rapporti tra la classe politica e quella imprenditoriale”.
- Qui una dettagliata cronologia della lotta Fiat del settembre-ottobre 1980 tratta dal libro “Con Marx alle porte”, pubblicato dalle Nuove Edizioni Internazionali, e scritto a più mani a non più di un mese di distanza dai fatti da una serie di attivisti politici e sindacali ccordinati appunto da Raffaello Renzacci.