58 anni fa, l’assassinio del “Che” Guevara

L’8 ottobre 1967, a La Higuera, nella provincia di Vallegrande (presso Santa Cruz, in Bolivia) il “Che” venne ferito e poi catturato da un reparto dell’esercito boliviano, sostenuto attivamente da reparti statunitensi e da agenti della CIA. L’indomani, esattamente 58 anni fa, il 9 ottobre 1967, venne ucciso [Andrea Martini]

Fino a quel momento il Che era noto solo negli ambienti della sinistra comunista, ammirata per la rivoluzione cubana e già da anni mobilitata contro l’imperialismo americano e soprattutto contro la sua criminale aggressione alla lotta di liberazione nazionale indocinese. Ma, da quel 9 ottobre, Ernesto Guevara, con il suo nomignolo “El Che”, divenne un eroe simbolo nella straordinaria ascesa politica e sociale che, non casualmente, si sviluppò proprio nei mesi successivi alla sua morte.

Nei decenni successivi, l’industria dell’informazione ha cercato di trasformarlo in un mito da consumare e da sfruttare, tentando di adattanrlo al gusto di ogni palato, associandolo abusivamente al mito romantico della motocicletta e dei viaggi on the road, a volte arrivando ad accostarlo persino a madre Teresa di Calcutta.

Ma per chi voleva realmente conoscerlo, sapere della sua vita e della sua azione concreta, leggere veramente i suoi scritti, non era difficile districarsi dall’agiografia e dall’iconografia consumistica e riprendere i suoi testi, comprenderne il terribile travaglio, interpretarne, senza farsi distogliere dai racconti celebrativi, la strategia, imparare a confrontarsi con la sua azione reale politica, militare e militante.

Il pensiero del “Che”, dopo il successo della rivoluzione cubana, strategicamente si articola attorno alla volontà di estendere la rivoluzione nell’America latina e nello sviluppare a livello planetario la lotta dei popoli contro l’imperialismo.

In lui era evidente la volontà di di utilizzare nel modo migliore possibile il sostegno logistico dei paesi del “socialismo reale” ma cercando di non sosttostare alla loro politica della “coesistenza pacifica”. Un tentativo che il Che mise in pratica senza cedimenti opportunistici alla burocrazia ammuffita che governava l’URSS e neanche a quella più loquace e battagliera, ma solo a parole, che governava la Cina.

Crebbe in quegli anni una generazione, sbrigativamente definita “guevarista” che cercò, con passione e dedizione, di praticare la lotta avendo l’esempio di Guevara. Soprattutto in America Latina, con risultati più evidenti in Argentina, in Brasile, nell’America centrale, molti giovani rivoluzionari adottarono la “teoria del foco”, cioè del focolaio guerrigliero, che, allora, fece discutere e ricevette numerose critiche ma anche altrettante adesioni.

Almeno due generazioni di latino-americani hanno sentito come supremo dovere non quello di girare il continente in motocicletta, ma quello di dare inizio ad una lotta armata che si trasformasse in una guerra di liberazione. E molti di questi sono morti dopo aver imbracciato il fucile.

Anche in Occidente, con meno successo e con molte più contraddizioni, l’esempio del “Che” ha condotto uomini e donne al disperato tentativo di impiantare una “guerra popolare” nei loro paesi, operando un’analisi e adottando una strategia fallimentare.

L’ascesa operaia e giovanile degli anni 60 e 70 si spense per il tradimento operato dalle direzioni maggioritarie della sinistra riiformista e collaborazionista politica e sindacale (in Italia esemplificata dalla strategia politica del “compromesso storico” e dalle scelte sindacali dell’EUR). Ma anche le scelte avventuristiche e “avanguardiste” di altre formazioni contribuirono a rendere più agevole per le classi dominanti il far archiviare quel periodo come gli “anni di piombo”.

Tutto ciò, comunque, anche a distanza di quasi 6 decenni, non cancella qualle che possiamo tuttora chiamare l’“eredità del Che”.

In primo luogo, il contributo determinante che dette alla Rivoluzione cubana, non solo nel periodo dell’eroica guerriglia, ma anche dopo, una volta preso il potere, sulla riforma agraria, sulla politica della Banca nazionale cubana, con i suoi scritti sulla politica economica, sugli incentivi morali piuttosto che sugli incentivi materiali, sull’”uomo nuovo”, con i suoi inteventi all’assemblea dell’ONU.

Ma c’è stato anche l’esempio militante del Che, fece capire a milioni di giovani e di lavoratori che non basta parlare. Che occorre agire, e agire in prima persona, per tentare instancabilmente di crearle le condizioni rivoluzionarie e l’organizzazione politica necessaria ad affrontarle una volta che esse si saranno prodotte. Fu un insegnamento che si combinò con l’esempio della lotta del popolo vietnamita in corso in quegli anni, e che il Che condensò nella frase: “creare due, tre, molti Vietnam”.

Ma l’insegnamento non si limita a questo. Il Che si distaccò nella pratica (e in qualche modo anche nei suoi scritti) dall’idea dominante nel “movimento comunista internazionale”, quello del socialismo “in un solo paese”, della lotta socialista come strategia nazionale, paese per paese. La sua scelta di considerare l’America Latina un unico territorio conteso tra rivoluzione e controrivoluzione, quella che lui chiamava la “Patria grande”, rifiutando di considerarsi argentino e persino cubano (nonostante il governo rivoluzionario castrista lo avesse formalmente definito “Cittadino cubano per diritto di nascita”), fu alla base del suo integrale internazionalismo, perché per lui la rivoluzione, pur mantenendo una specificità paese per paese, costituiva un unico processo, perché unico è il dominio dall’imperialismo e dei suoi servi nazionali.

E quel suo internazionalismo latinoamericano, anche complice l’esempio algerino e la lotta vietnamita, non tardò a diventare “tricontinentale”, accomunando e intrecciando tutte le lotte antimperialiste e di liberazione in corso nei tre continenti vitteme del colonialismo occidentale, l’America larina, l’Asia e l’Africa.

In questo momento di atroce confusione, di fronte al mondo del XXI secolo, segnato dal declino pluridecennale dell’imperialismo americano, dallo svanire del “socialismo reale”, con la sua forza e i suoi orrori, dall’emergere di nuovi imperialismi non meno efferati di quello un tempo dominante, non sappiamo come avrebbe reagito il Che.

Ogni ipotesi speculativa sarebbe abusiva e comunque inutile. Resta che il suo sacrificio, il suo esempio di estremo volontarismo (quello che trent’anni prima Antonio Gramsci aveva definito come “ottimismo della volontà”), i suoi insegnamenti restano preziosi e ci aiutano nell’affrontare le nuove sfide con il medesimo obiettivo, quello della rivoluzione socialista (oggi diciamo ecosocialista) mondiale.