Accordo USA-UE, una “Monaco” economica
Dal sito Mediapart riprendiamo una prima valutazione sull’accordo sui dazi tra Trunp e Ursula von der Leyen dell’economista francese Maxime Combes, da cui il taglio parziale e molto “francese” dell’articolo, comunque utile per le informazioni in esso contenute. (red)
C’è motivo di essere costernati. Bruxelles cede alle richieste leonine di D. Trump: proclamata a gran voce, «l’autonomia strategica europea» è appena andata in frantumi, rivelando al contempo una vacuità geostrategica, il rifiuto ideologico di limitare le nostre dipendenze esterne e, di riflesso, la debolezza di E. Macron e della Francia a Bruxelles.
Lo scorso 10 aprile, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva affermato di «voler dare una possibilità ai negoziati». A meno di quattro mesi di distanza, il verdetto è inequivocabile: l’UE non si è data alcuna possibilità di resistere al diktat di D. Trump, preferendo cedere piuttosto che combattere, capitolare piuttosto che aprire una via alternativa, accettare l’inaccettabile piuttosto che ridurre le nostre dipendenze esterne e costruire una vera autonomia strategica e politica.
Ecco alcune prime osservazioni:
1. Un «accordo» leonino, brutale e asimmetrico
Sebbene al momento non vi sia un accordo vero e proprio, ma solo una dichiarazione politica con scarse basi giuridiche da parte europea i termini di questo «accordo politico» sono noti: dazi doganali del 15% con alcune eccezioni (aeronautica, alcolici, medicinali), tra cui una sull’acciaio e l’alluminio tassati al 50%, un mercato europeo che deve aprirsi maggiormente ai prodotti statunitensi (compresi quelli agricoli), un impegno di 600 miliardi di dollari di investimenti sul suolo statunitense, l’acquisto di 750 miliardi di dollari di gas fossile statunitense nei prossimi 3 anni, nonché l’acquisizione di una «grande quantità di attrezzature militari [americane]».
In cambio di cosa? Della promessa dell’UE di non intraprendere ritorsioni commerciali. Si tratta di un accordo totalmente asimmetrico, a esclusivo vantaggio politico di D. Trump. Per giustificarlo, U. Von der Leyen e i sostenitori di questo accordo affermano che è in cambio della “stabilità”, dell’assenza di una “guerra commerciale” e della possibilità concessa alle imprese dell’UE di continuare ad esportare sul territorio statunitense: di quale “stabilità” si parla quando i dazi doganali sono stati moltiplicati per 7 in 6 mesi e quando non vi è alcuna garanzia che D. Trump, forte di questo primo successo politico, non torni rapidamente alla carica?
2. Il prezzo della nostra dipendenza dalle esportazioni
Per non chiudere il mercato statunitense alle multinazionali europee, Ursula Von der Leyen accetta, a nome nostro, dei 450 milioni di europei, di finanziare a caro prezzo le scelte economiche di D. Trump, ovvero ridurre le tasse dei più ricchi americani e riportare sul suolo statunitense le attività economiche e industriali. Se questo «accordo» dovesse essere trasformato in un trattato internazionale e convalidato dalle istituzioni europee, due passaggi ancora incerti in questa fase, sarebbe una delle più grandi estorsioni economiche liberamente consentite della storia.
Va ricordato che, contrariamente all’immagine che se ne ha abitualmente, l’economia statunitense è meno dipendente dai mercati mondiali per il suo approvvigionamento e i suoi sbocchi rispetto ad altre regioni del mondo. Se l’UE importa ed esporta per un valore pari al 22% e al 23% del PIL europeo (rispettivamente l’1,8% e il 2,8% con gli Stati Uniti) e se queste cifre sono del 18% e del 20% per la Cina, esse sono solo del 14% e dell’11% per gli Stati Uniti. Sebbene ne derivi un deficit commerciale pari al 3% del PIL, l’economia americana è comunque meno sensibile agli aumenti dei dazi doganali rispetto alle altre due potenze economiche mondiali.
D’altra parte, la nostra dipendenza economica – ed energetica – dalle esportazioni ci sta costando molto cara: se LVMH e Volkswagen continueranno a esportare negli Stati Uniti, l’UE dovrà pagare una tassa esorbitante che peserà sull’economia europea. Il rifiuto della Commissione europea e di molti Stati europei, ossessionati dalla loro competitività esterna, di sfruttare l’opportunità di ridurre la nostra esposizione ai mercati mondiali è economicamente e politicamente costoso a breve, ma anche a lungo termine: molte aziende saranno così incoraggiate finanziariamente a localizzare le loro attività direttamente negli Stati Uniti.
Sul territorio europeo, ci sarà una pressione ancora maggiore per “rafforzare la competitività europea al fine di continuare a guadagnare quote di mercato” (parole del ministro francese del Commercio estero), in altre parole la ricetta che è stata applicata per anni all’interno dell’UE: comprimere la domanda interna e sostituire il tradizionale stato sociale con uno stato sociale per le aziende private – un welfare aziendale – moltiplicando il sostegno pubblico incondizionato per le (grandi) aziende che minacciano di lasciare il territorio europeo. Questo porterà inevitabilmente al dumping sociale nei settori più esposti alla concorrenza internazionale. Il tutto per permettere a poche (grandissime) aziende di continuare a esportare negli Stati Uniti.
3 Una speranza vana, una nuova epoca, non una parentesi
La Commissione europea e molti Stati europei si comportano come se l’elezione di D. Trump fosse solo un momento negativo e che si debba lasciar passare la tempesta per rivedere un “ritorno alla normalità”. Da mesi Bruxelles cede a Trump, sia sulla tassazione dei GAFAM sia sulla global minimum tax da cui le multinazionali statunitensi sono state esentate con il consenso europeo. Trump non deve essere disturbato”, dicono, per smorzare ogni accenno di ritorsione commerciale e seppellire ogni possibilità di costruire un equilibrio di potere. Si tratta chiaramente di una strategia economicamente e politicamente perdente.
Quando si è trattato sul contenuto effettivo di questi negoziati, i leader europei si sono rifiutati di condurre la battaglia e hanno lasciato che D. Trump definisse i termini del dibattito: ossessionato dal deficit commerciale degli Stati Uniti nei beni (198,2 miliardi di euro secondo la Commissione europea), ha dimenticato il surplus degli Stati Uniti nei servizi (148 miliardi di euro). Invece di sottolineare questo grave squilibrio che, oltre a squilibrare le relazioni commerciali, mina ogni desiderio di indipendenza tecnologica dell’Europa, i leader europei si sono rifiutati di affrontare la questione: nel suo stesso comunicato stampa, U. Von der Leyen non ha forse affermato che le importazioni di chip americani “aiuteranno gli Stati Uniti a mantenere il loro vantaggio tecnologico”?
4. Una vittoria politica per l’estrema destra
L’accordo Trump-Von der Leyen è chiaramente una vittoria politica di D. Trump, che sta convincendo l’UE ad allinearsi ai suoi desideri. Presentando questo accordo asimmetrico come un buon accordo, o come il meno peggiore degli accordi, Bruxelles e le capitali europee, compresa la Francia, stanno dando ragione a Donald Trump. Ma, cosa ancora più grave, si tratta anche di una vittoria politica per l’estrema destra europea: mentre Bruxelles diceva che l’accordo tra Stati Uniti e Regno Unito (tariffe al 10%) era un cattivo accordo e che l’UE ne avrebbe ottenuto uno molto migliore, i leader europei dovranno remare per dimostrarlo.
Quando tutti i discorsi sull’autonomia strategica europea, su un’Europa potente e sulla reindustrializzazione dell’Europa crollano come un castello di carte al primo colpo, ci sono pochi dubbi sul fatto che non è l’integrazione europea, né la sinistra, a trarre vantaggio da una simile resa: Capitolare di fronte a Trump per salvare, a qualsiasi costo, le quote di mercato di alcune multinazionali europee, invece di usare il “bazooka commerciale” falsamente sventolato dalla Commissione europea, sta di fatto fornendo un terreno di coltura per l’estrema destra europea, che ora ha un viale per denunciare la capitolazione europea e indicare D. Trump come esempio da seguire. In un contesto di impotenza europea, questo è un incubo che diventa realtà.
5. Un accordo che mina la politica climatica europea
Se l’acquisto di 750 miliardi di dollari di gas naturale liquefatto e altri combustibili fossili dagli Stati Uniti in tre anni, giustificato in nome della riduzione delle importazioni europee di gas russo, dovesse essere confermato, ciò equivarrebbe a :
rinunciare a ridurre le nostre importazioni complessive di gas e sostituire una dipendenza con un’altra;
avallare la necessità di continuare a investire decine di miliardi di euro in infrastrutture per ricevere il GNL nei porti europei;
affidare a Washington una parte della politica energetica europea, come abbiamo fatto in passato con Mosca;
sedersi sulla politica climatica europea quando dobbiamo ridurre drasticamente il nostro fabbisogno di combustibili fossili;
6. “Un accordo al di fuori della legge?
I commenti su questo punto sono stati scarsi. In questa fase, l’accordo non è altro che una vaga comunicazione orale tra D. Trump e U. Von der Leyen. Non esiste un testo dell’accordo, né tantomeno l’inizio di un trattato internazionale. In questa fase, questo “accordo” non ha alcuna esistenza legale. Peggio ancora, a livello europeo, la Commissione europea non ha alcun mandato nella forma dovuta per negoziare con gli Stati Uniti: non esiste alcuna decisione che stabilisca la base giuridica su cui la Commissione possa negoziare con gli Stati Uniti a nome dei 27 Stati membri. La Francia, il cui Primo Ministro oggi critica la dichiarazione di U. Von der Leyen, ha permesso alla Commissione di negoziare senza un mandato, senza una base giuridica. Va ricordato che l’80% degli europei, tra cui l’83% dei francesi, chiede ritorsioni commerciali contro gli Stati Uniti (Eurobarometro 2025).
Per quanto riguarda gli annunci fatti, essi sono chiaramente contrari al diritto dell’OMC (dazi doganali differenziati tra Paesi, non reciprocità, ecc.). Mentre l’UE afferma da anni di voler lavorare all’interno del quadro commerciale dell’OMC, annunciando questo accordo Ursula Von der Leyen disobbedisce alle regole dell’OMC. Se le regole dell’OMC non sono più un vincolo, allora è possibile rivedere interi settori della politica commerciale europea. Sarebbe più opportuno che sottomettersi ai diktat di D. Trump.
Conclusione: cosa stanno facendo E. Macron e il governo?
Alcuni giorni contano. Giorni che rivelano ciò che si nasconde dietro i discorsi magniloquenti e che sparpagliano come in un puzzle le false affermazioni di una comunicazione di facciata. Domenica 27 luglio è un giorno di questo tipo. Un giorno che si iscriverà nella giovane storia dell’integrazione europea. Un giorno che evidenzia l’impotenza politica dell’UE sulla scena internazionale. Un giorno che illustra anche la debolezza politica di E. Macron e della Francia a Bruxelles. In sei mesi, Ursula Von der Leyen ha concluso l’accordo UE-Mercosur e questo accordo con Trump. Entrambi contro il parere di Parigi. Cosa stanno facendo Emmanuel Macron e il governo oltre a commentare e twittare?
Note:
i Ponderata per il commercio, la tariffa statunitense preesistente all’elezione di Trump sulle importazioni dall’UE era solo dell’1,6%.
Maxime Combes, è economista e autore di Sortons de l’âge des fossiles! Manifeste pour la transition (Seuil, 2015) e coautore di “Un pognon de dingue mais pour qui? L’argent magique de la pandémie” (Seuil, 2022).