Il capitalismo sta autodistruggendosi?
di Norbert Holcblat* (da MPS Ticino)
In questo articolo, Norbert Holcblat discute il recente libro di Tom Thomas (Anatomie du chaos. La destruction du capitalisme par lui-même, Éditions critiques, 2024). Ne approfitta per tornare sui dibattiti molto accesi sul futuro del capitalismo: quali sono le cause del suo declino? Sta per raggiungere limiti insuperabili? Può sopravvivere al prezzo dell’instaurazione di una nuova forma di fascismo?
Il futuro del capitalismo è un dibattito antico tra gli economisti (quelli che si occupavano o si occupano ancora di economia politica). Per molti, marxisti ma non solo (come Joseph Schumpeter -1883-1950, il teorico della distruzione creativa e delle innovazioni, che se ne rammaricava ma riteneva che ci fosse una forte probabilità che il capitalismo non potesse sopravvivere [1]), il capitalismo non aveva davanti a sé l’eternità. Le sue contraddizioni lo destinavano, secondo gli autori, a soffocare o a crollare.
Da Marx in poi, numerosi pensatori marxisti, da Rosa Luxemburg in L’accumulazione del capitale a Ernest Mandel, hanno quindi approfondito da diverse angolazioni lo sviluppo delle contraddizioni che potrebbero portare a una crisi di grande portata, con un consenso quasi generale su un punto: il capitalismo potrà essere sostituito (almeno da una formazione sociale non barbarica) solo se rovesciato dall’azione del proletariato. Sarebbe troppo lungo riprendere le sfumature o le vere divergenze tra questi autori.
Oggi questa problematica presenta in realtà due aspetti: esistono limiti al capitalismo che possono portare a una morte più o meno lenta? Se la risposta è affermativa, questi limiti sono stati raggiunti o sono in procinto di esserlo? Lo sviluppo della «robotizzazione» delle tecniche produttive e la presa di coscienza delle ricadute ambientali del capitalismo hanno rinnovato la riflessione.
Ernest Mandel ha esaminato il potenziale impatto dell’automazione: «l’estensione dell’automazione oltre un certo limite porta inevitabilmente, in primo luogo, a una riduzione del volume totale del valore prodotto, poi a una riduzione del volume del plusvalore realizzato. Ciò a sua volta innesca una quadrupla “crisi di collasso”. [2] .
L’altro limite preso in considerazione nei lavori recenti è quello che François Chesnais ha definito «barriera ecologica e climatica insuperabile» in un testo intitolato «Il capitalismo ha incontrato limiti insuperabili?» [3]. In questo testo, Chesnais punta il dito sia contro il limite legato all’automazione (riprendendo Mandel su questo punto) sia contro quello derivante dalla catastrofe ambientale: i due limiti assoluti o barriere contro cui il capitalismo dovrebbe scontrarsi sono quindi l’automazione e l’ambiente.
Michel Husson, da parte sua, si è interrogato su questo concetto di limite invalicabile: «Non è detto, in definitiva, che l’analisi prospettica dei danni del capitalismo sia meglio illuminata dal concetto di limiti assoluti, “invalicabili”, contro cui si scontrerebbero la regressione sociale e il degrado ambientale. Ciò che occorre comprendere e spiegare è la crescente interconnessione di questi processi all’interno di una ‘catastrofe silenziosa in atto’ [espressione ripresa da Daniel Tanuro] che non ha altro limite che le resistenze sociali».[4].
In realtà, Chesnais e Husson concordano nel prevedere una società sempre più barbara se il capitalismo non verrà rovesciato. La rivoluzione tecnologica, che non ha ridato slancio al capitalismo nel lungo periodo [5], fornirebbe inoltre tecniche di controllo della popolazione e quindi di mantenimento dell’«ordine sociale».
Questa introduzione un po’ lunga era indispensabile per contestualizzare i precedenti delle posizioni avanzate da Tom Thomas nel suo libro. Precedenti che non vengono mai menzionati. Tom Thomas è un autore prolifico: dall’inizio degli anni ’90 ha scritto una ventina di libri che mirano ad analizzare ed esplorare le condizioni che determinano il nuovo ciclo di lotte rivoluzionarie che, secondo lui, si sta delineando in funzione sia della crisi del capitalismo che dell’emergere di molteplici lotte dopo i fallimenti del secolo scorso.
Anatomia del caos sviluppa una tesi centrale e riafferma, in modo spesso poco sfumato, la validità degli scritti di Marx. La tesi fondamentale dell’opera è riassunta fin dall’inizio dall’autore: il limite è già stato ampiamente raggiunto e se c’è «senilità» del capitalismo, «è perché la produzione di plusvalore tende a stagnare, se non addirittura a regredire, poiché la sua fonte, essenzialmente il lavoro operaio, ha finito per esaurirsi, paradossalmente proprio sotto l’effetto degli sforzi compiuti dai dirigenti capitalisti per aumentare tale produzione» (pagina 15). Questo punto è ampiamente sviluppato nel corso del libro.
A sostegno di questa presunta eliminazione del lavoro umano vengono citate cifre stranamente errate. Secondo queste cifre, provenienti soprattutto dai costruttori automobilistici, la quota dei costi di manodopera nell’industria sarebbe inferiore al 20%, o addirittura vicina al 10% (p. 17). Il problema è che questi dati non tengono evidentemente conto del lavoro incorporato nei beni intermedi provenienti da subappalti o importati.
Uno studio dello stesso periodo citato da Thomas lo dice chiaramente a proposito dei mezzi di trasporto: «Al costo diretto della manodopera nella produzione, che rappresenta il 12% delle vendite, occorre aggiungere il costo indiretto della produzione di questa catena di acquisti intermedi. Il calcolo mostra che tale costo ammonta al 44% del prezzo di vendita dei prodotti di questo settore. Per un totale del 56%».[6]
Uno studio più recente dell’INSEE sulla quota dei salari bassi e medi nella produzione indica: «La produzione di un bene o di un servizio mobilita i dipendenti dell’azienda, ma anche una serie di consumi intermedi la cui produzione richiede anch’essa l’impiego di dipendenti (lavoro indiretto). Sull’insieme dei beni e dei servizi, il costo del lavoro diretto e indiretto rappresenta quindi la metà del valore della produzione. Due terzi di questo costo provengono dal lavoro diretto e un terzo dal lavoro indiretto».[7]
Il lavoro umano rimane quindi per il momento essenziale nella produzione capitalista (il che ovviamente non giustifica in alcun modo la compressione dei salari). Lo dimostra anche l’espansione mondiale del lavoro salariato industriale (in gran parte ignorata da Thomas).
Per Tom Thomas, questa difficoltà di estrarre plusvalore aggiuntivo è alla base del rallentamento della crescita della produttività (effettivamente verificato nonostante lo sviluppo delle nuove tecnologie, ma le cui cause sono complesse) e degli investimenti a causa del calo dei tassi di profitto.
In questa situazione, gli aiuti pubblici, l’espansione del capitale finanziario e le spese militari costituiscono altrettanti sostegni per il capitale. Ciò è ovviamente indiscutibile. Secondo l’autore, le NTIC e l’IA avranno pochi effetti positivi, se non quello di consentire un controllo sempre più totalitario sui lavoratori (e di estrarre un po’ più di plusvalore assoluto) e, oltre a ciò, sulla popolazione.
Inoltre, spiega giustamente Tom Thomas, le nuove tecnologie hanno un impatto ambientale negativo perché richiedono enormi quantità di energia e acqua e comportano l’estrazione inquinante (e anche consumatrice di acqua ed energia) di minerali e metalli.
Seguono sviluppi sulle impasse dell’agricoltura capitalista e sulla salute: i progressi sanitari hanno permesso di allungare l’aspettativa di vita, ma non sfuggono alle esigenze del capitale. Numerose patologie sono correlate agli stili di vita e alle condizioni di lavoro. La cura, sottolinea l’autore, costa più cara alla società della prevenzione, ma è una fonte di profitti più importante.
Se questi sviluppi sono tra i più interessanti del libro, sono seguiti da considerazioni per lo meno schematiche sugli scienziati, ridotti per lo più, secondo l’autore, al ruolo di fedeli servitori del capitale.
Tom Thomas sottolinea giustamente che il capitalismo è oggi intrappolato in un groviglio di contraddizioni multiple che impediscono una ripresa economica sostenibile: rilanciare la crescita significa aggravare i problemi ecologici che hanno ripercussioni sui costi economici e umani di tale crescita. Da questa incapacità di ridare nuova linfa al caos attuale «generato dall’autodistruzione del capitale» (p. 106) potrebbe emergere qualcosa di positivo attraverso le rivolte popolari.
In questo contesto, estrapola Thomas, «si contrappongono quindi due vie, e solo due, per il futuro dell’umanità. Una suicida [cioè che accompagna questa autodistruzione], l’altra rivoluzionaria, comunista» (pagina 107). Per Tom Thomas, «le basi materiali» della nuova società comunista «sono già ampiamente presenti in questo capitalismo senile» (p. 110).
Anche qui c’è materia di discussione: di cosa stiamo parlando esattamente? Se si tratta dell’apparato produttivo, è chiaro che quello che verrebbe lasciato in eredità dal capitalismo sarebbe in gran parte di utilizzo problematico nel quadro di una transizione verso un socialismo ecologico. Non basterà «prendere le fabbriche» come si canta nella Jeune Garde (anche se questo sarà indispensabile), ma sarà necessario trasformarle.
Nel contesto di crisi, un nuovo fascismo potrebbe essere all’orizzonte, ma, come sottolinea Tom Thomas, un primo punto essenziale lo distingue dal fascismo degli anni ’30: l’interpenetrazione degli apparati produttivi impedisce di spingersi molto lontano nel nazionalismo economico e politico. È vero che il libro è stato scritto prima del ritorno al potere di Donald Trump. Resta tuttavia da vedere la portata dello sconvolgimento che la politica irregolare di quest’ultimo introdurrà nella globalizzazione e nelle relazioni politiche internazionali.
D’altra parte, questo neofascismo si differenzia dai suoi predecessori anche per un altro aspetto: la forma di esercizio del potere. Certo, la demagogia nazionalista, anti-islamica e anti-immigrati è uno strumento essenziale della borghesia e la repressione è sempre più la risposta ai movimenti popolari, ma l’arma concreta più efficace dei dominanti è, spiega Thomas, la tecnologia e ciò che essa consente in termini di manipolazione, sorveglianza e controllo delle popolazioni, mettendo all’orizzonte un «potere tecno-dispotico» (p. 132), molto autoritario ma lontano dalle forme di esercizio del potere dei fascisti degli anni ’30.
Le nuove tecnologie, insiste l’autore, non possono nulla contro la senilità del capitale, ma sono uno strumento efficace contro le rivolte. Ci sarebbe materia per definire più precisamente il contenuto sociale e i contorni politici del «tecno-dispotismo», ma, in ogni caso, questo termine può sembrare più appropriato per caratterizzare ciò che già si sta delineando rispetto a quello di «tecno-feudalesimo» [8].
Nelle ultime pagine del suo libro, l’autore torna su ciò che per lui è alla base del caos contemporaneo, dell’“autodistruzione del capitale” (p. 133): la drastica diminuzione della quantità di lavoro che produce plusvalore. Di passaggio, egli incrimina aspramente coloro che considerano il capitale finanziario come l’origine dei mali attuali dell’economia e della società e che propongono pseudo-soluzioni.
Infine, «non c’è bisogno di una rivoluzione comunista perché il capitalismo crolli, ma abbiamo bisogno di una rivoluzione del genere affinché l’umanità non crolli con esso» (p. 163). Per questo, spiega, devono esserci le condizioni politiche. Ma su questo piano l’autore rimane astratto e, schematicamente, si limita ad affermare la necessità dell’esistenza di un partito in grado di centralizzare le esperienze e, come scriveva Lenin, di «fare l’analisi concreta della situazione concreta». L’analisi della situazione concreta? Si può pensare che sia proprio questo che manca a molti sviluppi di questo libro.
*articolo apparso su contretemps il 25 maggio 2025.
[1] Joseph A. Schumpeter, «Capitalismo, socialismo e democrazia», 1942.
[2] Ernest Mandel, Introduzione al libro III del Capitale, Penguin Books, 1981
[3] Il capitalismo ha incontrato limiti insuperabili? – Contro
[4] Vedi: https://alencontre.org/economie/le-capital-financier-et-ses-limites-autour-du-livre-de-francois-chesnais.html
[5] Cfr. in particolare Cédric Durand, « Faut-il se passer du numérique pour sauver la planète ? », Editions Amsterdam, 2025
[6] Vedi: Rémy-Prudhomme-Coût-du-travail.pdf
[7] Vedi: https://www.insee.fr/fr/statistiques/3901151
[8] Su questo punto, vedi i lavori di Cédric Durand.