L’insediamento di Donald Trump

di Fabrizio Burattini

Trump, invece, ieri ha smentito clamorosamente tutte queste attese, mostrando di essere sempre lo stesso, anzi, semmai di essere sempre più il rozzo e ripetitivo imbonitore e demagogo capace però di convincere la maggioranza dell’elettorato nordamericano, almeno di quella parte che si è decisa a votare. In questo secondo discorso abbiamo sentito lo stesso messaggio di fondo del primo: sotto l’élite corrotta rappresentata dai suoi oppositori, l’America stava diventando un inferno, ma con Trump al comando ora il paese potrà godere di una nuova “età dell’oro” di pace e prosperità realizzata attraverso un programma “America First” di repressione dell’immigrazione, di protezionismo e di unilateralismo in politica estera.

Forse, in questo suo secondo discorso, forte di risultati elettorali più solidi (stavolta ha vinto anche nel voto popolare), è stato meno rabbioso ma anche più spavaldo, più sicuro di sé, anche perché è più consapevole del fatto che i democratici sono incapaci di costruire un’opposizione degna di questo nome alle sue politiche, ma anzi stanno sventolando la bandiera bianca della resa, come si vede anche nell’orientamento di molti parlamentari democratici decisi a sostenere la legge anti-immigrazione presentata dai repubblicani trumpiani. Trump sa che la situazione è questa ed è determinato a sfruttare a pieno la loro debolezza, per “fare le cose in grande”.

Il discorso di Trump si è basato sulla sicurezza di un leader che sa che i suoi rivali sono sconfitti e sono impegnati a leccarsi le ferite. Tanto sicuro da rivendicare un mandato affidantogli non solo dagli elettori ma da “Dio” e ha detto: “Come ha dimostrato la nostra vittoria, l’intera nazione si sta rapidamente unendo dietro il nostro programma, con importanti aumenti del sostegno da parte di ogni elemento della nostra società: giovani e anziani, uomini e donne, afroamericani, ispanoamericani, asiaticoamericani, urbani, suburbani, rurali e, cosa molto importante, abbiamo avuto una potente vittoria in tutti e sette gli stati indecisi e abbiamo ottenuto il voto popolare da decine di milioni di persone”, cancellando i risultati reali di un voto in realtà risicato, ma esaltato dalla débacle dell’avversaria.

Ha ricordato, tra gli applausi, come mesi fa, in Pennsylvania, “il proiettile di un assassino mi ha trafitto l’orecchio. Ma allora ho sentito, e credo ancora di più ora, che la mia vita è stata salvata per un motivo. Sono stato salvato da Dio per rendere di nuovo grande l’America”. Dunque, convinto che sia gli elettori americani che il creatore siano dalla sua parte, Trump ha rilanciato il suo programma, basato sul suprematismo, sulla militarizzazione del confine meridionale e su una politica radicale di deportazione, su un totale negazionismo climatico.

Ha rivendicato il ritorno alla nozione ottocentesca del “grande presidente” William McKinley, quella del Manifest destiny, il destino manifesto che assegnerebbe agli Stati Uniti d’America la missione di espandersi, e di diffondere la loro forma di libertà e democrazia, una missione che l’espressione di McKinley definisce evidente (“manifesta”) e inesorabile (“destino”).

Una missione che, aggiornata al XXI secolo, include non solo l’imperialismo vecchio stile (con la promessa di riprendersi il Canale di Panama), ma anche una nuova espansione nelle zone più remote dello spazio, piantando, come ha proclamato Trump, la “bandiera a stelle e le strisce sul pianeta Marte”.

La sua affermazione di voler unificare l’America è volgarmente smentita dalla sua politica profondamente reazionaria, che mira esplicitamente a far regredire il progresso sociale compiuto negli ultimi decenni dalle persone di colore (ha chiesto la fine dei programmi di tutela delle “diversità” sul posto di lavoro) e dalle minoranze sessuali (decretando, con gran gioia per i reazionari di tutto il mondo, che “ci saranno solo due generi”).

La risicata vittoria elettorale di Trump non gli dà nemmeno lontanamente un mandato per la politica di destra che promette. Sfortunatamente, Trump ha giudicato correttamente il momento: finché i democratici sono demoralizzati, ha la possibilità di schiacciarli per portare avanti il ​​suo programma.

Ma l’immagine più notevole dell’inaugurazione di Donald Trump come 47° presidente degli Stati Uniti è quella della prima fila di miliardari alla cerimonia di giuramento: Elon Musk, Jeff Bezos, Mark Zuckerberg, insieme a un gruppo di titani meno noti (nella foto qui sopra). Saranno loro i principali beneficiari della seconda presidenza di Trump. Si pensi solo che ai miliardari invitati, il cui patrimonio netto complessivo supera i 1.200 miliardi di dollari, è stato permesso di portare con sé i propri coniugi, cosa che è stata negata ai parlamentari, peraltro titolari della sede in cui la cerimonia si svolgeva.

D’altra parte i miliardari plaudenti in fila avevano tutti fatto donazioni a sette cifre al fondo per l’inaugurazione, e si preparano a lauti ritorni per i loro investimenti. Solo Musk, come si sa, ha visto il suo ineguagliabile patrimonio aumentare a un ritmo incredibile da quando ha versato 270 milioni di dollari a sostegno della rielezione di Trump. Il suo patrimonio da novembre a oggi è aumentato di altri 222 miliardi di dollari, superando i 500 miliardi. Non c’è da stupirsi dell’entusiasmo eccitato che lo ha spinto a un esplicito “saluto romano” (e, chissà, forse a bisbigliare “Sieg Heil” al termine della cerimonia di insediamento).

Il lancio propagandistico di una nuova criptovaluta da parte di Donald Trump proprio il giorno prima del suo insediamento è servito a rassicurare questa fetta “innovatrice” del mercato finanziario, per dire ai promotori delle criptovalute “tranquilli, sono uno di voi” e “firmerò un ordine esecutivo per invertire le politiche di Biden che hanno separato il trading di criptovalute dalle operazioni bancarie tradizionali, annullerò l’attuale sistema contabile che classifica le criptovalute come passività nei bilanci delle istituzioni finanziarie e caccerò l’attuale capo della Securities and Exchange Commission, Gary Gensler, un feroce critico delle criptovalute, sostituendolo con Paul Atkins, ex copresidente del gruppo promotore delle criptovalute Token Alliance”.

D’altra parte, David Sacks, uno dei fondatori del sistema PayPal, è già satto indicato dal neo presidente come responsabile dell’intelligenza artificiale e delle criptovalute. Ricordiamo che i promotori delle criptovalute erano stati molto generosi nell’estate scorsa nel sostenere con laute donazioni la campagna di Trump, hanno ora sostenuto con l’elargizione di più di 10 milioni di dollari la cerimonia dell’inaugurazione e hanno organizzato a loro spese un concerto inaugurale non ufficiale venerdì scorso in un auditorium di Washington.

La “rivoluzione Trump” e Giorgia Meloni

Le rivoluzioni dall’alto, le “rivoluzioni passive” non hanno bisogno di un’ora “X”, perché vengono attuate da soggetti politici e sociali che già detengono il potere. Si tratta di trasformazioni dall’alto, dalle stanze del potere, dalla “stanza dei bottoni”, dei meccanismi e dei riti di funzionamento della società. Si è molto dibattuto, sia nella sinistra americana, sia in quella mondiale, se Trump e i suoi siano “fascisti”, così come da noi, in Italia, ci si chiede se e in quale misura lo siano Giorgia Meloni e il suo partito.

Al di là di qualche evidente analogia simbolica e culturale, la risposta a questi interrogativi ce la daranno gli sviluppi prossimi. Resta che, dopo i tanti, troppi avanzamenti e affermazioni dell’estrema destra in numerosissimi paesi, l’elezione e l’insediamento di Trump alla Casa Bianca costituiscono un’ulteriore, determinante e inquietante evoluzione di questa tendenza, sia evidentemente negli Stati Uniti, sia, per l’importanza planetaria della sua posizione, a livello mondiale.

I giornali liberal italiani (Repubblica in testa) si beano a descrivere come Giorgia Meloni sia stata, sì, presente a Washington all’inaugurazione ma come personaggio di secondo piano. Ma la sua presenza (unico personaggio politico europeo) indica comunque un successo. Come avevamo con facilità predetto, le scelte tattiche adottate da Giorgia Meloni, il suo accreditamento presso l’estrema destra europea ma anche presso la destra liberale e la stessa Von Der Leyen, abbinato con la vicinanza ostentata con donald Trump e con Elon Musk, la collocano in una posizione privilegiata nella complessa partita geopolitica che si aprirà nelle prossime settimane tra gli USA trumpiani e l’Unione europea.

Il nuovo Trump

Trump e i suoi, a differenza del primo mandato di 8 anni fa, questa volta hanno un piano, il programma autoritario Project 2025, e hanno predisposto un governo fedele per attuarlo. Le loro priorità sono ben note: tagli alle tasse per i ricchi, austerità per gli altri; deregolamentazione e attacchi a parti dello stato amministrativo e militarizzazione di altre partidello stato; deportazioni di massa; guerra alle persone trans; repressione del dissenso, compresa l’azione sindacale.

Dietro di lui si consolida una strana alleanza interclassista composta da miliardari canaglia, una minoranza della classe capitalista, concentrati nella tecnologia e nelle criptovalute, da gran parte della classe media e da una fetta non irrilevante della classe operaia multirazziale. Ognuno di questi elementi è coinvolto per ragioni diverse e i loro interessi materiali sono in conflitto. I sostenitori di Trump provenienti dalla classe operaia sono frustrati per lo stato dell’economia e ne danno la colpa agli immigrati. I piccoli imprenditori per l’impatto dei lockdown e di altre normative, tra cui quelle ambientali, allettati dalle promesse di Trump di condonare tutte le loro trasgressioni.

Le promesse “pacifiste” di Trump, che hanno abbindolato anche non poche persone di sinistra, giustamente inorridite dal filosionismo di Biden, in queste ore si concretizzano in quel cessate il fuoco stipulato in Medioriente che sta dando un minimo di respiro al popolo di Gaza. Ma la politica del nuovo inquilino della Casa Bianca in prospettiva peggiorerà ulteriormente le possibilità di giustizia per i palestinesi (e anche per gli ucraini).

Naturalmente l’insediamento di Trump non significherà affatto la fine delle tensioni. Le pretese imperialistiche (Panama, la Groenlandia, il Canada), la voglia di imporre al Messico il ruolo di gendarme Sud dei confini, le deportazioni saranno tutte basi per nuovi attriti e per pesanti conflitti forse anche militari. Senza dimenticare che comunque il mondo continua ad essere attraversato da moti diffusi. Ovunque, l’odio e la rabbia verso le classi dominanti e i loro politici continuano a produrre rivolte e sconvolgimenti. In queste settimane l’abbiamo constatato in Corea del Sud, in Georgia e in Siria.

L’opposizione liberale a Trump, dopo la disfatta di Kamala Harris, appare smobilitata e disorientata. Quanto alla sinistra, questa deve fare un coraggioso bilancio della sua mimetizzazione nelle file del Partito Democratico e della sua subalternità nei confronti di quest’ultimo.