Emilia Romagna e Umbria: vince chi perde di meno
di Andrea Martini
Come al solito, non ci facciamo impressionare dalle dichiarazioni più o meno trionfalistiche che fanno seguito alle diverse prove elettorali parziali che si susseguono sulla scena politica.
E’ evidente per tutti che la riconferma dell’amministrazione di centrosinistra nella regione Emilia Romagna e la parallela riconquista dell’Umbria da parte della stessa coalizione non rappresentano un’inversione di tendenza rispetto alla resistibile crescita dell’estrema destra a guida meloniana.
Non sono un’inversione perché, un po’ come è accaduto su scala molto più importante giusto due settimane fa negli Stati Uniti, il prevalere di uno dei due schieramenti sull’altro, più che un successo del vincente rappresenta la sconfitta dell’altro.
In realtà, nessuno dei due principali schieramenti che in maniera asimmetrica si contrappongono in Italia manifesta una capacità di vera e concreta egemonia politica sul paese. Un paese e un’opinione pubblica sempre più disillusi e disimpegnati, che guardano con un interesse distaccato ad una vicenda politica tanto chiassosa quanto priva di reali contenuti dirimenti. Quanto sei razzista? Di più o di meno? Quanto sei favorevole alle privatizzazioni, di più o di meno? Quanto sei contrario ad una tassa patrimoniale fortemente progressiva, di più o di meno? Quanto all’autonomia regionale, ti basta la “riforma del Titolo V” (approvata dal centrosinistra nel 2001) oppure vuoi spingerti fino alla “regionalizzazione differenziata” made in Calderoli del centrodestra?
E, anche sul piano dell’amministrazione degli enti locali, il centrodestra ha ripetutamente manifestato la sua inclinazione a favorire la più pervasiva commistione tra interessi ex pubblici e quelli privati (vedi la recente vicenda dell’ex presidente della Liguria Giovanni Toti o quella più antica del suo collega lombardo Roberto Formigoni), ma occorre riconoscere che anche il centrosinistra non è affatto esente da tale fenomeno, come ci hanno raccontato varie inchieste, come quella sulle relazioni amichevoli tra le amministrazioni pugliesi e la malavita barese o quella su scala europea giornalisticamente definita “Qatargate”.
Già l’incredibile successo in Liguria qualche settimana fa di una destra screditata e gravemente azzoppata dallo scandalo Toti poteva configurarsi soprattutto come una disfatta dello schieramento di centrosinistra, incapace di prefigurare un’alternativa. E di nuovo domenica scorsa, in Emilia Romagna e in Umbria, in maniera speculare, non è tanto il centrosinistra ad aver vinto ma è soprattutto la destra ad aver perso.
Ce lo attestano, com’è indispensabile in una prova elettorale, i numeri.
Il primo dato che salta agli occhi, anche se la politica politicante sembra limitarsi a prenderne atto, al fine di eluderlo, è quello di un’ulteriore e ancora più pesante caduta della partecipazione: 52% in Umbria e addirittura il 46% in Emilia Romagna.
Si tratta di due regioni un tempo caratterizzate da una diffusa politicizzazione, da un esteso associazionismo, da un radicato “senso civico”. Basti pensare che nel 1970, alle prime elezioni regionali, l’Emilia Romagna fu la regione con il più alto tasso di partecipazione elettorale, il 97%, praticamente tutti (l’Umbria il 94%).
L’affluenza cominciò a scemare significativamente a metà degli anni 80 fino ad arrivare a picchi negativi precedentemente impensabili. E’ sempre l’Emilia Romagna a detenere (assieme al Lazio nel 2023) il record negativo del 38%, nelle regionali del 2014, quando si inaugurò la prima presidenza dell’allora super-renziano Stefano Bonaccini.
Con questo “record” alle spalle, il 46% dell’altro giorno può persino essere considerato un successo. Ma è certo che in questo contesto nessuno può gridare alla vittoria. Il successo arride al partito che perde di meno.
E, occorre riconoscerlo, il PD emiliano-romagnolo del neo presidente Michele De Pascale è quello che ha “perso di meno”, con “solo” 100.000 voti in meno rispetto alle regionali del 2020, passando da 750.000 a 642.000 voti. Nello schieramento della coalizione del centrosinistra, L’Alleanza Verdi Sinistra (AVS) perde più di un terzo dei suoi voti, passando da 123.000 a 79.000. Tra i “progressisti”, significativo è ancora di più l’arretramento del Movimento 5 Stelle che, con i 53.000 suffragi raccolti, dimezza i voti rispetto ai 103.000 ottenuti 4 anni fa e soprattutto ne perde più di 3 su 4 rispetto ai 229.000 ottenuti alle politiche di 2 anni fa.
Dunque, uno schieramento di perdenti che vince. E vince perché gli altri, quelli della destra, perdono ancora di più: Fratelli d’Italia raccoglie 355.000 voti (23,7%), 222.000 in meno delle politiche di due anni fa, la Lega tracolla passando dai 691.000 voti delle regionali del 2020 ai 79.000 di qualche giorno fa (612.000 in meno quasi 8 elettori ogni 9), Forza Italiapassa dai 134.000 delle politiche 2022 agli 84.000 delle regionali di domenica.
In Umbria, il centrosinistra riesce a mantenere sostanzialmente i suoi numeri, con il PD che si aggira sempre poco sopra i 90.000 voti e AVS attorno ai 13-15.000 voti, ma con un balzo in avanti nelle percentuali, grazie al drastico calo dell’affluenza, che passa dal 65% delle regionali e dal 69% delle politiche 2022 al 52% di domenica. Un calo di partecipazione che si concentra sulla lista del M5S (che, con i suoi 15.000 voti, ne perde 16.000 rispetto alle precedenti regionali e 40.000 rispetto alle politiche di due anni fa) e, soprattutto sulle liste della destra: FdI raccoglie 62.000 voti (72.000 in meno rispetto alle politiche) e la Lega 24.000 (addirittura 130.000 in meno rispetto alle regionali). Fa parzialmente eccezione Forza Italia, che conquistando 31.000 voti aumenta di 8.000 rispetto alle regionali precedenti, cosa che le fa quasi raddoppiare la percentuale, vista la minore base di partecipazione.
Per una più dettagliata e puntuale analisi del voto nelle due regioni, si può consultare l’articolo di Vittorio Sergi su bresciaanticapitalista.com.
Dunque, quello che emerge dai dati è la conferma della persistente tendenza, significativamente molto evidente, ad esempio, nei quartieri popolari di Bologna, alla astensione dal voto. Il segno di una crescente e devastante crisi della democrazia. C’è anche la conferma dell’estrema volatilità del voto per i vari partiti: il vertiginoso saliscendi dei consensi alla Lega ne è la testimonianza più eclatante, ma anche la crisi del M5S lo attesta.
D’altra parte, è proprio la consapevolezza di Meloni e dei suoi del carattere non strutturale dei loro successi elettorali a spingerli in direzione di un consolidamento istituzionale del proprio potere attraverso riforme autoritarie come quella del premierato o repressive come quella del DDL 1660.
La leadership di Elly Schlein sembra aver tamponato la crisi del Partito democratico che, al di là delle fragilità intrinseche di questa formazione, era stata prodotta dall’avventurismo centrista di Matteo Renzi. Ma la costruzione di uno schieramento alternativo a quello della destra sembra ancora lontana, sia per la persistente vaghezza e per la contraddittorietà dell’identità del PD, sia perché la sua tenuta si fa largamente a spese del suo principale potenziale alleato, il Movimento 5 Stelle, invischiato in una parossistica crisi di identità e di leadership.
Dunque, purtroppo nessuna vera inversione di tendenza e tante negative conferme, tra le quali ce ne una che è tanto forte da non trapelare più neanche nelle cronache, ma che invece vale la pena di segnalare. E cioè la sempre più netta marginalità delle proposte di “sinistra radicale”, con i 27.000 raccolti dalla lista PRC-PaP-PCI in Emilia Romagna e i 1.500 della lista PaP-PCI in Umbria.