Enrico Berlinguer senza nostalgia alcuna

Una valutazione obiettiva che supera i costanti riferimenti apologetici [Aldo Bronzo]

La figura e il ruolo di Enrico Berlinguer hanno sovente fatto registrare espressioni largamente  lusinghiere ed encomi praticamente incondizionati con cui si sono attribuiti al dirigente comunista scomparso nel 1984 meriti di tutto rilievo per aver anticipato tematiche innovative con le quali apparirebbe opportuno tuttora confrontarsi per il rilancio del movimento delle forze progressiste, al momento coinvolte in un riflusso politico ed ideologico che concede spazi crescenti alle forze reazionarie le più disparate. La stessa segretaria del PD Schlein, tutta compresa in un attivistico  rilancio della sua organizzazione  politica, ha di recente fatto menzione a tematiche del genere, senza risparmiarsi dal riconoscere come al riguardo apparirebbe utile  ripartire proprio dal contributo di Berlinguer.  Appare quindi utile una riflessione obiettiva su questa tematica che per forza di cose si configura di rilievo prioritario; anzi assolutamente necessaria.

In primo luogo occorre tenere nella dovuta considerazione che il  PCI , attraverso una travagliata vicenda, abbia dovuto registrare come il partito fondato da Gramsci e Bordiga sia stato rapidamente coinvolto nelle spire involutive dello stalinismo per cui l’insindacabile centro moscovita ha avuto il modo  per lungo tempo di imporre scelte funzionali alle esigenze della burocrazia moscovita che magari contrastavano palesemente con quelle del movimento comunista italiano. Soprattutto questo quadro di riferimento risultò largamente condizionante in relazione alle vicende della Resistenza quando, dopo il riconoscimento sovietico del governo Badoglio, il PCI togliattiano optò, non si sa con quanta convinzione, di far parte di quel governo che intendeva chiaramente metter a punto, con il pieno avallo anglo-americano, un condizionamento alle spinte più dinamiche dell’imponente radicalizzazione antifascista che veniva sempre più assumendo caratteristiche rivoluzionarie anticapitaliste. Così la Resistenza si limitò a porsi obiettivi circoscritti alla sola cacciata dei nazisti, lasciando inalterate le strutture capitalistico-borghesi.

In pratica, al termine del 2° conflitto mondiale, la dirigenza staliniana affidò, per  così dire , a  Togliatti e  a suoi un compito ben preciso: il P C I doveva rimanere nel governo  a trazione conservatrice senza mettere in discussione  le strutture capitalistiche sopravvissute alla tempesta della Resistenza, ma al tempo stesso doveva attivizzarsi perché quel governo non assumesse posizioni antitetiche alla Russia staliniana. Tuttavia di lì a poco l’intero progetto verrà drasticamente ridimensionato, quando i ceti dominanti italiani e statunitensi valutarono la situazione sufficientemente stabilizzata da poter espellere i comunisti dal governo. Ciò valse a porre al P C I problemi di non facile soluzione: da un lato infatti la consolidata subordinazione alla dirigenza staliniana imponeva una copertura alle iniziative non sempre convincenti di Stalin e dei suoi successori – come ad esempio l’intervento militare dei sovietici in Ungheria nel 1956 – , dall’altro si delineava in maniera crescente un inserimento nel contesto politico, sociale e culturale nell’ambito nazionale che veniva sintetizzato anche nelle presunte elaborazioni strategiche complessive; in pratica prendeva corpo quella “via nazionale, democratica, pacifica e parlamentare al socialismo” che traeva in buona sostanza   la sua ragion d’essere dall’archivio culturale della socialdemocrazia europea e che segnava un allontanamento definitivo dalle radici marxiste e leniniste che avevano caratterizzato la prima fase della vita politica del partito. E queste pulsioni giocheranno un ruolo crescente negli anni a venire quando si manifesteranno da parte del P C I moderate critiche al regime poststaliniano centrate non da un angolatura marxista, ma alla luce di categorie “democratiche” comunemente intese, desunte sostanzialmente dal retroterra culturale ed ideologico  dei paesi capitalisti. Se ne riscontra traccia persino nel “Memoriale di Yalta” che Togliatti ebbe a redigere  come appunti per un incontro che avrebbe dovuto tenere con Krusciov; l’incontro non avvenne ma, a seguito del decesso dello stesso Togliatti, la direzione del P C I si orientò a renderlo noto. E la pubblicazione del “Memoriale” togliattiano ebbe a produrre divisioni di un certo rilievo all’interno dello stesso nucleo dirigente, in quanto Amendola ne trasse la conclusione che sarebbe stato opportuno sciogliere il P C I per confluire in un unico partito socialdemocratico, mentre Ingrao, Rossanda e Berlinguer manifestarono espressamente il loro dissenso. Del resto l’ascesa progressiva  di Berlinguer a dirigente di rilievo del P C I venne comunque consacrata di lì a poco, quando a fronte ad un declinante Longo, assunse la carica di Vice-Segretario del partito.

Lo sviluppo successivo degli avvenimenti impose commisurazioni e definizioni nei confronti di problemi affatto nuovi derivanti da una realtà in vertiginoso cambiamento. La guerra rivoluzionaria combattuta nel Vietnam, la dichiarata rottura cino-sovietica, la tumultuosa vicenda della “rivoluzione culturale” maturata nella Cina di Mao determinarono nel movimento giovanile una reazione specifica, con manifestazioni di protesta anche consistenti del tutto antitetiche  al sistema che  sostanzialmente sfuggivano agli abituali meccanismi di  controllo del partito, dando l’avvio alla costituzione di una “nuova sinistra” che, pur nella diversità delle posizioni, denunciava il mero atteggiamento riformista del P C I , valutato ormai come una forza politica totalmente integrata nel sistema capitalistico. Tuttavia il P C I fu comunque capace di ottenere  un miglioramento dei propri consensi elettorali nella consultazione del 1968, passando dal 25,3 al 26,9.

Ma il magma politico complessivo restava estremamente differenziato imponendo alla direzione del P C I definizioni e prese di posizioni sempre più complesse. In primo luogo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia fece registrare una netta presa di posizione di condanna dell’operazione, grazie ad un intervento diretto di Berlinguer che a Mosca sancì una sorta di vistosa differenziazione con i dirigenti poststaliniani basata su criteri genericamente democratici e di tendenziale assimilazione dei valori culturali e politici che regnerebbero nel mondo occidentale.  Tuttavia fu lo scenario politico e sociale interno a dare luogo a definizioni sempre più complesse. In primo luogo perché al cosiddetto “estremismo di sinistra” che continuava ad essere presente tra le avanguardie giovanili faceva ora riscontro la “strategia della tensione” che, basata su elementi neofascisti e sul ruolo dei servizi segreti – nonché integrati dalla regia statunitense – , puntavano alla creazione di un regime di terrore nel corpo sociale che poi  portasse ad un potere politico fortemente autoritario capace di ricondurre alla ragione l’estrema combattività del movimento operaio che, dopo aver esaurito la fase delle lotte per il rinnovo contrattuale, manifestava segni e intendimenti intesi al prosieguo della lotta di classe per obiettivi politici più accentuati.

Di fronte ad una situazione così differenziata e complessa fu proprio Berlinguer – ormai Segretario effettivo del P C I – a sottolineare come il P C I fosse interessato alla creazione di una situazione di stabilità che garantisse lo sviluppo produttivo. Di qui prese corpo uno degli aspetti nodali della riflessione di Berlinguer, quel  “consociativismo parlamentare” che in buona sostanza si traduceva nell’attenuazione dell’opposizione sociale e parlamentare in cambio di vantaggi politici che garantissero stabilità. E le circostanze ebbero  modo di dimostrare che non si trattava solo di elaborazioni  teoriche, ma di un orientamento complessivo che si traduceva in precise iniziative politiche e parlamentari; in pratica se il “decretone” del governo Colombo per il “rilancio” dell’economia non riusciva  a passare in tempo per la fine dell’anno, il P C I si rese partecipe per rendere  possibile l’intera operazione astenendosi nelle sedi parlamentari.  Del resto quel decreto conteneva clausole ancora più significative circa il quadro teorico e politico che caratterizzava la dirigenza comunista se, al termine di battaglie dalle quali il P C I sia era tenuto prudentemente alla larga, venne approvato il diritto al divorzio malgrado le reiterate opposizioni vaticane, con la vistosa clausola condizionante che istituiva contemporaneamente il relativo referendum abrogativo. Ebbene il P C I dell’epoca di Berlinguer face approvare anche questo.

Come che sia non si può dire che questo marcato rispetto per le regole “democratiche” con il potere costituito valesse anche per eventuali oppositori interni. Tutt’altro. Quando infatti si manifestarono dissidenze interne che in una qualche misura contrastavano questa incipiente linea collaborativa, si ritenne opportuno procedere con la dovuta determinazione. Fu appunto il caso della rivista de “Il Manifesto” che registrò il raggruppamento di intellettuali del calibro di Luigi Pintor che spingeva per la costituzione di comitati unitari di operai, o di Rossana Rossanda che formulava espressioni lusinghiere nei confronti della “rivoluzione culturale” che imperversava in Cina; di fronte a queste manifestazioni di dissenso interno la segreteria del partito comunista assunse un atteggiamento risolutamente censorio. E poiché perdurava il diniego dei reprobi di attenersi al dictat che imponeva loro di sospendere la pubblicazione del periodico, si procederà il 26 novembre del 1969 alla radiazione di Natoli, Magri,  Rossanda e Pintor, con un provvedimento che sembrava rinverdire, per così dire, i trascorsi fasti staliniani.

Ma la situazione complessiva determinò nuove emergenze che imposero definizioni che poi coincidevano con l’orientamento politico complessivo. In primo luogo l’estremistica radicalizzazione di alcuni settori della “nuova sinistra” che degenerò nel fenomeno delle B R che avviarono un’improponibile guerra rivoluzionaria allo Stato capitalista in relazione alla quale Il P C I reagì rifiutando un confronto politico con queste frange indubbiamente estremistiche, ma proponendosi con un atteggiamento che comportava la conferma della sua “affidabilità” verso il potere costituito, cioè attribuendo alle B R la qualifica di “neofascisti” che puntavano alla “strategia della tensione” d’intesa con i servizi segreti “deviati”. Un poco di tutto insomma, tranne il confronto politico con l’estremismo sommario delle B R. Quel che premeva a Berlinguer e ai suoi era che l’immagine di “affidabilità” rispetto al potere costituito non venisse a mancare. E se permaneva il sospetto che un eventuale referendum abrogativo della recente legge che aveva istituito in termini molto blandi il divorzio potesse portare alla costituzione di un asse D C-M S I, il P C I di Berlinguer si fece portatore di una proposta paradossale centrata sul mantenimento del diritto al divorzio solo per i matrimoni laici, mentre per quelli celebrati con rito religioso sarebbe rimasto pienamente vigente il regime concordatario, cioè l’assoluto diniego di separazione. Nondimeno tutto ciò non impedì alla D C di procedere a convergenze abbastanza significative con la destra neofascista operante in Italia, se è vero che proprio in quel periodo si addivenne all’elezione del Capo dello Stato di Giovanni Leone con i voti decisivi del M S I.

A questo punto le sollecitazioni “normalizzatrici” che investivano a tutto tondo il P C I imposero necessariamente una sorta di definizione complessiva che sintetizzasse l’intero corso politico. A farsene carico fu per forza di cose Enrico Berlinguer che al XIII congresso del P C I prospettò in primo luogo, non si sa con quale coefficiente di realismo, un miglioramento delle relazioni americane e sovietiche, malgrado il permanere del conflitto vietnamita. Ma il pezzo forte fu costituito dalle elaborazioni relative alla situazione nazionale, dove il Segretario del P C I – riecheggiando un discorso tenuto da Togliatti a Bergamo nel 1963 – non esitò a prospettare a chiare lettere per il governo nazionale una collaborazione non meglio identificata con le “masse cattoliche” che più o meno fantasiosamente venivano considerate quasi contrapposte ai vertici della D C, cioè della forza politica realmente responsabile delle tensioni sociali e politiche  che investivano il paese.  Nella stessa sede congressuale Berlinguer non ebbe soverchie esitazioni per affermare testualmente: “In Italia l’incontro e il confronto tra il movimento operaio di ispirazione comunista e socialista e il movimento popolare cattolico ha un preciso contenuto e obiettivo politico: rinnovare lo Stato e dare ad esso un consenso di massa così ampio e solido da metterlo al riparo da qualsiasi involuzione conservatrice”.

Commenta in proposito Giorgio Galli: “Lo schema interpretativo è il seguente: il complotto contro la democrazia ha ispiratori americani e italiani; il modo di governare della D C favorisce i complotti e comporta destabilizzazione; il rimedio sta in un’intesa tra masse comuniste e cattoliche che garantisca il consenso necessario per sventare le mene complottiste e rinnovare lo Stato in senso democratico. Un ragionamento privo di ogni fondamento in quanto le ‘masse cattoliche’ si riconoscono ampiamente nei dirigenti della D C come Moro, Fanfani, Rumor ed Andreotti che, dal loro canto, sono tolleranti verso chi insidia la democrazia in quanto dirigenti della D C  che invece, nella valutazione di Berlinguer, dovrebbero salvarla in quanto rappresentanti delle masse cattoliche. Una contraddizione di fondo che accompagnerà il P C I fino alla sua estinzione”.

Come che sia il guado, per così dire, era stato passato. D’ora innanzi niente più “lotta di classe” nell’accezione marxista del termine, ma interlocuzioni, difficoltose convergenze e maneggi di bassa lega con il potere costituito. Tuttavia questa forma accentuata di “realismo” pragmatico non mutava i termini di una questione politica che nella sua sostanza era e rimaneva estremamente contraddittoria: Il P C I confermava un diffuso consenso elettorale raggiungendo nel 1973 il 27,2 dei consensi, ma il governo Andreotti-Malagodi era ben lungi dal prendere per buone le diffuse  lusinghe di Berlinguer e dei suoi. Né andò meglio con il successivo governo di centro-sinistra presieduto da Fanfani che, sensibilissimo alle sollecitazioni vaticane, fece conoscere che si sarebbe andati in tempi brevi al referendum abrogativo della legge che aveva istituito il divorzio; cioè proprio quello che il P C I avrebbe voluto assolutamente evitare, temendo una prevalenza delle forze favorevoli all’abrogazione e la conseguente costituzione di una maggioranza di centro-destra che avrebbe finito inevitabilmente per escluderlo dai centri di potere effettivi. Tutto ciò, unitamente agli esiti del fallimento dell’esperienza di Allende in Cile, suggerì a Berlinguer un’accentuazione delle proposte politiche moderate che caratterizzavano il suo iter concettuale.  In un articolo pubblicato su “Rinascita” in quel periodo il leader comunista ritenne opportuno ribadire le sue opzioni politiche di fondo, in quanto: “la gravità dei problemi del paese, la minaccia sempre più incombente di avventure reazionarie e la necessità di aprire alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che si può definire un compromesso storico tra le forze che si raccolgono e  rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano …..Ecco perché noi parliamo non di un’alternativa di sinistra, ma di un’alternativa democratica e cioè di una prospettiva politica di una collaborazione e di un’intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze popolari d’ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico”.

Tuttavia quest’invito di basso profilo politico non trovò riscontri significativi da parte dei presunti interlocutori, mentre la data di fissazione del referendum abrogativo del divorzio – aborrito da Berlinguer e dai suoi –  determinava per forza di cose una netta giustapposizione tra il fronte laico costituito di fatto da comunisti e socialisti, e quello conservatore reazionario di cui facevano parte la D C e il M S I. E la trionfale vittoria del no al referendum consegnò al P C I una sorta di collocazione frontale di opposizione a quel potere con cui stava cercando di porre in essere accordi dalla valenza perlomeno dubbia, quello stesso potere che, mentre chiedeva “sacrifici” al corpo sociale per pagare quella che fu definita la “tassa degli sceicchi”, venne travolto dall’ennesimo scandalo da cui emerse che i petrolieri al tempo stesso versavano sottobanco contributi miliardari ai partiti di governo. Nel frattempo la situazione evolveva in misura sempre più accentuata verso una radicalizzazione e una violenza di matrice brigatista da un lato o neofascista dall’altro. Dal suo canto la nuova formazione di governo presieduta da Fanfani ritenne opportuno mettere a punto una nuova legge – la “legge Reale” – che accentuava enormemente i compiti e il ruolo delle forze di polizia. Il P C I reagì con molta moderazione, mentre Berlinguer al XV congresso del P C I nel 1975 ribadiva la sua strategia del “compromesso storico”, ora definito “una nuova tappa della rivoluzione antifascista, e cioè una nuova tappa di sviluppo della democrazia che introduca nella struttura della società italiana elementi di socialismo”.

Ne conseguì una presa di posizione drasticamente negativa di fronte a tutto quanto maturava alla sua sinistra, fino a definire l’iniziativa militare a cui ricorrevano sovente le B R un fenomeno da assimilare alla “delinquenza comune” per cui competeva allo Stato a trazione democristiana procedere al suo contrasto. E per far ordine in questo magma così eterogeneo il P C I di Berlinguer non esitò ad interloquire ed ad avallare le nomine nei servizi di sicurezza riorganizzati con la legge del 1977 di ufficiali e funzionari che operavano per il “rinnovamento” nei termini proposti dalla P 2 di Licio Gelli alla quale poi risulteranno affiliati. Il tutto con una lieve correzione di rotta per cui il “partito armato” di matrice brigatista non era più un fenomeno di “delinquenza comune” da affidare agli organi di polizia, bensì una degenerazione politica che andava contrastata sempre sul piano politico dal P C I , dai sindacati e dalle altre forze democratiche.

Tuttavia il P C I continuò a registrare un certo consenso tanto a livello delle consultazioni elettorali regionali, tanto come incremento del numero degli iscritti, determinando una situazione nuova che portò Berlinguer e i suoi a costituirsi, per un brevissimo lasso di tempo, come una sorta di polo di riferimento per i partiti comunisti francese  e spagnolo. Prese corpo così “l’eurocomunismo” i cui termini furono espressamente ribaditi a Mosca nel 1976 di fronte all’assise del XXV Congresso del P C U S. Ma tutto ciò non mutò l’orientamento politico consolidatosi tra le mura domestiche ispirato sempre più ad una moderazione crescente, per cui nel corso di un’intervista rilasciata ad un corrispondente del “Corriere della sera”, il Segretario del P C I sostenne la sua propensione per il “Patto Atlantico” considerato a questo punto come un quadro di riferimento idoneo “a costruire il socialismo in Italia”. Ciò però non valse a far sì che il P C I venisse accettato nelle file governative – soprattutto per via del perdurante diniego statunitense -, ma segnò l’inizio di una relativa contrazione dei consensi e di dubbi che incominciarono a circolare nelle file degli stessi militanti di partito. Circostanze che tuttavia non impedirono alla dirigenza comunista di accentuare il proprio corso moderato sino a giungere ad astenersi in sede parlamentare nei confronti del governo Andreotti, con la sola contropartita di veder assegnata ad Ingrao la Presidenza della Camera dei deputati. In pratica il P C I finì con l’appoggiare, praticamente senza contropartita, un governo diretto dal suo abituale avversario politico che esprimeva dichiaratamente interessi di classe assolutamente antagonistici ai ceti popolari e che nella più recente campagna elettorale non aveva fatto mistero di patrocinare progetti politici del tutto antitetici a quelli comunisti. Una contraddizione assolutamente lampante che inquietava in maniera crescente la base di partito alla quale lo stesso Berlinguer cercò di replicare sostenendo come il suo discutibilissimo iter politico avrebbe costituito in seguito una remora di fronte agli aspetti regressivi del “socialismo reale” che era prevalso in Unione Sovietica e negli altri paesi del “socialismo reale”. E per suffragare questo supposto quadro teorico di riferimento il P C I giunse a teorizzare come il sostanziale avallo al  governo Andreotti  come una campagna di “austerità” necessaria quale premessa del socialismo, malgrado quel governo non facesse mistero della necessità di chiedere sacrifici ai ceti popolari.  Argomentazioni troppo carenti per arginare una disillusione che ormai avanzava a ritmi sempre più sostenuti nelle file del partito e che coinvolgeva lo stesso corpo sociale di abituale orientamento elettorale in favore del P C I. Così alle elezioni che si tennero nel 1976 nella tradizionale roccaforte comunista di Castellammare di Stabia il P C I registrò una netta flessione.

Tuttavia ad un certo momento sembrò che le confuse dinamiche interne del partito di maggioranza aprissero qualche spiraglio per dare un minimo di concretezza alle proposte politiche del P C I che ormai si risolvevano in una sorta di appoggio indiretto ai governi democristiani praticamente senza contropartite. Sarà Moro a convincere i riluttanti gruppi parlamentari democristiani ad accettare di trasformare il governo della “non sfiducia” in un “accordo contrattato” che avrebbe consentito ai comunisti di votare a favore del governo alla cui presidenza permaneva la figura non proprio progressista di Giulio Andreottti. Il P C I dal suo canto avrebbe intensificato la pressione sulle organizzazioni sindacali perché adottassero una linea sostanzialmente collaborativa e essenzialmente conciliativa e che poi, di lì a poco, darà luogo alla “svolta del E U R“. Questo il contenuto essenziale dell’incontro che si tenne il 16 febbraio 1978 tra Moro e Berlinguer e che suggerì al paradossale estremismo delle B R di intervenire con il sequestro dello stesso Moro e alla successiva uccisione. Per il P C I l’intero episodio venne catalogato come un “attacco al cuore dello Stato” – secondo la stessa dicitura adottata nella circostanza dalle B R – da parte di un terrorismo estremamente minaccioso che imponeva in maniera assolutamente prioritaria la difesa di quello Stato che rimaneva strutturalmenete caratterizzato da una gestione politica complessiva rivolta alla difesa di interessi di classe ben precisi e da un alto grado di inefficienza e di corruzione generalizzata. In pratica la “solidarietà nazionale” di cui a quel tempo Berliguer e soci si fecero teorici non molto convincenti si collocò all’interno di una strategia che collocava la D C in un ruolo centrale del sistema politico, ragion per cui vennero meno anche i tradizionali elementi che avevano registrato sinora il P C I all’opposizione; non a caso proprio in questo periodo il P C I oppose un netto diniego alla proposta del partito radicale di procedere ad un referendum abrogativo della “legge Reale”, a cui fece seguito il no in relazione all’abrogazione della legge che aveva istituito il finanziamento pubblico dei partiti. E la presa di distanza così  netta da parte di Berlinguer e dei suoi giocò un ruolo decisivo al momento dell’effettuazione dei due referendum, per cui quello attinente la “Legge reale” venne confermato con il 77% dei voti, mentre quello relativo al finanziamento pubblico ai partiti superò il margine del 57%.

Tuttavia gli esiti tutt’altro che lusinghieri che si determinarono di fronte a questo comportamento sempre più collaborativo si tradussero per forza di cose in tendenziali cali elettorali, anche per l’attivismo crescente del nuovo segretario del P S I Bettino Craxi che riuscì a ottenere in tempi brevi dalla D C maggiori interlocuzioni. Per Berlinguer e i suoi fu chiaro che sostanzialmente si stesse macinando acqua, dal momento che appariva chiaro come un partito con una storia ormai sessantennale, con un forte radicamento nel corpo sociale e con consensi elettorali che lo aveva portato a controllare circa un terzo del corpo sociale, rischiava in tempi brevi il tracollo.  La reazione ruotò di fronte a problemi abbastanza disparati. In primo luogo si manifestò un netto dissenso rispetto alla politica dell’Unione Sovietica, per cui si assunse un deciso distinguo in merito all’intervento dell’Armata Rossa in Afghanistan, forse anche per garantire gli eventuali interlocutori circa la collocazione del partito sulle questioni internazionali. Ma soprattutto sui temi nazionali il P C I tentò una sorta di svolta intesa a garantire ulteriormente i centri politici dominanti  circa la perdurante estrema moderazione che caratterizzava i suoi orientamenti strategici. Non a caso dalla sede di Salerno – nell’evidente intento di collegarsi alla “svolta” togliattiana che aveva a suo tempo sancito la legittimazione del governo Badoglio – Berlinguer il 27 novembre 1980 sostenne un supposto nuovo orientamento complessivo; in pratica veniva accantonata la proposta di un rapporto privilegiato con la DC che aveva fatto da sfondo al “compromesso storico” o alla “ solidarietà nazionale”, nel senso che si patrocinava ora una nuova aggregazione politica in cui la DC, pur facendone parte, non avrebbe dovuto più essene la guida. Ciò avrebbe posto rimedio alla “questione morale” che ormai presentava  dimensioni intollerabili, soprattutto dopo lo scandalo della P2 che poneva crescenti dubbi circa la tenuta democratica dell’intero sistema.

L’inconsistenza e la carenza progettuale dell’orientamento della nuova enunciazione berlingueriana praticamente si dimostravano  da soli, in quanto non si delineava alcuna chiarezza elementare su come il “compromesso storico”, senza essere dichiarato fallito, sembrava comunque che dovesse cedere il passo ad una nuova elaborazione costituita da “l’alternativa”, senza che venissero individuati a chi politicamente dovesse essere necessario opporsi. Ma soprattutto perché l’analisi delineata nella circostanza dal Segretario del P C I denunciava un Stato totalmente pervaso dalla corruzione e  praticamente non più in grado di svolgere le sue funzioni; il che avrebbe dovuto comportare un’opposizione intransigente che portasse l’intero esecutivo alle dimissioni. Il che era esattamente quello che Berlinguer e suoi non intendevano fare, pervasi in misura crescente da una concezione sempre più gradualistica e accomodante nei confronti dei centri di potere effettivi. In parole povere poco più che parole spese al vento che  per  forza di cose portarono i partiti di governo a rimanere del tutto indifferenti alle supposte sortite innovatrici del P C I . In pratica tutto come prima. E in proposito appare ancora una volta del tutto pertinente il giudizio di Giorgio Galli che avrà il modo di commentare in proposito come “l’iniziativa di Berlinguer ebbe la stessa sorte di quella di Togliatti 35 anni prima; a un sistema di potere in crisi il P C I concesse il tempo sufficiente per riequilibrare la situazione e per superare le difficoltà; e nel 1980, così come nel 1944, la D C saprà come trarre profitto dal persistente errore di impostazione che andava dalla togliattiana ‘via italiana al socialismo’ al berlingueriano ‘compromesso storico’ “.

Tutto ciò accentuò il carattere velleitario delle proposte sempre più consociative della direzione del PCI, anche perché il PSI individuò con la leadership di Craxi il leader che garantiva un nuovo ruolo protagonistico che, in ultima analisi, traeva la sua ragion d’essere dalle difficoltà crescenti che caratterizzavano in misura sempre più accentuata Berlinguer e i suoi, per porsi al centro di interlocuzioni e convergenze con la DC che portarono alla stessa conduzione comune della formazione governativa. Il tutto mentre Berlinguer continuava costantemente a denunciare la gravità della “questione morale” che aveva coinvolto trasversalmente tutto l’equipaggiamento politico nazionale – che peraltro interessava anche le “regioni rosse” che il PCI amministrava assieme al PSI – e mentre si accentuava il distacco dai paesi del cosiddetto  “socialismo reale”  di cui, lungi dal procedere ad un’analisi convincente, si riteneva di poter attestare come avessero perduto una non meglio precisata “spinta propulsiva”  e di essere  ormai degenerati in “regimi autoritari che colpiscono la democrazia”.

L’ultimo periodo della vita di Berlinguer fu caratterizzato dal costante tentativo di giocare un ruolo politico sempre più moderato nella speranza di interloquire con i centri di potere effettivi e portare a fondo la sua  proposta moralizzatrice. Tuttavia i costanti e reiterati tentativi non ebbero esiti di sorta. Il potere costituito ebbe costantemente a escluderlo da ogni partecipazione governativa e dalla gestione diretta del potere politico. L’11 aprile 1984 Berlinguer morì. Il  suo lascito politico e la sua visione teorica complessiva difficilmente potranno costituire elementi convincenti per il rilancio di cui urgentemente necessita la sinistra radicale e in genere il movimento operaio. Meglio rivolgersi altrove.