La primavera ai tempi della guerra esterna ed interna (3)

Il rilancio dei contratti di lavoro e la ricostruzione di un sindacato di lotta e di classe [Franco Turigliatto]

Per essere coerente con le denunce e le buone intenzioni dichiarate negli ultimi tempi la CGIL dovrebbe  proclamare ai 4 venti che vuole cambiare passo, porre fine agli errori commessi, superando le subalternità ed aprendo una coerente stagione di lotte per recuperare il tanto che si perduto.

Tenuto conto dell’inflazione, ad occhio, un recupero reale dei salari dovrebbe corrispondere a non meno di 300 euro netti (tutti e subito). In Francia, dove pure mediamente i salari sono più alti, forte è la richiesta di aumenti di 400 euro netti.

La direzione di questa organizzazione sindacale per coordinare le vertenze contrattuali, si è data 4 regole che dovrebbero essere seguite da tutte le categorie nel rinnovo del contratto.

La prima, sul piano salariale, è l’indicazione che non si possano firmare contratti (come è avvenuto in passato) al di sotto dell’indice IPCA; la seconda è che la riduzione dell’orario di lavoro non debba essere una vaga rivendicazione, ma debba diventare oggetto di una battaglia concreta, la terza è che non si debbano firmare norme che confermano la precarietà come è avvenuto in tanti contratti; la quarta riguarda la rappresentanza sindacale e il voto dei lavoratori.

Bene, certo; in fondo sono regole che suonano come una correzione delle scelte degli ultimi decenni. La coerenza dei gruppi dirigenti andrà verificata però nei comportamenti concreti e fin dai prossimi passaggi contrattuali.

Il referendum della CGIL

Tutti i punti sono dirimenti, ma il terzo quello sulla precarietà è tanto più dirimente perché contemporaneamente la CGIL ha deciso una campagna referendaria contro la precarietà articolata su 4 quesiti, i primi due sui licenziamenti (uno sul superamento del contratto a tutele crescenti e l’altro sull’indennizzo nelle piccole imprese, previsti dal Jobs act), il terzo sulla riduzione della presenza delle causali per i contratti a termine; il quarto relativo agli appalti, sulla responsabilità del committente sugli infortuni sul lavoro.

Torneremo con un ragionamento specifico su questa scelta: che appare assai difficile al di là della condivisione dei contenuti, sui quali le forze della sinistra politica e sociale hanno sempre condotto una strenua battaglia, (senza che per altro altre forze più consistenti le dessero un adeguato sostegno), ci si interroga se questo strumento, nel contesto dato, possa risultare efficace e soprattutto se, raccolte le firme, ci sarà effettivamente a livello di massa la comprensione della posta in gioco e la possibilità di una vittoria senza la quale i referendum si trasformerebbero in un  pericoloso boomerang.[1]

Ma proprio per questo il successo del progetto è strettamente collegato allo sviluppo delle battaglie contrattuali e a una forte mobilitazione senza la quale non solo non sarà possibile conquistare buoni contratti, ma tanto più creare un clima di effervescenza sociale che dia credibilità anche ai quesiti referendari. Lo scontro con il governo, ma egualmente contro la classe padronale, sarà quanto mai duro e difficile; deve essere combattuto e vinto in primo luogo dentro i luoghi di lavoro per poter anche diventare efficace in termini di opinione pubblica generale.

La forza di un’organizzazione sindacale, la sua credibilità, la sua possibilità di condizionare i governi e beninteso di piegare i padroni, sta nella sua capacità e forza di contrattazione, a sua volta determinato da quanto avviene nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro e dalla dimensione degli scioperi. Siamo all’ABC.  

Le vertenze contrattuali

I buoni propositi della direzione della CGIL per quanto riguarda la questione salariale hanno delle verifiche immediate; da subito è in ballo il contratto delle lavoratrici e dei lavoratori del settore pubblico che non vedono il rinnovo del contratto da lungo tempo e per il quale il governo, nella legge finanziaria, ha previsto e stanziato solo un adeguamento salariale del 5,5%, quando l’indice IPCA pone l’asticella al 17%. Che cosa si intende fare, tanto più essendo nota la propensione della CISL a farsi carico delle scelte governative?

Pochi giorni fa è intervenuto l’accordo sul nuovo contratto nel settore del commercio (3 milioni di lavoratrici e lavoratori), dopo 4 anni di attesa e dopo lo sciopero realizzato dalla categoria il 23 dicembre scorso. L’intesa vale dal 1° aprile 2023 al 31 marzo 2027 e prevede un aumento di 240 euro per il 4° livello. Si prevede anche una «una tantum» per la carenza contrattuale di 350 euro in due tranche di uguale importo a luglio 2024 e luglio 2025. Meglio di niente certo, ma il risultato non pare eccezionale e il recupero salariale appare al di sotto dell’IPCA tenuto conto che si era fermi dal 2019; inoltre un parte consistente dell’aumento arriverà solo verso la fine della scadenza del contratto cioè nel 2027.Resta fuori da questo accordo per ora, la grande distribuzione, cioè i supermercati, ma non solo, (240.000 addetti); i sindacati si sono trovati a fronteggiare la protervia di una controparte padronale (la Federdistribuzione) che vuole sabotare diritti e garanzie attualmente contenute nel contratto nazionale e imporre una flessibilità ancora maggiore ed incontrollata che peggiorerebbe sempre più le condizioni di lavoro, ed hanno così proclamato un primo sciopero per la vigilia di Pasqua, che ha visto una buona partecipazione.[2] Una strada difficile e in salita. 

La categoria dei metalmeccanici ha varato la piattaforma contrattuale a metà febbraio: contiene la richiesta di un aumento salariale medio di 280 euro, al di sopra dell’indice IPCA depurato dai costi energetici (occorre tenere conto che dal 2016 i metalmeccanici hanno avuto aumenti salariali irrisori, inferiori addirittura alle rivalutazioni delle/dei pensionate/i, che pure sono stati impoveriti), sperimentazioni di riduzioni dell’orario di lavoro (poco circostanziate e temporalmente non definite) e poi anche soldi in più per Metasalute, cioè la sanità privata. Si tratta di un passo in avanti molto parziale, su cui la minoranza interna, le Radici del sindacato, si è astenuta con una dichiarazione molto articolata che ricostruisce le dinamiche contrattuali complessive della categoria.

La scala mobile dei salari (la contingenza)

In realtà sul salario non si ha il coraggio di affrontare il nodo di fondo: riaprire una battaglia strategica per imporre un meccanismo automatico di protezione dei salari, senza il quale la classe lavoratrice è costretta a una rincorsa senza fin con risultati il più delle volte deludenti, per difendere la sua condizione materiale. La classe operaia italiana era riuscita a conquistare questo strumento: nel secondo dopoguerra in forma parziale, poi via via in modalità più larghe fino a strappare, con la grande lotta degli anni ’70, l’accordo del 1975. Prevedeva il punto unico di contingenza per tutte le categorie, l’adeguamento automatico del salario ogni 3 mesi recuperando l’inflazione prodotta sulla base di un paniere che rappresentava i diversi consumi delle/lavoratrici/tori. I padroni non hanno mai digerito questo accordo (firmato per la Confindustria dal Presidente di allora, Giovanni Agnelli) che avevano dovuto accettare sotto l’impatto delle grandi lotte ed hanno poi tramato, con l’aiuto dei vari governi, per rimetterlo in discussione fin dal 1977 e poi negli anni ’80. Dapprima con misure che ne hanno indebolito l’incidenza tra cui spostando a sei mesi e poi a un anno gli scatti della scala mobile e poi con il governo Craxi, rubando d’imperio 4 scatti di contingenza nel 1984, e infine riuscendo ad abolirla del tutto con l’accordo tra il governo Amato, la Confindustria e i sindacati il 31 luglio 1992, guarda caso mentre le fabbriche stavano chiudendo e le lavoratrtici e i lavoratori partivano per le vacanze. La rabbia operaia esplose nell’autunno (la stagione dei bulloni) nelle manifestazioni contro la finanziaria monstre di 100 miliardi di Amato, ma anche contro i dirigenti sindacali, giustamente considerati responsabili delle difficoltà in cui si trovava il movimento operaio.[3]

Un anno dopo, il 23 luglio del 1993, andando di male in peggio, le tre Confederazioni firmarono un secondo accordo, quello della “concertazione” (Bruno Trentin, Sergio D’Antoni e Piero Larizza per le Confederazioni, Luigi Abete per la Confindustria, Aurelio Ciampi capo del governo), cioè la famigerata politica dei redditi, che introduceva un nuovo vincolo per i salari, il tasso di inflazione programmato dal governo, che sanciva ancor più l’accettazione della centralità del profitto sui salari.[4]

Alcune categorie di lavoratori nei loro cedolini trovano ancora come voce specifica l’importo della contingenza (in genere è ormai conglobata nella paga base) che era una parte molto consistente del salario, purtroppo congelata da quell’accordo del lontano1992 che ne impose l’abolizione.

Non è un caso che tutte le statistiche indicano che da quella data in poi i salari hanno iniziato la loro corsa al ribasso e, da allora, è cominciato il disperato lavoro di Sisifo dei lavoratori per cercare di recuperare con sempre maggiore difficoltà quanto l’inflazione capitalista erodeva loro ogni giorno. Oggi nella stessa Germania è cominciata una discussione sull’introduzione della scala mobile dei salari. Questa partita va riaperta anche in Italia.

In conclusione

Il percorso di lotta che si deve aprire non è certo facile, anche perché è ben nota la posizione dei capitalisti e la natura reazionaria del governo Meloni la cui azione indica chiaramente che non vuole fare prigionieri. Costruire seriamente le lotte contrattuali su una piattaforma forte e realmente comprensiva degli interessi delle lavoratrici e dei lavoratori è la centralità. Ed è una centralità che va coordinata con un’azione coerente tra le diverse categorie. A parole la direzione della CGIL lo propone, altra cosa è se lo saprà fare e se lo vorrà/saprà fare un apparato che da decenni opera in altro modo.

Inoltre, se sappiamo contare bene, la direzione di questo sindacato propone ben 4 livelli di operatività.

Quella dei contratti, quella dei quesiti referendari, quella del sostegno e della partecipazione al movimento contro l’autonomia differenziata e quindi anche a questa altra scadenza referendaria, quella infine più che indispensabile (anzi arriva tardi) contro gli omicidi sul lavoro con la scadenza dello sciopero dell’11 aprile (a cui si è aggiunto anche la questione del fisco).

Ad essa va aggiunta una ulteriore dimensione, (per altro non dimenticata da Landini nelle sue interviste) quella della lotta antifascista, che acquista tutta la sua attualità di fronte a un governo i cui esponenti agiscono in continuità politica e ideologica col peggiore passato della storia italiana e che pone tra poche settimane due scadenze simbolo della lotta del movimento operaio, quella del 25 aprile e quella del Primo maggio, che non può essere affrontano, come viene fatto da anni in alcune città, nella forma irrilevante sul piano sociale, del concerto musicale. Il primo maggio è di lotta e di manifestazione, oppure non è.

Davvero tanto, praticamente servirebbe una mobilitazione ed anche uno sciopero tutti i giorni, per di più con la CISL che gioca un’altra partita ed una incerta alleanza con la UIL. Meglio sarebbe stato svegliarsi molto prima e non lasciare degradare così tanto la situazione sociale e nei luoghi di lavoro.

Lo ripetiamo, la principale leva sindacale su cui bisogna concentrare molte energie e soprattutto non fare passi indietro è quella dei contratti per riuscire a rendere di nuovo protagoniste/i le lavoratrici e i lavoratori nelle aziende, negli uffici, in tutti i luoghi di lavoro, di farli artefici de loro futuro, di ricostruire la coscienza collettiva di classe.

E’ quello per altro che i sindacati di base si propongono da molti anni pur coi loro evidenti limiti e la loro condizione di minoranza.

Non sarà un percorso facile visti i tempi in cui viviamo, ma la posta in gioco, che richiede un impegno molto forte e prolungato, è la ricostruzione di un sindacato di lotta e di classe: la trattativa con i padroni, con l’avversario, può essere solo la conclusione di un nuovo rapporto di forza costruito con la lotta per essere efficace nella difesa della condizione della classe lavoratrice; il tavolo della trattativa, se diventa, come è da anni, l’obiettivo unico delle burocrazie sindacali, a prescindere dai contenuti e dal movimento, può solo confermare la palude della concertazione, cioè della subordinazione alle scelte padronali e la sconfitta per le lavoratrici e lavoratori. 


[1] La sinistra sindacale della CGIL ha espresso forti riserve u questa scelta: ” La discussione dell’Assemblea Generale CGIL del 18/19 gennaio sembra invece indicare una diversa prospettiva, con la scelta di mettere al centro dell’iniziativa sindacale una nuova campagna referendaria, su un pacchetto di quesiti e Leggi di Iniziativa Popolare senza un cuore definito e soprattutto senza una connessione con movimenti e mobilitazioni di massa. Una scelta che rischia di delinearsi come sostitutiva allo sviluppo delle necessarie mobilitazioni categoriali e generali.”

[2] Subito dopo la Lidl Italia ha deciso di uscire dalla Federdistribuzione e di applicare il contratto siglato pochi giorni fa dalla Confcommercio con i sindacati giudicando negativo il protrarsi della trattativa.

[3] Trentin (CGIL) viene pesantemente contestato a Firenze, D’Antoni (CISL) a Milano e così un po’ tutti gli altri sindacalisti. È impossibile per loro concludere i comizi: fischi e grida prevalgono, dalla folla piovono bulloni. La contestazione assume una tale portata che la stampa battezza quel periodo “la stagione dei bulloni”. I dirigenti sindacali parlano protetti dal servizio d’ordine munito di scudi di plexiglass.

[4] Non possiamo che condividere la sintesi fatta Contropiano: I risultati di quell’accordo – noto come “La Concertazione” – sono stati devastanti per i salari e i lavoratori negli anni successivi. Di fatto verrà introdotto il blocco dei salari mentre tutto intorno i governi (Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi) facevano a pezzi il lavoro e il salario sociale con le privatizzazioni, i tagli ai servizi sociali, le controriforme pensionistiche e l’introduzione dei contratti di lavoro precari”. Non è un caso che i sindacati di base nacquero e si svilupparono a partire da quelle vicende.