Dieci euro è il minimo. Una proposta di iniziativa popolare
di Francesco Locantore
Il lavoro povero in Italia
La questione dei bassi salari in Italia è ormai ineludibile. La stretta sui salari cominciata negli anni ’90, per ridurre l’inflazione e far rientrare l’Italia nei parametri di Maastricht, ha prodotto milioni di lavoratori e lavoratrici poveri/e. Dal 1990 al 2020 le retribuzioni medie italiane sono calate del 3% circa, mentre sono aumentate in tutti gli altri paesi OCSE. Già nel 2019, prima della pandemia, l’Eurostat segnalava che l’11,8% dei lavoratori e delle lavoratrici italiani/e percepivano una retribuzione al di sotto della soglia di povertà. Secondo una recente ricerca dei CAF Acli, questa percentuale sarebbe arrivata nel 2021 al 15%, con un lavoratore su tre a rischio di precipitare in condizioni di povertà assoluta a fronte di un evento inaspettato o straordinario (una malattia, un divorzio, la nascita di un figlio…). L’impennata dell’inflazione dallo scorso anno ha fatto precipitare una situazione già grave, rendendo evidente all’opinione pubblica quella che è una vera e propria emergenza sociale.
Come si è arrivati a questo disastro? Le cause sono multiple, ma la logica è comune, quella dello strapotere dei capitalisti e delle politiche economiche neoliberiste. L’abolizione della scala mobile dei salari, cioè del loro adeguamento automatico all’inflazione, è stata la prima pietra fondamentale di queste politiche. Ma anche la precarizzazione del lavoro, con la legittimazione e la conseguente proliferazione di tipologie di lavoro diverse quello subordinato a tempo indeterminato; la liberalizzazione dei licenziamenti con la cancellazione del diritto al reintegro in caso di licenziamento ingiusto; la concertazione sindacale, che ha portato alla moderazione delle richieste salariali, nella maggior parte dei casi limitate a recuperare a posteriori il potere d’acquisto perso con l’inflazione. Negli ultimi anni inoltre, in assenza di un meccanismo legale oggettivo di misurazione della rappresentatività sindacale, sono proliferati una serie di contratti collettivi “pirata”, che prevedono condizioni di lavoro al ribasso, firmati da sindacati di dubbia rappresentatività. Al CNEL sono registrati oltre mille CCNL, di cui solo circa duecento sarebbero quelli firmati dalle tre principali organizzazioni sindacali: Cgil, Cisl e Uil.
Non che i contratti firmati da Cgil, Cisl e Uil siano una garanzia di salari dignitosi, anzi. La vicenda scandalosa del rinnovo contrattuale della vigilanza e dei servizi fiduciari dimostra che il limite della decenza sindacale è stato ampiamente sfondato anche dalle organizzazioni sindacali principali. In questo settore, ad oggi il più povero in Italia, si può lavorare con un salario orario di inserimento (livello F) di 4,61€ lordi, che sale a 5,37€ per un lavoratore assunto da oltre 24 mesi!
Invece di cambiare radicalmente la propria politica contrattuale e lanciare una battaglia sul salario minimo, i maggiori sindacati sembrano impegnati ad elemosinare un qualche aumento dei redditi netti attraverso la riduzione del cuneo fiscale, misura che in ultima analisi va a colpire gli stessi lavoratori e lavoratrici, minando la possibilità di finanziare i servizi pubblici fondamentali e aumentando il debito pubblico, fino a che non verrà di nuovo richiesto ai lavoratori di fare sacrifici per risanare il bilancio dello Stato.
Il salario minimo in Europa
In Europa, su 27 paesi, sono solo sei quelli a non aver introdotto un salario minimo fissato dalla legge. In Italia, la Costituzione prevede il diritto ad una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36) ma non esiste una legge che quantifichi tale diritto. La giurisprudenza è orientata a riconoscere come salario minimo quello fissato dalla contrattazione collettiva del proprio settore, ma ovviamente non è la stessa cosa di avere un minimo fissato per legge, anche per il problema dei contratti pirata sopra citati. Inoltre ci sono settori in cui la retribuzione non garantisce affatto un’esistenza libera e dignitosa, perché magari il contratto scaduto non viene rinnovato o perché, pur di firmare, i dirigenti sindacali si abbassano ad accettare salari da fame.
Ovviamente il livello del salario minimo legale è fondamentale per discriminare se può diventare uno strumento per rialzare il livello generale dei salari, aumentando i minimi contrattuali esistenti e garantendo che essi siano agganciati all’andamento dei prezzi, oppure uno strumento delle classi dominanti per favorire una ulteriore ondata di moderazione salariale. In Europa, tra i Paesi in cui esiste un salario minimo legale, c’è una divisione sostanziale tra quelli che prevedono salari minimi orari compresi tra i 9,82€ e i 13,05€ (Germania, Belgio, Irlanda, Olanda, Francia, Lussemburgo) e quelli che non vanno oltre i 6,21€ della Slovenia.
In Italia una proposta di un salario minimo legale non può essere inferiore a 10€, in linea con le principali economie sviluppate europee ma in grado di stimolare una ripresa dei livelli salariali in molti settori. Secondo i calcoli dell’INPS, attualmente sono circa quattro milioni e seicentomila i lavoratori e le lavoratrici dei settori privati che percepiscono un salario orario inferiore a 9 euro lordi. Una platea importante, ma non sarebbero solo questi i beneficiari dell’introduzione di un salario minimo legale. L’introduzione di un minimo sotto il quale non sarebbe possibile retribuire i livelli inferiori di ciascun contratto, porterebbe a una spinta per riparametrare tutte le tabelle contrattuali a partire dai nuovi minimi. Inoltre l’aggancio dei minimi contrattuali all’inflazione porterebbe a un meccanismo quasi automatico di difesa del potere d’acquisto dei salari. Insomma il salario minimo legale è interesse di tutta la classe lavoratrice, per cominciare riconquistare le quote del reddito nazionale che sono state sottratte in questi anni a favore dei profitti.
La proposta di legge di iniziativa popolare
In questa direzione si muove la proposta di legge di iniziativa popolare per il salario minimo lanciata lo scorso 2 giugno da Unione Popolare.
Esistono già 6 proposte di legge sul salario minimo presentate da altrettanti Parlamentari: Fratoianni (SI), Serracchiani (PD), Laus (PD), Conte (M5S), Orlando (PD), Richetti (Italia Viva). Tuttavia la proposta di UP ha due vantaggi: la radicalità dei contenuti e la metodologia dell’iniziativa popolare, con l’idea di imporre dal basso la discussione parlamentare.
Per quanto riguarda i contenuti, la proposta introdurrebbe un salario minimo orario di 10€ lordi in tutti i settori in cui il salario minimo contrattuale è inferiore a tale cifra (in questo caso i CCNL dovrebbero adeguarsi entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge) o non esiste del tutto, lasciando intatti i minimi contrattuali superiori a tale cifra nei settori in cui siano previsti dai rispettivi CCNL vigenti.
Il salario minimo di dieci euro è riferito alla sola retribuzione oraria di base del livello inferiore, che va aggiunta alle mensilità aggiuntive previste dai contratti (tredicesima e quattordicesima), alle retribuzioni differite (TFR), agli scatti di anzianità e alle altre competenze contrattuali.
Il minimo salariale dovrebbe essere rivalutato due volte l’anno (il primo gennaio e il primo luglio) sulla base dell’indice dei prezzi al consumo armonizzato (IPCA).
Il minimo salariale sarebbe applicabile anche ai compensi per lavoro parasubordinato, cioè per tutti quei lavoratori formalmente autonomi, ma che prestano una collaborazione continuativa sotto l’organizzazione del committente, anche attraverso piattaforme digitali (si pensi ad esempio ai riders).
Infine la proposta contiene una serie di pesanti sanzioni per i datori di lavoro che dovessero retribuire i propri dipendenti con salari inferiori al minimo legale, oltre al divieto di partecipare ad appalti pubblici o poter ricevere finanziamenti pubblici in qualsiasi forma per tre anni.
Dal punto di vista del metodo dell’iniziativa popolare, questo può essere uno strumento per mobilitare settori importanti della classe lavoratrice su un obiettivo unificante e comprensibile. Ma per fare questo bisogna costruire un largo consenso su questa proposta, chiedendo a tutte le organizzazioni politiche e sociali della classe di muoversi in una campagna comune. Oltre a Sinistra Anticapitalista, anche l’area “Le Radici del sindacato”, la sinistra sindacale della Cgil, ha annunciato la propria adesione alla campagna di raccolta firme. Unione popolare, Rifondazione comunista e Potere al Popolo hanno sicuramente avuto il merito di lanciare una iniziativa utile alla ripresa della mobilitazione di classe, ma devono uscire dalla logica di bandiera o peggio ancora di concorrenza interna alle forze della sinistra di classe e lanciare un comitato di sostegno unitario con tutte le altre forze che hanno intenzione di raccogliere le firme e partecipare alla campagna.
La campagna di Sinistra Anticapitalista
I circoli di Sinistra Anticapitalista saranno impegnati nelle prossime settimane a organizzare banchetti di raccolta firme e iniziative pubbliche per far conoscere e guadagnare consensi alla proposta di legge sul salario minimo. I materiali utili ad organizzare le iniziative saranno pubblicati a breve su questo sito.
La battaglia sul salario minimo legale va collegata però ad una piattaforma più ampia sui salari, per coinvolgere settori più ampi della classe e per costruire una proposta efficace per riprenderci ciò che ci è stato sottratto in questi anni.
In primo luogo è necessario collegare la lotta per il salario minimo a quella per l’introduzione di un salario sociale anche per i/le disoccupati/e e i lavoratori e le lavoratrici in formazione, tanto più urgente dopo la cancellazione del reddito di cittadinanza operata dal governo Meloni. La polemica che la borghesia ha sollevato contro i “fannulloni” che preferirebbero vivere con un sussidio anziché lavorare ha smascherato i legami tra questo governo e le classi sociali dominanti. Il reddito di cittadinanza, uno strumento invero molto limitato, è stato cancellato in ossequio alla brama di sfruttamento dei padroni piccoli e grandi. Non è tollerabile che le/i giovani e le/i disoccupate/i debbano accettare qualsiasi proposta di lavoro a qualsiasi condizione, sottoposti al ricatto di non poter avere le condizioni minime di sopravvivenza. In secondo luogo è necessario affiancare la lotta per il salario minimo a quella per la reintroduzione della scala mobile dei salari, cioè per il loro adeguamento automatico all’inflazione, in modo che le retribuzioni non perdano potere d’acquisto ad ogni aumento dei prezzi, a tutto vantaggio dei profitti delle imprese, che utilizzano i prezzi come arma per regolare il conflitto distributivo a proprio esclusivo vantaggio.
