Brasile, crisi, incertezza e lotta tra fazione
da correiocidadania.com.br, traduzione di Fabrizio Burattini
Crisi profonda, totale incertezza e lotta di fazione. Se qualcuno arrivasse da fuori e avesse bisogno di un’immagine rapida, di una definizione del Brasile oggi, queste poche parole sono quelle di cui c’è bisogno.
Ma è sempre possibile approfondire il ragionamento con ulteriori valutazioni, anche riconsiderando idee consolidate.
Una novità, forse, risiede nel fatto che i sostenitori del governo, i sostenitori del PT della prima ora, che credevano, o fingevano di credere nel “cuore coraggioso” di Dilma nella ultima competizione elettorale, sentono sempre più cedere la terra sotto i piedi quando si ostinano a negare quello che può essere definito il crollo della “egemonia di Lula”.
Un’egemonia che ere riuscita a coinvolgere i poveri e a sedare la base della società, nel periodo in cui l’economia internazionale cresceva e reinvestiva parte dei suoi enormi profitti in Brasile. Questa egemonia si è basata, da un lato, nell’occupazione dello stato da parte della burocrazia e dei dirigenti del PT; dall’altro lato ha prosperato grazie alla passività delle masse popolari, affascinate da un programma assistenzialista e da politiche di redistribuzione del reddito.
Fine della festa degli investimenti che affluivano d’oltre mare, fine delle possibilità di una politica di conciliazione di classe. Non si può più cercare di non vedere il grado di resa del “governo dei lavoratori”, quando la corruzione in una delle principali imprese (la Petrobras, l’impresa petrolifera di stato, ndt) pubbliche salta agli occhi; quando alcuni dei grandi impresari che si sono sempre collocati all’opposizione gridano a tutto il paese che la presidente ha già fatto tutto, la presidente che si allinea con Levy (il ministro dell’Industria, che sostiene una politica economica recessiva, di diminuzione dell’imposizione fiscale sugli alti redditi e dio taglio dei diritti sociali), oppure che è caduta nell’immobilismo più assoluto di fronte al PMDB (partito di centrista alleato del PT, ndt) che, con il sostegno entusiasta dei mass media, sferra quotidianamente colpi contro il governo minacciando la presidente Dilma di esigere il taglio quasi a metà del numero degli attuali ministeri, numerosi dei quali, peraltro, sono proprio in mano a PMDB.
Di fatto, tutto ciò non costituisce una sorpresa per chi ha osservato con un minimo di realismo le contraddizioni impresse nel modello di sviluppo degli ultimi 12 anni, con un governo che cerca di stare in equilibrio tra due punte inconciliabili. Ma in questa congiuntura esistono anche ingredienti notevoli e sorprendenti che rivelano le trappole del patto di sviluppo dei governi “petisti”, fatte già proprie da componenti del governo stesso. Incredibilmente persiste un clima di contrapposizione, “noi contro loro”, o “loro contro di noi”, clima che sia il governo che l’opposizione alimentano, trascinando con sé molta parte del sentire popolare.
E’ lì che risiede la grande trappola in cui è caduta la nazione, trappola che questo giornale (“Correio da cidadania”, ndr) cerca da sempre di svelare con i nostri articoli e i nostri editoriali, ad ogni cambio di congiuntura. Le manifestazioni filogovernative iniziate il 13 marzo e quelle dell’opposizione del 15 marzo, e le loro ripercussioni, sono sufficientemente simboliche per descrivere lo spirito che si è impadronito del paese: personificazione del male, parole ad effetto, rozzi linguaggi gergali riempiono le menti e i commenti personali e mediatici, allontanando la possibilità di capire fino in fondo le cause reali di un così grande smantellamento economico, politico, sociale e istituzionale.
La crisi del “petismo” e del “lulismo”, con la conseguente e profonda riorganizzazione della società brasiliana indica senza dubbio il contesto attuale di crisi politica e istituzionale, ma anche il cambio di qualità della lotta politica. Un riposizionamento e una eventuale unificazione della sinistra progressista sono all’ordine del giorno, così come già è in orso una riorganizzazione di importanti settori di destra della popolazione, parallela alla unificazione di settori delle classi dominanti, con l’obiettivo di umiliare la presidente.
Dissanguarla totalmente, sottoporla ad impeachment o ottenere le sue dimissioni sono gli obiettivi di fondo di questi settori e non c’è possibilità di prevedere che accadrà prossimamente. Molto dipenderà dalla dimensione e dall’impatto della decelerazione economica.
Non si perda di vista, nel frattempo, che da un lato c’è una destra (quella in piazza il 15 marzo, ma non solo) criminale, conservatrice, fascista e golpista, che non si è mai piegata alla moralità delle istituzioni pubbliche e alla etica della rappresentanza politica. Dall’altro lato, a sua volta, c’è un partito che, assieme alla centrale sindacale CUT, ha organizzato le manifestazioni del 13 marzo e che, proprio per essersi definito Partito dei Lavoratori, ha praticato una delle più grandi imposture della storia per un partito che è nato progressista, dalla parte dei lavoratori e a sinistra dello schieramento politico: ha fatto proprie le bandiere della destra, ha corrotto il sistema di rappresentanza politica, ha dato un contributo fondamentale per indebolire la sinistra e ha destabilizzato il paese.
Se il primo fronte non fosse anch’esso impedito dall’impossibilità di riciclare il neoliberismo a partire dall’egemonia lulista, certamente opterebbe per un “golpe democratico”. D’altra parte, per applicare il programma del PSDB (partito di opposizione di centrodestra, ndt), sarebbe molto meglio un esponente di quel partito. Quanto al secondo fronte, che cosa propone di nuovo dopo le manifestazioni del 13 marzo, se non grida di guerra in difesa della Petrobras e chiacchiere vaghe per una riforma della politica che non toccherà neanche da lontano l’essenza delle strutture del potere?
Intanto che cosa dicono entrambi i raggruppamenti analoghe sulla riforma fiscale, sulle sue conseguenze nel taglio dei diritti sociali, sulla disoccupazione, in breve su questioni sostanziali per la classe lavoratrice? Una classe lavoratrice che dovrà confluire con le proteste di piazza della classe media. Non dicono assolutamente nulla.
Il Brasile oggi è di fronte ad una lotta tra fazioni che non toccano l’essenziale. Fazioni che non hanno, nessuna tra loro, neanche la minima condizione morale per poter parlare.