Renzi: la vertigine del successo

di Diego Giachetti

 

così percossa, attonita
la terra al nunzio sta […]

Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza

(Alessandro Manzoni, Il 5 maggio)

the-pilgrim-1966(1).jpg!BlogL’Italia è sovente un paese dove prima di fare i conti con la propria storia, si regolano i conti con uomini e simboli, sostituendoli con altri uomini e simboli ed è anche il Paese delle parentesi dello spirito, dello smarrimento della ragione. In tal senso l’ultimo esempio di questa rappresentazione è stato il berlusconismo. Considerato una malattia dello spirito divenne l’unica ragion d’essere degli altri. Il berlusconismo produsse così, tra le tante manifestazioni del suo essere, anche un derivato: l’antiberlusconismo. Nel suo nome si consumarono via via le peggiori alleanze, unioni, ribaltini e ribaltoni conditi da grandi proclami moralistici accompagnati da un tatticismo cinico, contraddittorio, incapace volutamente di definire una diversa e radicale concezione della società, uno zig-zagare nella palude centrista dei palazzi del potere, convinti che, a prescindere, l’elettorato avrebbe capito e avrebbe finalmente premiato la misera ragion pratica del fronte variopinto di interessi antiberlusconiano. Il renzismo che si è affacciato prepotentemente sulla scena politica è il prodotto lontano del berlusconismo mediato dal passaggio intermedio del fallimento dell’antiberlusconismo propugnato dal partito maggiore del fronte: il Pd. Fu infatti il Pd stesso a mettere in ombra l’assioma ventennale dei “buoni” contro i “cattivi” quando, dopo la caduta dell’ultimo governo Berlusconi, sostenne prima il governo Monti e poi quello Letta unitamente al vecchio “cattivo” avversario.

Tecnica renziana della presa del potere

Diverse sono le lezioni che Renzi ha imparato da Berlusconi e, ancora prima, dallo stesso Bettino Craxi. Occorre avere un partito di fedelissimi esecutori, che amano profondamente il leader senza contraddirlo: al massimo, come finzione dialettica, è ammessa una breve schermaglia di opinioni, ben sapendo che comunque quel che deciderà andrà approvato e forse realizzato. Berlusconi non aveva un partito, dovette costruirne uno a sua immagine e somiglianza. Renzi, come Craxi a suo tempo, un partito già lo aveva, doveva solo scalarlo dall’interno per trasformarlo a sua immagine e somiglianza. Occorre costruirsi un’immagine pubblica di innovatore radicale del sistema attraverso una serie di slogan semplici, privi di argomentazione, ripetuti tante volte, generici, così che ognuno possa riporvi le sue speranze, illusioni o trovar pace alla sua disperazione. E’ l’estetica della comunicazione: il verso è tutto, diceva D’annunzio, è la parola che crea e evoca il mondo, siamo stanchi dei fatti dateci il sogno.

Non potendo aver ragione né fuori né contro il partito, Renzi doveva portare la sua ragione dentro il partito. Occorreva quindi far spazio alla sua ragione, “eliminare” la vecchia guardia operando in due modi: costringendoli a capitolare (molti lo hanno fatto) o ridurli al margine e contemporaneamente “rinnovare” con la “rottamazione” la fila dirigenti del partito, promuovendo e facendo propri gli appetiti di una nuova anagraficamente leva di quadri medi e medio alti. Realizzò l’intento operando all’interno e all’esterno. All’interno del partito incontrò le maggiori difficoltà e resistenze da parte dell’apparato, sedimentato e già costituito da vecchia data. Congiuntamente capì che il punto debole (di forza per lui) era rappresentato dalle primarie, cioè quella “folla” eterogenea di qualche milione di elettori ai quali si demandava di volta in volta il compito di scegliere il segretario del partito, oppure il candidato a guidare lo schieramento di centro sinistra alle elezioni politiche. Il meccanismo delle primarie aveva introdotto un forte elemento plebiscitario che rendeva possibili risultati netti e definitivi. Il popolo delle primarie inoltre si limita a incoronare colui che è già stato designato sull’onda della visibilità e del successo di facciata attribuitogli dai media che hanno un ruolo determinante.

Nelle primarie del 2013 per designare il candidato che doveva guidare la colazione di centro sinistra, Bersani, il vincitore, incappò in alcune difficoltà. Fu eletto solo al secondo turno nel ballottaggio con Renzi. Nel vuoto di proposta politica alternativa reale e convincente, tipica ormai da tempo nell’arena di centro sinistra, le variabili della contesa tra i candidati vertevano ormai su aspetti estetici e generazionali, tipici della melliflua postmodernità ben impersonata dagli slogan immaginifici e vacui che distinse quella contesa: “rottamatori” contro “usato sicuro”. Cosa divise la scelta dei partecipanti a quelle primarie? Non il giudizio politico sull’operato del governo Monti di allora, considerato a stragrande maggioranza, indipendentemente dal voto per Renzi o Bersani, positivo, ma il dato anagrafico e l’appartenenza al partito. Votarono per Bersani gli elettori più anziani (56%) e “militanti” di partito (88%), mentre tra gli elettori non iscritti ad alcun partito della coalizione (il 77%), Renzi fu il candidato preferito.

Col senno di poi si può dire che la sconfitta subita da Renzi nelle primarie fu la sua fortuna. Nelle elezioni politiche del 2013 la nuova «gioiosa macchina da guerra», data vincente nei sondaggi, perse. Solo grazie all’alchimia di un sistema elettorale bizzarro il Pd otteneva la maggioranza dei seggi alla Camera, ma non al Senato, neanche sommando i suoi senatori a quelli del centro di Monti. Una vittoria effimera dunque, se paragonata al successo, inaspettato, del Movimento Cinque Stelle e alla tenuta, seppur con dolorose perdite, del partito di Berlusconi, accompagnata dalla relativa affermazione della coalizione centrista guidata da Monti. La non affermazione del Pd produsse nell’arco di poche settimane la crisi e il crollo della segreteria Bersani, si dovette ripiegare sul governo Letta, appoggiato anche da Berlusconi. Furono le settimane dello sbando del Pd, frastornato, percorso da faide interne che si manifestarono nel corso delle votazioni per la presidenza della Repubblica con il siluramento da parte dei franchi tiratori dei candidati, Marini e Prodi, proposti dal partito. Era l’occasione per lo sconfitto alle primarie di rialzare la testa. Primo obiettivo conquistare il partito. Le nuove primarie del Pd convocate l’8 dicembre del 2013 incoronarono alla segreteria Renzi col 68% dei consensi. Contemporaneamente una pletora di nuovi delegati al congresso designava una maggioranza tutta renziana ai vertici del partito. Conquistato il partito azionista di maggioranza della maggioranza governativa non rimaneva che rimpiazzare Letta con Renzi a capo del governo, sfiduciandolo non con un voto in Parlamento ma con un voto a larghissima maggioranza della Direzione Nazionale del Pd su un documento in cui si chiedeva un cambio dell’esecutivo. Detto, votato, fatto: il 17 febbraio 2014 riceve l’incarico di formare un nuovo governo, il 22 febbraio il governo c’è e il 25 ottiene la fiducia dal Parlamento. Era l’inizio della vertigine del successo.

Una nuova Democrazia Cristiana?

Renzi non aveva la strada spianata per destino divino, si era invece aperto uno vuoto politico che consentiva la sua azione. Conquistato il partito e umiliato gli avversari interni, conquistato il governo, fatto suo il consenso dei maggiori media nazionali e della classe dominate, mancava solo il consenso elettorale. Il primo punto semplice e prosaico del suo programma era ed è sintetizzabile nella parola «vincere!»: le primarie, l’incarico di capo del governo e poi le elezioni. Sentimento superficiale ma chiaro, empatico, condiviso nel cuore di un popolo di centro sinistra che tante, troppe volte, ha celebrato sconfitte per vittorie o piccole vittorie per effimere svolte epocali. Il sentimento del «vincere!» ha origini nelle disillusioni disperate di un elettorato educato per anni all’antiberlusconismo di maniera. L’importante non era il programma politico da realizzare ma essere contro Berlusconi mettendo assieme tutto e il suo contrario. In questo modo quell’elettorato ha vissuto per quasi un ventennio in funzione dell’avversario politico, senza avere altra idea che non quella di batterlo.

Le recenti elezioni europee del 2014 fotografano un paese in cui una parte consistente dell’elettorato è in preda alla disperazione e ha tutte le ragioni oggettive per esserlo: la crisi morde redditi e stili di vita dei ceti popolari, le prospettive mancano e il futuro, ammesso che ancora esista, appare fosco e regressivo rispetto a un presente che è già difficile da sopportare. Sul piano del comportamento elettorale tale disperazione ha avuto nodo di manifestarsi in due modi, con un forte aumento del tasso di astensionismo e con una forte mobilità dell’elettorato. Com’era già accaduto nel 1994 le ultime due tornate elettorali hanno evidenziato la presenza di una quota consistente di elettori mobile e disponibile a cambiare partito, un disallineamento e una presa di distanza repentini, da un anno all’altro com’è accaduto, dai partiti che si erano votati. Tutto l’elettorato centrista della lista civica di Monti, pari a 2.832.814 voti riportati alle politiche del 2013, si è liquefatto lasciando un fondo di soli 197. 883 voti. Similmente altri voti sono usciti dal Movimento Cinque Stelle che ha perso circa 3 milioni di consensi. Da queste esondazioni elettorali il Pd di Renzi ha raccolto circa 3 milioni di voti in più rispetto al risultato dell’anno precedente.

Sorpresi dal risultato elettorale ottenuto da Pd alle elezioni europee del 2014 (40,8%), alcuni commentatori hanno pensato bene di trovare un antecedente e una somiglianza con i risultati elettorali che otteneva la Dc negli anni Cinquanta quando stazionava sul quaranta per cento dei consensi. E’ un paragone improprio per tante ragioni a cominciare dall’aritmetica. Le percentuali, prese da sole e senza riferimenti ai valori assoluti, producono effetti strani e fuorvianti. Quando si ha a che fare con una percentuale ci si deve sempre chiedere: percentuale di che? L’arcano è presto svelato: il 40 e più per cento democristiano di oltre cinquant’anni fa e quello realizzato oggi dal Pd sono in realtà diversi. Allora a votare ci andavano quasi tutti, i votanti sfioravano il 93-94% degli aventi diritto al voto che erano 32.434.852 nel 1958, di essi ben 30.434. 681 si recarono a votare. Alle elezioni europee del 2014 gli aventi diritto al voto sono quasi raddoppiati: 50.662.460, ma il numero dei partecipanti è drasticamente sceso: 28.991.258, pari al 57,22%. Nel 1958 la Dc ottenne 12.520.207, pari al 38,6% degli aventi diritto e al 41% dei votanti. Quelli conseguiti oggi dal Pd sono 11.200.973, su un elettorato potenziale di 50.662.460, pari al 22% e, rispetto al numero dei partecipanti al voto (28.991.258, comprese le schede bianche e nulle), rappresentano il 38,6%. Quello democristiano era un risultato misurato sulla quasi totalità dell’universo elettorale (93,8%), quello del Pd invece è misurato solo sul 57,2%.

Ogni proporzione possibile fra i risultati di oggi e quelli di allora, se fondata solo sulle percentuali e non suoi numeri reali, risulta fallace, ci fa sembrare eguali due momenti storico-politici differenti. Quella era l’Italia dell’avvio del boom, dell’industrializzazione, del miracolo economico che viaggiava verso la quasi piena occupazione, con tassi di crescita di quattro, cinque punti del prodotto interno lordo annuale. Quella di oggi invece è l’Italia attraversata da una lunga crisi strisciante, con cadute dolorose negli ultimi anni, è un paese frammentato e diviso, percorso da un elettorato disilluso, volatile, dubbioso, un po’ “puttanesco”, nel senso che si innamora facilmente di un partito o di una persona, ma altrettanto facilmente tende a dimenticare, com’è accaduto nelle ultime elezioni politiche del 2013 le quali hanno registrato una forte e sorprendente mobilità degli elettori con spostamenti di milioni di voti. Quello democristiano invece, come per altro quello comunista o socialista, era un elettorato solido, consistente, fedele a prescindere, monogamico e senza legge sul divorzio.

Cento e cento e cento e cento giorni del libro segreto di Renzi tentato d’esser il «grande miracolante»

Passati i primi cento giorni di governo, Renzi annuncia che per realizzare la sua rivoluzione occorreranno almeno mille giorni, cioè tre anni. Dopo le promesse mette le mani in avanti rassicurando che rimarrà al governo anche dopo aver fatto miracoli, anzi per fare i miracoli promessi. Prima dei miracoli però occorre consolidare il potere nel partito e nelle istituzioni. Ed ecco la grande riforma istituzionale relativa al sistema elettorale e all’abolizione del Senato elettivo. Una riforma che, a detta dell’ex segretario del Pd, Pierluigi Bersani («La Stampa», 6 luglio 2014), dà al suo successore il potere di essere «Il Grande Nominatore»: con le liste chiuse (senza preferenze) deciderà lui chi candidare alle elezioni nelle liste del Pd e poi, conquistato il parlamento di fedelissimi, con il nuovo Senato nominare il Capo dello Stato, il Consiglio Superiore della Magistratura e la Corte Costituzionale. Questo è uno dei primi “miracoli” che il nostro si appresta a varare. Gli altri sono quelli voluti dalla Confindustria, quelli che il padronato continua a chiedere. Si tratta di “miracoli” già abbozzati e che ora vanno realizzati: nuove consistenti riduzioni di imposta per le imprese, ulteriori liberalizzazioni del lavoro e di flessibilità, mirabolanti promesse sui posti nella ricerca e dei loro miracolosi effetti sulla occupazione giovanile e riproposizione di un “miracolo” già riuscito in precedenza: un altro vigoroso taglio alla spesa pubblica con la spending review. Riuscirà nel suo intento? Durerà il consenso? Intanto per ora, un po’ cinicamente si può constatare che non è la prima volta nella storia, passata o recente, che gli elettori votano contro i propri interessi contribuendo a costituire situazioni poi difficili da sbrogliare e superare.

(L’immagine nel testo è di René Magritte, The Pilgrim)