FIAT: una testimonianza reticente
di Antonio Moscato (da Movimento Operaio)
Valerio Castronovo ha scritto molte opere pregevoli, tra cui una monumentale storia della FIAT (FIAT 1899-1999. Un secolo di storia italiana, Rizzoli, Milano, 1999, di oltre 2.000 pagine) che ho utilizzato largamente per i primi due capitoli di Cento… e uno anni di Fiat.
Ma il suo articolo apparso ieri su Il Sole 24Ore era a dir poco reticente. Lo riproduco comunque, perché è interessante per l’immagine un po’ falsata che finisce per dare di una specie di “vocazione americana” della FIAT, che sarebbe finalmente stata coronata dal successo di Marchionne. È l’impressione che Castronovo dà presentando il vecchio senatore Agnelli (che non era il fondatore, ma il conquistatore della FIAT, strappata con metodi scandalosi e illegali ai veri fondatori e legittimi proprietari), come un uomo che agli albori della sua ascesa va negli Stati Uniti e si lega a Henry Ford con rapporti di amicizia dovuti a una comune origine contadina.
In realtà Giovanni Agnelli come capitalista aveva mostrato presto un grande fiuto su due piani: in primo luogo aveva intuito subito la necessità di operare sul mercato mondiale, abbandonando la produzione semiartigianale di vetture di lusso per una produzione in grande serie, anche prima che il mercato italiano le richiedesse, e questo lo aveva osservato con attenzione proprio nelle catene di montaggio della Ford; ma soprattutto Agnelli aveva puntato presto, già nel primo decennio di esistenza della FIAT, sulla produzione per l’esercito (anzi per gli eserciti, dato che aveva fornito motori per sottomarini anche alla Germania fino a poco prima dell’entrata dell’Italia in guerra contro la Triplice). Ma la sua vera forza erano i legami politici italiani, prima con il ministro della Giustizia Vittorio Emanuele Orlando, che gli assicura l’impunità nel processo che ha subìto per falso in bilancio, aggiotaggio, ecc, poi con i comandi militari che gli garantiscono commesse preziose (fin dalla Guerra di Libia e poi soprattutto nella Grande Guerra). E poi, per tutto il ventennio, con Mussolini.
Risultato: alla fine della prima guerra mondiale la FIAT era passata dai 4.000 dipendenti del 1914 a 40.000, e rappresentava già il 96% della produzione italiana di autoveicoli (inclusi ovviamente soprattutto quelli forniti all’esercito, oltre ad altri prodotti come la mitragliatrici, motori per aerei e navi, piroscafi,ecc.). Ovviamente, mentre per produrre 10.000 auto bisogna trovare 10.000 compratori, per vendere decine di migliaia di auto, camion, ecc. basta trovare e “lubrificare” il canale giusto per battere la concorrenza.
Anche la proiezione internazionale della FIAT non è solo americana: nell’immediato dopoguerra si installa in Austria perché, nel quadro della ripartizione del bottino bellico, ottiene la maggioranza delle azioni della Alpinen Montangesellschaft, che possiede le redditizie miniere di ferro della Stiria. Dopo l’Anschluss si precipita da Mussolini per ottenere assicurazioni che Hitler non tocchi le sue proprietà. Invece quando si accorge di tentativi della General Motors di mettere piede in Italia appoggiandosi su alcuni gerarchi, ottiene subito misure protezioniste da Mussolini, in cambio di un appoggio più esplicito al regime. Intanto dedica grande attenzione e stipula accordi redditizi con il Giappone. Inutile parlare della intensa collaborazione con la Germania nazista durante la Repubblica di Salò, che solo negli ultimi mesi viene affiancata da un doppio e triplo gioco con gli Alleati e la Resistenza (ben presente nelle sue fabbriche, che saranno grazie ad essa salvate dalla distruzione ordinata da Hitler al momento della ritirata).
Vero anche che aveva fatto affari d’oro con l’URSS fin dal 1930, costruendo un enorme stabilimento per la produzione di cuscinetti a sfera, dalle indubbie possibilità di utilizzazione anche militare. Uno stabilimento “chiavi in mano”, come quello di auto che suo nipote farà costruire negli anni Sessanta a Togliattigrad.
La proiezione internazionale della FIAT è dunque ben oltre che “americana”: dal Brasile alla Polonia alla Serbia, magari per far produrre auto da vendere anche in Italia con lo slogan pubblicitario “Compra italiano”…
L’unica cosa veramente da notare in questo breve articolo, è l’accenno alla proposta di riduzione di orario a 32 ore settimanali a parità di salario, fatta con la massima convinzione da Agnelli nel vivo della grande crisi. Varrebbe la pena di ritornarci su più ampiamente. (a.m. 4/1/14)