Il marxismo rivoluzionario è una teoria del movimento e non della stagnazione

A proposito dell’ultimo libro di Trotskij, In difesa del marxismo, ripubblicato da PGreco. Oggi, a più di ottanta anni dalla sua stesura, come inserire In difesa del marxismo nel dibattito politico contemporaneo? Quale utilità teorica e pratica ancora possiede? Perché ripubblicarlo? L’introduzione di Michele Azzerri – 

In difesa del marxismo è appena stato ripubblicato da PGreco, editrice specializzata nel riproporre grandi classici introvabili. A firmare l’introduzione è il nostro Michele Azzerri, compagno della direzione nazionale di Sinistra Anticapitalista, animatore del Centro Livio Maitan e autore, fra l’altro, del prezioso RIVOLUZIONE E INTERNAZIONALISMO Trotsky e i trotskismi tra ortodossia marxista e prefigurazione del futuro.

 

In difesa del marxismo raccoglie tutti gli interventi tenuti da Trotskij nel dibattito che si era sviluppato nel Socialist Workers Party, Sezione Americana della Quarta Internazionale e rappresenta l’ultimo contributo del rivoluzionario russo alla discussione sulla natura sociale dell’URSS e alla difesa dell’ideologia marxista. Si tratta, dunque, della raccolta dei suoi ultimi scritti, riportati nel volume in ordine cronologico, che si chiude con una lettera datata 17 agosto 1940, tre giorni prima che la mano del sicario di Stalin gli vibrasse il colpo mortale. Ecco un assaggio del volume.

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Nell’ultimo decennio della sua vita Lev Trotskij dedicò le sue riflessioni e le sue pubblicazioni alla difesa del marxismo contro il fascismo, contro l’opinione pubblica democratica borghese, contro il virulento stalinismo della Terza Internazionale e contro il social-riformismo della Seconda Internazionale. In particolare, negli ultimi due anni, prima di essere ucciso nell’agosto del 1940 da un sicario stalinista, fu costretto a dare battaglia in difesa del metodo marxista nel dibattito interno al Socialist Workers Party (Swp), sezione americana della Quarta Internazionale.

In difesa del marxismo è la raccolta degli interventi di Trotskij durante questo dibattito, mentre iniziava la Seconda guerra mondiale.

Il Socialist Workers Party fu costituito ufficialmente nel dicembre 1938, ma la sua origine possiamo farla risalire al dicembre 1934, quando fu fondato il Workers Party. Il Workers Party nasceva dall’unione di due organizzazioni: la Communist League of America, Left Opposition of the Communist Party guidato da J.P. Cannon, Hansen, Shachtman e Abern (nato a seguito dell’espulsione dei sostenitori delle posizioni di Trotskij dalle file del partito comunista americano stalinista) e l’American Workers Party diretto da A.J. Muste e Burnham (nato durante le lotte dei disoccupati americani negli anni della Grande Crisi del 1929). Nel marzo del 1936 il Workers Party decise a larghissima maggioranza di entrare nel Partito socialista e di far adottare ai suoi militanti una tattica entrista[1]. Quando nel 1938 questa esperienza venne interrotta, i trotskisti usciti dal Partito socialista diedero vita al Socialist Workers Party, sezione americana della Quarta Internazionale[2].

Lo scontro interno al partito, che vide Trotskij direttamente coinvolto, avvenne su questioni internazionali, più nello specifico su quegli avvenimenti che scossero moltissimo i sostenitori dell’Urss in tutto il mondo: la firma del patto Molotov-Ribbentrop (che sanciva l’alleanza tra Stalin e Hitler), la spartizione della Polonia e la guerra dell’Urss contro la Finlandia. Più in generale, però, l’oggetto profondo del contendere riguardò le considerazioni sulla natura sociale dell’Urss e la sua difesa dalle minacce dell’imperialismo.

La corrente di minoranza animata da Burnham, Shachtman e Abern mosse delle critiche alla definizione trotskiana dell’Urss di “Stato proletario degenerato” e propose una nuova definizione, quella di “collettivismo burocratico”. Secondo questa teoria l’Urss era un nuovo tipo di Stato, né capitalista né operaio, che esprimeva una tendenza generale dell’economia mondiale, riscontrabile tanto nel nazifascismo, quanto nel New Deal americano. Le differenze sociali e politiche tra questi stati non erano altro che diverse modalità con cui i manager pubblici e privati, i burocrati aziendali e statali, acquisivano il potere nella società.

La teoria del collettivismo burocratico non era nuova. Pochi anni prima era stata avanzata da Bruno Rizzi nel suo libro La bureaucratisation du Monde, in cui sosteneva la nascita di una nuova formazione sociale, né socialista né capitalista, dominata da una vera e propria classe sociale: la burocrazia. Secondo Rizzi, il dominio illimitato dello Stato, proprietario dei mezzi di produzione, sulle classi amministrate era il tratto strutturale comune che rendeva legittimo collocare fascismo e comunismo in un’unica categoria storico-sociologica. In altre parole, secondo Rizzi, il fascismo, il nazionalsocialismo, l’economia pianificata dell’Urss e il New Deal di Roosevelt si inscrivevano tutti sotto la stessa categoria del “collettivismo burocratico”. Il lavoro di Rizzi era stato citato criticamente dallo stesso Trotskij ne La rivoluzione tradita e l’autore aveva avviato una corrispondenza col rivoluzionario in esilio[3].

Condividendo gran parte delle riflessioni di Rizzi, Burnham e Shachtman avviarono un’aspra lotta in seno al Swp, in particolare contro la linea politica adottata fino a quel momento che vedeva i trotskisti americani difendere l’Urss dalle minacce del­l’imperialismo.

Il dibattito si accese nella riunione del Comitato nazionale del partito, svoltasi il 30 settembre 1939, in cui Burhnham presentò un documento in cui affermava che era impossibile considerare l’Urss uno Stato operaio e che il suo intervento nel Secondo conflitto mondiale era da ritenersi interamente subordinato al carattere imperialista del conflitto stesso. Nella stessa riunione Shachtman definì il patto Molotov-Ribbentrop e l’invasione della Polonia da parte dell’Armata Rossa un atto di politica imperialista che doveva far rivalutare la difesa incondizionata dell’Urss.

In risposta a tali posizioni, la maggioranza del Swp presentò una risoluzione che si dichiarava d’accordo con le analisi e le conclusioni politiche di Trotskij, espresse nel documento L’Urss in guerra. In questo documento, che costituisce un ottimo esempio del metodo dialettico e marxista adottato dal rivoluzionario russo, Trotskij si distinse per aver analizzato e spiegato la realtà internazionale attraverso la categoria della totalità. Il concetto di totalità struttura tutta la sua visione teorica ed ha il grandissimo pregio di non semplificare o banalizzare i singoli aspetti o gli elementi di un evento, di non considerarli come atomi vaganti nel processo storico, di non vederli come statici, autonomi o indipendenti l’uno dall’altro.

Secondo György Lukács, «solo operando questa connessione, nella quale i fatti singoli della vita sociale vengono integrati in una totalità come momenti dello sviluppo storico, diventa possibile una conoscenza dei fatti come momenti dello sviluppo storico, diventa possibile una conoscenza dei fatti come conoscenza della realtà»[4]. Trotskij ci riesce benissimo. I singoli elementi vengono sottratti al loro isolamento, per essere collegati a un diverso e complesso grado di evoluzione e in un sistema di reciproca dipendenza e di reciproco antagonismo. Prendendo a prestito le parole di Norman Geras, Trotskij è perfettamente «a suo agio sia quando cerca di collocare un evento politico nel suo contesto storico complessivo, sia quando porta la sua personale testimonianza sugli effetti contingenti di una causa strutturale più profonda, allargando o restringendo repentinamente il centro dell’attenzione, talvolta tenendo contemporaneamente d’occhio fenomeni ampi o particolari»[5].

Utilizzando questo metodo dialettico e la categoria interpretativa della totalità, Trotskij affermò che «solo allargando l’orizzonte alla prospettiva storica si può giungere ad elaborare un giudizio corretto su una questione come la sostituzione di un regime sociale con un altro»[6]. Come conseguenza diretta, la natura sociale dello stato sovietico non doveva e non poteva essere desunta in modo automatico dalla politica estera della direzione staliniana, come invece facevano Burnham e Shachtman, cadendo in errore. Il patto Stalin-Hitler, la spartizione della Polonia e la guerra contro la Finlandia fornivano tuttalpiù ulteriori elementi per misurare il grado di degenerazione della burocrazia sovietica, così come era già avvenuto pochi mesi prima con il tradimento stalinista della rivoluzione spagnola.

La natura sociale di qualsiasi stato deriva e dipende dai rapporti sociali che lo caratterizzano e non da questa o quella scelta politica. Indubbiamente, si possono individuare e delineare mutamenti “quantitativi” che possono indicare la strada verso cambiamenti anche sostanziali, ma finché questi mutamenti quantitativi non si trasformano in mutamenti “qualitativi”, non si può parlare di mutamento della natura sociale di uno stato. In altre parole, secondo Trotskij, la definizione dell’Urss come “Stato proletario degenerato” era ancora valida poiché «la nazionalizzazione del suolo, dei mezzi di produzione, dei trasporti e degli scambi, come pure il monopolio del commercio estero, formano le basi della società sovietica. E queste conquiste della rivoluzione proletaria definiscono ai nostri occhi l’Urss come uno Stato proletario»[7].

In questo quadro la burocrazia e lo stalinismo erano considerate contraddizioni proprie della fase di transizione tra il capitalismo e il socialismo, che dovevano essere superate con una “rivoluzione politica”, necessaria per espropriare la burocrazia del potere, e non con una rivoluzione sociale. Secondo Trotskij, nel ritenere la burocrazia una nuova classe sociale, Rizzi, Burnham e Shachtman, cadevano in errore e oltraggiavano il metodo scientifico marxista che si doveva alimentare esclusivamente di analisi di classe, con l’utilizzo di categorie economiche, sociologiche e modi di produzione ben precisi. La burocrazia non poteva essere considerata una classe poiché non introduceva una nuova forma di rapporti di produzione, ma si imponeva nel quadro dei rapporti di produzione collettivistici imposti dalla rivoluzione socialista dell’Ottobre 1917. Nonostante l’appropriazione indebita del potere politico operata dalla burocrazia ai danni del proletariato, l’interesse della burocrazia era quello di salvaguardare, con i propri metodi, le conquiste sociali della rivoluzione, poiché la sua condizione di privilegio era strettamente legata ad esse.

Per questi motivi, a dispetto della sua accanita lotta contro la burocrazia, Trotskij continuò a definirsi difensore incondizionato della Russia sovietica e dei rapporti sociali basati sulla proprietà statale. La sua difesa dell’Urss non era la difesa di ciò che in essa somigliava ai paesi capitalisti, ma di ciò in cui essa continuava a distinguersene, cioè i rapporti di produzione. La difesa dell’Urss non significava un riavvicinamento o un sostegno alla politica burocratica, bensì il tentativo di spiegare ai lavoratori di tutto il mondo ciò che dovevano difendere e ciò che dovevano tentare di rovesciare: difendere la proprietà statale e l’economia pianificata; rovesciare la burocrazia parassitaria e il Comintern. Come scrisse lo stesso Trotskij: «Una cosa è essere solidali con Stalin, difendere la sua politica, assumersene la responsabilità, come fa l’abominevole Comintern, un’altra cosa è spiegare alla classe operaia mondiale che, malgrado i crimini di cui si è macchiato Stalin, non possiamo permettere all’imperialismo di schiacciare l’Unione Sovietica, reintrodurvi il capitalismo e trasformare la terra della rivoluzione d’ottobre in una colonia. Questa spiegazione ci fornisce le basi per la nostra difesa dell’Urss»[8]. In altre parole, «la nostra difesa dell’Urss viene condotta con la parola d’ordine: Per il socialismo! Per la rivoluzione mondiale! Contro Stalin!»[9].

Nel congresso nazionale dell’aprile 1940, il dibattito interno al Swp si concluse con la sconfitta delle tesi di Burnham, Shachtman e Abern che, usciti dal partito, fondarono una nuova organizzazione politica.

Negli anni successivi, Shachtman elaborò il convincimento che il collettivismo burocratico fosse più reazionario del capitalismo, e trasse la conclusione che se un socialista avesse dovuto scegliere tra dei partiti socialdemocratici che appoggiavano il capitalismo e partiti comunisti, agenti del collettivismo burocratico, egli avrebbe dovuto schierarsi con i primi contro questi ultimi: «poiché, ed è attualmente la regola generale, i militanti non sono ancora abbastanza forti per lottare direttamente per la direzione; poiché lo scontro per il controllo del movimento operaio è, in realtà, tra riformisti e stalinisti, per i militanti sarebbe assurdo proclamare la loro “neutralità” e sarebbe loro fatale sostenere gli stalinisti. Essi dovrebbero seguire senza esitazioni la linea generale di appoggiare la burocrazia riformista nel movimento operaio, contro la burocrazia stalinista. In altri termini, poiché non è ancora possibile guadagnare i sindacati alla direzione dei militanti rivoluzionari, noi diamo apertamente la preferenza alla direzione dei riformisti che a loro modo mirano a conservare un movimento operaio, rispetto alla direzione degli stalinisti totalitari che puntano ad annientarlo»[10]. Quindi, come a gettare il bambino con l’acqua sporca, abbandonò definitivamente una visione rivoluzionaria ed internazionalista del processo di trasformazione sociale, entrando appieno nella logica di Guerra Fredda imperante nel Secondo dopoguerra, che costringeva a prendere posizione per uno o l’altro campo. L’indipendenza di classe veniva così definitivamente abbandonata, scivolando su posizioni compatibili con il sistema capitalistico o addirittura di una sua difesa.

Burnham divenne rapidamente un intellettuale reazionario. Il suo legame con i compagni con cui uscì dal Swp durò appena un mese. Nella sua lettera di dimissioni affermò di respingere la filosofia del marxismo, il materialismo dialettico, la teoria marxista generale della storia e l’economia marxista[11]. Nei decenni successivi, oltre a collaborare con riviste reazionarie e di estrema destra, si distinse per il suo impegno nella crociata anticomunista maccartista negli Stati Uniti.

La prima edizione americana di In difesa del marxismo uscì nel 1942. Nella prefazione a quella edizione Joseph Hansen scrisse che «gli eventi mondiali hanno confermato le analisi di Trotskij e rivelato l’assoluta bancarotta delle stime di minoranza. A quel tempo Trotskij avvertì dell’imminente assalto degli eserciti di Hitler e fece appello ai lavoratori coscienti per la difesa dell’Unione Sovietica. Burnham riteneva che la difesa dell’Unione Sovietica costituisse ipso facto un sostegno all’hitlerismo! Per quanto riguarda le loro analisi degli eventi […] i seguaci di Burnham sono gli ultimi al mondo oggi a volerne parlare!»[12] In questa prefazione erano ancora molto recenti gli strascichi del dibattito e le polemiche sviluppatesi nel Swp pochi anni prima. Le vicende del Secondo conflitto mondiale, tra cui l’invasione dell’Urss ad opera delle truppe hitleriane, scompigliavano vistosamente le basi teoriche dell’ex minoranza e ne manifestavano l’inadeguatezza metodologica persino nelle scelte politiche concrete.

Non banalizzando da una parte la complessità degli eventi con l’equiparazione tra fascismo e stalinismo e dall’altra non cadendo in retorico sostegno nei confronti dell’Urss, In difesa del marxismo diveniva così uno dei pochi strumenti utili in circolazione per una lettura marxista-rivoluzionaria delle vicende internazionali.

In Italia, l’unica edizione pubblicata prima del presente volume risale al 1969. Il contesto internazionale era assai mutato rispetto agli anni in cui In difesa del marxismo fu scritto, ma la sua utilità non veniva meno. Nella prefazione all’edizione italiana, Sirio Di Giuliomaria scrisse che l’importanza di questo testo era quella di essere un ottimo strumento per aggiornare le riflessioni sul grado di degenerazione burocratica dell’Urss, a seguito della vicenda ungherese del 1956 e di quella cecoslovacca del 1968; che era un ottimo strumento per comprendere le decolonizzazioni in atto a livello internazionale e i processi rivoluzionari in Cina, Cuba e Vietnam; che aiutava a comprendere le cause degli scontri tra i vari paesi socialisti, ognuno dei quali impegnato nella costruzione del proprio socialismo nazionale.

Oggi, a più di ottanta anni dalla sua stesura, come inserire In difesa del marxismo nel dibattito politico contemporaneo? Quale utilità teorica e pratica ancora possiede? Perché ripubblicarlo?

Potrebbe sembrare pura discussione accademica riproporre, con questo testo, i temi allora affrontati, ma in realtà non è così. Queste pagine, oltre ad essere utili per una memoria storica e per tracciare un bilancio a posteriori dei temi trattati, hanno elementi metodologici necessari per affrontare le questioni cruciali del secolo che stiamo vivendo. Quello che emerge dalla lettura di In difesa del marxismo non è tanto la veridicità o meno, la giustezza o meno, delle “previsioni” di Trotskij, estremamente ottimiste nel ritenere imminente una rivoluzione mondiale proletaria a seguito dello scoppio del Secondo conflitto mondiale oppure “preveggenti” nel comprendere le principali linee guida dell’ulteriore involuzione burocratica dell’Urss, in assenza di una auspicata rivoluzione politica che le avrebbe consentito di liberarsi della cancrena stalinista. Da questa raccolta emergono la validità di un metodo di indagine e di analisi della società e l’individuazione delle tendenze di fondo del processo storico. Questi elementi sono utili e necessari ancora oggi per una corretta interpretazione delle dinamiche sociali e politiche del nostro tempo e per delineare un agire politico nel solco del marxismo rivoluzionario.

Il marxismo rivoluzionario storicamente è sempre stato una teoria del movimento e non della stagnazione. In altre parole, il marxismo e la riflessione trotskiana nello specifico non significano una accettazione acritica dei risultati della loro ricerca, non significano un “atto di fede” in questa o in quella tesi di Marx, Lenin o Trotskij, non significano l’applicazione delle loro tesi in ogni luogo e in ogni tempo. Per ciò che concerne il marxismo rivoluzionario, l’“ortodossia” la si può riferire esclusivamente al metodo di indagine che consiste nell’analizzare le contraddizioni tra le forze sociali concrete che si sostanziano in una totalità di elementi in un dato momento storico, non quello di individuare il gioco di categorie economiche e sociali astratte ed immutabili. Il pensiero comune opera generalmente con riflessioni e categorie astratte e si limita ad indagare la realtà in modo statico: il capitalismo è sempre lo stesso, dicasi per la morale, la libertà, il socialismo, l’imperialismo, ecc… Come scrisse Trotskij: «Il vizio fondamentale del pensiero comune risiede nel fatto di desiderare di limitarsi a considerare le impronte senza movimento di una realtà la cui essenza è il moto eterno». Il pensiero dialettico marxista analizza invece i fenomeni nel loro continuo mutare e «fornisce i concetti, mediante approssimazioni più acute, correzioni, concretizzazioni, ricchezza di contenuto e flessibilità»[13], aggiornando il proprio bagaglio analitico e relazionandosi con nuove realtà sociali e politiche. In quest’ottica, il metodo dialettico utilizzato da Trotskij per definire la natura sociale dell’Urss non è certamente venuto meno con la caduta del socialismo reale. Il metodo è ancora valido anche se sono cambiati i soggetti oggetto d’indagine. Ancora oggi, la definizione della natura sociale di qualsiasi entità statale è possibile delinearla anche grazie al contributo teorico espresso da Trotskij in queste pagine. Altrettanto dicasi per la definizione della categoria dell’imperialismo, necessaria per la comprensione del contesto internazionale.

Il contesto mondiale è oggi molto diverso da quello di inizio Novecento o quello degli anni 1940-1990. Negli ultimi decenni abbiamo assistito all’implosione dell’URSS e delle Democrazie popolari dell’Europa orientale, al processo di mondializzazione capitalista, a tremende sconfitte subite dal movimento operaio nel suo insieme. Le borghesie imperialiste hanno approfittato del crollo del blocco sovietico e dell’apertura della Cina al capitalismo per creare un mercato mondiale dalle regole più uniformi per incrementare i loro capitali a volontà. Il contesto internazionale attuale è largamente strutturato dal conflitto tra gli Stati Uniti e la Cina, potenza in ascesa. Questo conflitto è in corso su tutti i continenti e in tutti i campi: economico, finanziario e monetario, diplomatico, geostrategico (controllo delle risorse e delle vie di comunicazioni) e per la leadership delle istituzioni internazionali.

La gerarchia degli Stati imperialisti è più complessa da stabilire rispetto al passato, anche se gli Stati Uniti restano sicuramente al primo posto. Infatti, nonostante abbiano registrano un relativo declino sul piano economico, sono gli unici che esercitano una concreta potenza egemonica in quasi tutti gli ambiti. La Russia non possedendo più i mezzi economici e finanziari che ha avuto in passato, ha rafforzato la sua influenza in alcune zone ben precise del pianeta, in particolare nel Medio Oriente e nell’Europa orientale. L’imperialismo europeo integrato non si è mai veramente costituito, anche a causa delle singole risposte nazionali alla grave crisi economica del 2008, lasciando il posto ai tradizionali imperialismi, sempre più deboli nel contesto internazionale, di Francia, Inghilterra e Germania. I BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) hanno tentato di giocare di comune accordo nell’arena del mercato mondiale, senza tuttavia grandi successi. I paesi che compongono questo fragile “blocco” non hanno manovrato tutti nella stessa direzione. Parafrasando Trotskij, abbiamo assistito ad uno “sviluppo ineguale” di ciascun imperialismo che ha comportato evoluzioni profonde rispetto al passato. Alcune nozioni classiche come quelle di “centro” e “periferia”, di “Nord” e “Sud” del mondo, devono essere rivalutate tenendo presente diversificazioni crescenti in ciascuno di questi insiemi geopolitici. Tali diversificazioni sono avvenute come diretta conseguenza delle importanti modifiche nella divisione internazionale del lavoro, attraverso la “finanziarizzazione” dell’economia, la deindustrializzazione di diversi paesi occidentali, in particolare europei, e un accentramento della produzione mondiale di merci in Asia.

In quest’area è nata una nuova grande potenza capitalista, la Cina. Un fatto di importanza capitale e il prodotto di una formazione sociale molto specifica e singolare, che dovrà essere ancora indagata negli anni futuri. Tuttavia, la definizione di capitalista per la Cina di oggi non deve stupire e non è affatto peregrina, bensì la diretta conseguenza di rilevanti mutamenti “quantitativi” e, in questo caso, anche “qualitativi” avvenuti negli anni: la svolta politica e sociale degli anni 2000 e le condizioni d’adesione al WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio), che hanno favorito una rapida penetrazione di capitali internazionali nel paese. Oggi in Cina è presente una vera e propria borghesia, nata dalla “borghesizzazione” della burocrazia, che si è trasformata in classe direttamente possidente dei mezzi di produzione. Dal 2013 la Cina ha dispiegato una politica estera sempre più ambiziosa, aggressiva, dal carattere decisamente imperialista, attraverso un possente dispiegamento militare, il consolidamento di zone di influenza, la subordinazione di governi, l’accaparramento di terre e di risorse minerarie, l’esportazione di capitali e la presa in controllo di imprese all’estero, con lo spossessamento e la rovina delle popolazioni locali, che subiscono duramente le conseguenze di queste misure. Inoltre, dal 2017, il gigantesco programma di espansione (le così dette “nuove vie della seta”) punta a moltiplicare la presenza economica, finanziaria e politica cinese nell’Oceano Indiano, in Medio oriente, in Africa, in Asia Centrale, in Europa e in America Latina.

Da queste valutazioni bisogna trarre la conclusione che, rispetto a quando è stato scritto In difesa del marxismo, non c’è più nel contesto internazionale una grande potenza non capitalista o anticapitalista da “difendere” per rilanciare una prospettiva rivoluzionaria mondiale su basi socialiste. Nel passato i marxisti hanno agito in un mondo dove le linee di demarcazione dei conflitti erano articolate secondo la dicotomia rivoluzione/controrivoluzione. Oggi non è più così, poiché la controrivoluzione è imperante ovunque e in ogni campo. Nel passato i marxisti hanno difeso le conquiste sociali della Rivoluzione d’Ottobre e della Rivoluzione Cinese per difendere quegli elementi necessari per un rilancio rivoluzionario mondiale. Oggi non è più così, poiché quegli elementi sono stati persi sia in Russia che in Cina.

Nonostante ciò, alcuni settori della sinistra radicale ancora oggi si comportano come se vivessimo nella seconda metà del secolo scorso, riproducendo schematicamente la logica “campista” della Guerra Fredda o della dicotomia capitalismo/socialismo. Il campismo, storicamente parlando, ha sempre provocato l’abbandono di alcune vittime, quelle che si trovavano dalla parte sbagliata del blocco, in nome della lotta contro “il nemico principale”. Ciò è ancora più vero oggi rispetto al passato, dal momento che il campismo porta a schierarsi nel campo di potenze non certo socialiste (Russia e Cina) o al contrario nel campo occidentale quando Mosca o Pechino sono percepiti come minaccia principale. In Siria, il campismo ha condotto a sostenere il regime assassino di Assad e l’intervento russo, oppure la Coalizione sotto egemonia degli Stati Uniti. Anche di fronte al martirio di Aleppo, una parte della sinistra radicale internazionale ha continuato a guardare altrove, per non rompere con la sua tradizione campista. Altre correnti si sono accontentate di condannare l’intervento imperialista in Iraq e in Siria, che occorre senza dubbio fare, senza dire nulla di ciò che è e di ciò che fa lo Stato islamico e senza chiamare alla resistenza nei suoi confronti. Questo tipo di posizione impedisce di porre chiaramente la questione della solidarietà internazionale tra le classi lavoratrici dei singoli stati, impedisce un’autonoma politica di classe dei lavoratori, delle lavoratrici e delle fasce popolari nei singoli paesi, impedisce l’emergere di una visione rivoluzionaria mondiale comune. Una visione rivoluzionaria e internazionalista dovrebbe invece aver ben presente che ogni arretramento e ogni sconfitta rappresentano un passo indietro per il movimento operaio mondiale mentre ogni vittoria, anche parziale, è un passo in avanti verso la rivoluzione mondiale.

In difesa del marxismo, in conclusione, ha il grande merito di indicare ai lavoratori e alle lavoratrici di tutto il mondo la strada per una lettura di classe delle dinamiche sociali, per una autonoma collocazione nelle dispute egemoniche internazionali, per una chiara e netta politica di classe per la trasformazione sociale. Grazie a In difesa del marxismo, nella “cassetta degli attrezzi” a nostra disposizione, abbiamo la possibilità di utilizzare strumenti di lavoro fondamentali per indagare la complessità delle questioni sociali e politiche del XXI secolo, senza il rischio di cadere in semplificazioni o grottesche banalizzazioni.

 

 

[1] L’entrismo è stata una pratica politica consistente nell’affiliazione ai grandi partiti di massa riformisti per costruirvi tendenze di sinistra rivoluzionarie. Con questa tattica si voleva mantenere un contatto quotidiano con decine di migliaia di lavoratori e partecipare alla discussione sugli obiettivi del movimento operaio. Il termine “entrismo” fece la sua comparsa con la “svolta francese” del 1934, quando Trotskij diede indicazione ai piccoli gruppi provenienti dall’Opposizione di Sinistra di aderire ai partiti socialisti nei quali emergevano correnti di sinistra. Questo entrismo non aveva nulla di clandestino. Si faceva difendendo apertamente le proprie idee e organizzando correnti chiaramente identificabili.

[2] Alla fine degli anni Quaranta il Socialist Workers Party terminò la sua affiliazione formale con la Quarta Internazionale a causa dei vincoli imposti dallo “Smith Act del 1940”, una legge che vietava di fare proselitismo per la rivoluzione e vietava l’“appartenenza” o “affiliazione” a strutture internazionali sovversive. Nonostante ciò, anche nei decenni successivi, il Swp rimase in stretto legame politico con la Quarta Internazionale.

[3] Cfr., Bruno Rizzi, Sei lettere a Lev Trotsky (dicembre 1938-luglio 1939), Associazione Pietro Tresso, https://www.aptresso.org/www.aptresso.org/archivio.html

[4] G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, Sugar, Milano 1967, p. 33.

[5] N. Geras, Sensibilità letteraria e cultura politica nel giovane Trotsky, in Aa.Vv., Trotsky nel movimento operaio del XX secolo, in «Il Ponte», anno XXXVI, nn. 11-12, La Nuova Italia, Firenze 1980, p. 1140.

[6] Pag. 48 del presente volume (riferimento all’edizione del 1969).

[7] L. Trotskij, La rivoluzione tradita, Schwarz, Torino 1956, p. 208.

[8] Pag. 291 del presente volume (riferimento all’edizione del 1969).

[9] Pag. 63 del presente volume (riferimento all’edizione del 1969).

[10] M. Shachtman, The Bureaucratic Revolution, Donald Press, New York 1962, p. 306.

[11] Cfr. Lettera di dimissioni di James Burnham dal Workers Party, pag. 344 del presente volume (riferimento all’edizione del 1969).

[12] J. Hansen, Introduction in In defense of marxism. Against the petty-bourgeois opposition, Pioneer Publishers, New York 1942, p. XXI.

[13] Pag. 112 del presente volume (riferimento all’edizione del 1969).