’77. Quando il Pci, tra riforme o rivoluzione, scelse l’austerità

Programma di ristabilizzazione capitalistica o programma di transizione? A proposito del programma a medio termine del PCI - Livio Maitan -

Programma di ristabilizzazione capitalistica o programma di transizione? A proposito del programma a medio termine del PCI – Livio Maitan –

L’elaborazione di un programma economico a medio termine corrisponde indubbiamente a un’esigenza di questa fase. È a tutti chiaro, infatti, che l’economia Italiana non potrà uscire dalla crisi profonda in cui si trova semplicemente grazie a misure congiunturali, a provvedimenti di emergenza, a prestiti o facilitazioni internazionali. D’altra parte, il significato reale delle stesse decisioni di breve termine, può apparire solo nel quadro di una prospettiva più ampia.

Il gruppo dirigente del PCI avverte tanto più acutamente questo problema in quanto nel corso dell’ultimo anno si è trovato ad appoggiare, direttamente o indirettamente, o, quanto meno, a non contrastare una serie di misure del governo Andreotti che hanno ottenuto qualche risultato, ma non esattamente nel senso delle prospettive e delle indicazioni che il PCI aveva espresso durante la campagna elettorale del 1976 e che tutt’ora costituiscono il leit motiv della sua propaganda e della sua agitazione.

Il tasso inflazionistico è stato ridotto, il deficit della bilancia dei pagamenti contenuto, gli impegni nei confronti dei creditori esteri sono stati mantenuti, la produttività è aumentata, sono ugualmente aumentate le ore lavorate, alcuni settori industriali importanti hanno cominciato a risalire la china, la dinamica salariale è stata rallentata e, globalmente, i redditi della classe operaia hanno subito una contrazione in termini di potere d’acquisto reale. Ma, a parte il fatto che già da questa schematica elencazione risulta come la borghesia sia riuscita, grazie all’abilità della parte padronale e alle sagaci manovre del governo Andreotti, a far ricadere il fardello della crisi sulle spalle dei lavoratori ben più di quanto non fosse riuscita a fare negli anni precedenti, quello che non si è affatto delineato è stato l’auspicato rilancio della produzione su scala sufficientemente estesa, anche se non del tutto generalizzata. Gli investimenti, d’altra parte continuano a non tirare. La vicenda di Gioia Tauro, il gigante siderurgico in gestazione condannato a morte ancor prima di vedere la luce, simboleggia la persistente assenza di prospettive reali per un’organica industrializzazione del Mezzogiorno, mentre la crisi del settore pubblico, dal “colosso” dell’acciaio dell’Italsider al “colosso” alimentare dell’Unidad, non contribuisce certo ad accrescere la credibilità del prospettato ruolo trainante di questo settore nell’auspicata trasformazione e ripresa.

La persistente caduta dell’occupazione, infine, e le minacce che gravano su industrie importanti per i prossimi mesi, se non addirittura per le prossime settimane, sono la traduzione più drammatica di una situazione di impasse e di paralisi.

È chiaro infine che ai suoi militanti e ai suoi elettori, il PCI non può accontentarsi di continuare ad indicare la prospettiva poco entusiasmante di un appoggio al governo Andreotti e alle sue misure di emergenza e neppure dell’accordo concluso in luglio tra i sei partiti cosiddetti dell’arco costituzionale. Deve mostrare o, per lo meno, dare l’impressione che i suoi atteggiamenti e i suoi obbiettivi attuali si inseriscono in un disegno a più vasto respiro la cui realizzazione avrebbe una portata ben maggiore delle misure tradotte in pratica lo scorso anno o prospettate a scadenze brevi e potrebbe assicurare effettivamente qualche vantaggio economico e politico alle masse operaie e agli strati sfruttati. La proposta di progetto a medio termine, elaborata da una speciale commissione del C.C. e portata a termine nel mese di giugno, si prefigge anche questo fine.

Gli obiettivi di trasformazione della società italiana

Partendo dai presupposti cui abbiamo accennato, il progetto del PCI non può non arrivare a porsi obiettivi interni al sistema e riproporre un’ennesima volta finalità così ovviamente auspicabili da apparire quasi un’espressione stucchevolmente ripetuta di pii desideri (sviluppo del Mezzogiorno, piena occupazione in primo luogo). Vedremo più avanti quale sia, nel contesto dato e anche in quello ipotizzato dai dirigenti del PCI per il breve e medio termine, l’effettiva realizzabilità di questi obiettivi.

Coerente con l’analisi, il progetto, più concretamente, si prefigge, non la rottura e il superamento dei meccanismi dell’economia capitalistica, ma l’eliminazione delle cause più specifiche della crisi, il superamento delle distorsioni, disfunzioni e deformazioni di quelle posizioni di rendita o più genericamente di parassitismo che sono non da oggi l’elemento centrale della critica e della denuncia del gruppo dirigente del PCI. Nella parte che riguarda, si badi bene, non il medio termine di tre cinque anni, ma la trasformazione sociale a più largo respiro, il progetto dice: “L’obiettivo fondamentale di un’espansione e riconversione della base produttiva implica profondi mutamenti nei rapporti sociali. Si tratta di ridurre effettivamente le vastissime sacche di parassitismo e di lavoro improduttivo, di rimuovere posizioni di privilegio, rigidità e deteriori equilibri, che fanno ostacolo all’avvio di un più sano ed organico processo di sviluppo economico e sociale, a una larga concentrazione di risorse materiali ed umane nelle attività produttive, nei settori essenziali per un’evoluzione del paese in senso moderno e progressivo. Ma una tale impresa può essere realizzata soltanto attraverso il consenso, e quindi può essere costruita soltanto attorno a nuove idealità e finalità, e svilupparsi a un tempo come riforma economica e come riforma intellettuale e morale della società” (Proposta di progetto a medio termine, pag. 25, Editori Riuniti, Roma).

L’inconsistenza e la genericità quasi banale degli obiettivi non sono compensate dalla proclamazione che segue immediatamente sulla necessità di lottare per “valori umanamente e socialmente avanzati e fermi orientamenti di lotta per la liquidazione, ecc.” (ibidem). Al contrario, il tentativo di dare una certa dignità ideologica a un gradualismo ultramoderato porta a formulazioni nebulose (“lavoro produttivo e creativo”) su “una nuova scala di valori” fondata su “una rivalutazione del lavoro produttivo socialmente utile” (pag.26). È significativo che già in alcuni degli interventi pubblicati sul progetto dal settimanale del partito Rinascita, questo concetto sia stato preso di mira. Basta ricordare un articolo di Claudio Napoleoni, un economista eletto deputato sulle liste del PCI, che pure non ha esitato ad usare anche di recente concetti e formule esplicitamente revisionistiche a sostegno della strategia di fondo del gruppo dirigente berlingueriano. “L’accostamento di queste due qualificazioni (produttivo e creativo) – scrive Napoleoni – mi sembra una costante del testo, che quasi tende a considerarle come reciprocamente implicantesi. La difficoltà che qui nasce è la seguente: se al termine “produttivo” si attribuisce il significato che esso ha nella società capitalista, i due termini non solo non si implicano reciprocamente, ma anzi reciprocamente si escludono. Produttivo significa infatti “produttivo di plusvalore” e quindi fa riferimento ad un lavoro astratto o alienato che è il contrario di un lavoro creativo, realizzato dall’uomo” (Rinascita, n. 31, 5 agosto 1977).

Altrove e a proposito di problemi particolari, il testo scade addirittura nella retorica più vacua, per esempio, quando afferma che alla scuola italiana bisogna “restituire dignità e serietà”, quando scrive che bisogna “espandere le capacità personali di ogni soggetto e gli scambi solidarli tra tutti gli uomini” (pag. 30) o quando parla dello sport come di “un mezzo di arricchimento fisico e morale dei singoli e conquista di un’importante dimensione collettiva” (pag. 31). Lo stesso problema dell’uguaglianza viene impostato in termini genericamente idealistici e democratici, mentre il paragrafo dedicato ai “rapporti sociali” è sintetizzabile in una proposizione che potrebbe essere fatta propria da un qualsiasi liberale o filantropo bene intenzionato. “Occorre promuovere da un lato un sostanziale elevamento della grande massa del popolo, e anzitutto degli strati più bisognosi e arretrati, anche attraverso politiche di redistribuzione del reddito, da perseguire sistematicamente incidendo su posizioni di privilegio, che alimentano intollerabili sprechi di ricchezza” (ibidem, pag. 32).

Se, d’altra parte viene toccata la tematica del movimento delle donne, il fatto tuttavia che la soluzione dei problemi venga presentata come realizzabile nel quadro della famiglia senza neppure il più prudente accenno di un superamento di questo istituto (pag. 30 e 34) è un’altra spia dell’ispirazione non solo gradualistica, ma addirittura gradualistica moderata del progetto in discussione.

È peraltro significativo che proprio all’inizio della prima parte venga introdotto in un capitolo separato, il tema dell’austerità. “L’austerità – si legge – è una necessità innegabile per far fronte alle difficoltà economiche attuali. Essa quindi non ha alternative, ma nella nostra concezione l’austerità non costituisce un accorgimento temporaneo, un breve periodo di dolorosi sacrifici per poi tornare agli indirizzi di prima, non è una riduzione momentanea di consumi concepiti come immutabili, bensì una proposta rivolta a cambiare, secondo un preciso programma, il modo di funzionare e le finalità sociali del meccanismo economico, l’orientamento degli investimenti, della produzione e della spesa pubblica, la qualità stessa del consumo, e a incidere quindi sui modi di vita che vi sono connessi, sui modelli di cultura e comportamento di interi settori della società italiana” (ibidem, pag. 21).

Per dirla un po’ volgarmente, qui gli egregi stesori del testo ciurlano nel manico. Non insensibili alle reazioni che le prediche sull’austerità hanno provocato in settori consistenti di elettori operai del partito e tra gli stessi iscritti, si sono sforzati di indorare la pillola mescolando insieme concetti diversi e allargando indebitamente la nozione di austerità. Ma la mistificazione – la parola è più che mai pertinente – consiste proprio in questo: dietro prospettive future di realizzazione quanto meno incerta o dietro cortine fumogene retoriche si nascondono i contenuti reali, cioè gli atteggiamenti già assunti e con tutta probabilità destinati a ripetersi nel prossimo avvenire, non a proposito di un concetto metastorico di austerità, bensì nei confronti della concreta, prosaica austerità che il governo Andreotti ha già cominciato ad imporre, dal suo punto di vista non senza qualche successo, alle masse lavoratrici del paese.

Per il resto il progetto non avanza temi od obiettivi nuovi. Così ritorna, nella sostanza, il concetto di una nuova fase della “rivoluzione democratica e antifascista” con l’auspicio della “valorizzazione della matrice antifascista e del carattere progressivo del patto costituzionale”; così ricorrono i motivi sul “governo democratico dell’economia”, “sul decentramento e il riordinamento delle strutture dello Stato”, sullo “sviluppo del pluralismo democratico, sociale e politico”, “sul rinnovamento e la democratizzazione della Comunità economica europea” (pp. 36-41).

È ripreso, naturalmente, anche il motivo degli “elementi di socialismo” che potrebbero essere introdotti gradualmente “nel funzionamento dell’economia e della società”. Ma, se è possibile, tali elementi appaiono ancora più diluiti e inconsistenti che in formulazioni precedenti. Sono, cioè per riprendere le esatte parole del testo: “… sono innanzitutto la necessità e la scelta di una direzione consapevole dello sviluppo della società, di una effettiva programmazione dell’economia, ponendo a base di tale processo esigenze di giustizia, di solidarietà, di libertà, di elevamento della condizione umana” (ibidem, pag. 19).

È ovvio che su simili “esigenze” ci possono essere, almeno in linea teorica, le convergenze più ampie. Tali convergenze sono prospettate anche per questa fase di “trasformazione e rinnovamento della società italiana” – e non solo per il medio termine – su una base policlassista, si ipotizza cioè che al loro soddisfacimento possano contribuire “forze di diversa ispirazione politica, nel rispetto delle concezioni generali proprie di ciascuna componente del movimento democratico e popolare”.

La realtà è che non esiste più in generale una distinzione netta tra il programma di trasformazione più generale e il progetto a medio termine. Questa è la logica conseguenza di una concezione gradualistica che tende a eliminare ogni salto qualitativo in termini di potere e di contenuti di classe e a derubricare, per così dire, gli scontri tra le classi contrapposte a “confronti” nel quadro istituzionale dato, tra onorati protagonisti di un quasi idilliaco pluralismo politico e sociale.

La battaglia per un programma di transizione

L’elaborazione di un progetto a medio temine da parte del movimento operaio – politico e sindacale – in questa fase, non è affatto da respingere. La concezione leninista – non dispiaccia ai revisionisti vecchi e nuovi e a tutti i più o meno fantasiosi “inventori” di verità sulla transizione – ha sempre respinto la separazione sterilizzante tra un programma minimo di rivendicazioni immediate e un programma massimo con gli obiettivi connessi alla conquista del potere. Ha sempre ribadito l’essenzialità del ponte, dell’anello di congiunzione rappresentato da un programma di transizione. Ma lo scopo di tale programma – presentato in termini di attualità nei periodi di grandi crisi sociali e politiche, in situazioni rivoluzionarie o prerivoluzionarie – non è mai stato concepito come quello di correggere o eliminare le “distorsioni” del sistema, di promuovere una sua “democratizzazione”, bensì come quello di indicare ai movimenti di massa obiettivi cui le masse fossero sensibili e il cui raggiungimento comportasse l’attacco al quadro stesso del sistema. Per utilizzare una terminologia corrente, un programma di transizione, ispirato ai criteri leninisti, lungi dal preoccuparsi di rispettare certe “compatibilità”, tende a esaltare le “incompatibilità”, nella prospettiva di una lotta per il potere.

Nell’intervento sul progetto che già abbiamo citato, Claudio Napoleoni ha scritto: “Siamo in una situazione nella quale la classe operaia ha ottenuto risultati che non sono compatibili con il mantenimento di un meccanismo privatistico di sviluppo economico, ma nella quale d’altra parte la produzione della ricchezza materiale dipende sempre più da quel meccanismo”.

A parte la forzatura della prima affermazione, la constatazione è, grosso modo, giusta. Va aggiunto subito che una situazione del genere non può protrarsi indefinitivamente e che sarebbe sbagliato considerarla irreversibile (come pare Napoleoni sia incline a fare).

Le forze sociali antagoniste, a differenza dei giocatori di una partita di scacchi, non possono accettare che uno stallo ponga termine al loro confronto. Il problema è in quale direzione sarà rotto l’attuale relativo equilibrio delle parti contrapposte, quale classe riuscirà ad avere il sopravvento imponendo proprie soluzioni. La borghesia deve tendere a una più o meno ampia restaurazione: non per ottusità reazionaria o insensibilità politica, ma per le esigenze vitali dell’accumulazione, del funzionamento del sistema. Se non ci riesce, dovrà affrontare una esplosiva situazione interna e sul mercato internazionale, sarà preda dei pescecani che, contrariamente a quanto sembrano sognare gli autori del progetto, non sono disposti ad applicare alcuna regola “corretta”.

La classe operaia non deve illudersi di poter restare indefinitamente arroccata sulla difensiva senza subire una sconfitta grave. In linea astratta, può scegliere tra l’avviarsi a uno scontro ravvicinato e il prepararsi a una prova di forza a medio termine. Per tutta una serie di ragioni – in primo luogo per i rapporti di forza politici esistenti nel suo seno, cioè data la schiacciante preminenza delle organizzazioni riformiste – è senz’altro preferibile puntare sulla seconda alternativa. Un progetto economico a medio termine, concepito nella logica di un programma di transizione, cioè in un’ottica non di gradualismo riformista, ma di rottura rivoluzionaria, può e deve essere uno strumento valido per costruirla.

Per limitarci a qualche indicazione a titolo di esempio, la difesa dell’occupazione dovrà essere prospettata dall’angolo di visuale della priorità degli interessi operai con la piena consapevolezza che ne deriveranno contraddizioni laceranti che non potranno essere avviate a soluzione se non con la instaurazione di un nuovo potere politico, di un nuovo sistema sociale. L’ asse centrale delle lotte dovrà essere una ridistribuzione del lavoro esistente che implichi una riduzione delle ore di lavoro senza riduzione di salario. Parallelamente si dovrà porre l’obiettivo di colpire con la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio (perché non si ripeta quanto avvenuto con la nazionalizzazione dell’energia elettrica) dei grandi gruppi responsabili e profittatori della crisi, e della grande intermediazione commerciale (a cominciare da quella che opera nel settore delle importazioni di generi alimentari essenziali). Contro l’inflazione, si impone e si imporrà una difesa intransigente della scala mobile, unica parziale garanzia dei redditi dei lavoratori, con forme di controllo operaio dal livello dei costi di produzione a quello dei prezzi al consumo.

I riformisti del PCI obietteranno che questa è una prospettiva di guerra tra le classi e di dimensioni internazionali. Ma è forse possibile eludere questa guerra? È impossibile, senza essere incoscienti, ignorare o sottovalutare la drammaticità della situazione? Il problema è mettersi in condizione di vincere. La base di un ragionevole ottimismo – al di là delle enormi difficoltà e dei tremendi rischi –            è che a una dinamica di lotta anticapitalistica sono interessati oltre i tre quarti della popolazione attiva del paese; e che importanti partite si giocano nei prossimi anni in paesi decisivi come la Francia e la Spagna, dove il movimento operaio è tuttora in fase ascendente.

28 agosto 1977

(Articolo pubblicato su Bandiera Rossa n° 15, ottobre 1977)

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